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Creato da: alflex0 il 18/09/2008
DIRITTO,GIUSTIZIA E LEGALITA'

 

 

Un errore abolire il Coreco

Post n°16 pubblicato il 27 Aprile 2009 da alflex0
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osservatorio

Un errore abolire il Coreco

 di ALF....

 (pubblicato sul settimanale “Il Corsivo” n.14 del 25 aprile 2009 pag.11)

La legge costituzionale n.3 del 2001, modificando il titolo V della parte seconda della Costituzione ha introdotto profonde innovazioni nel nostro ordinamento, nella direzione di incrementare il potere legislativo regionale. Una delle principali conseguenze di tale riforma, a seguito della abrogazione dell'art 130, è stata l’eliminazione tout-court del sistema dei controlli negli Enti locali, in particolare i controlli di legittimità, prima affidati ai Coreco. Le prime regioni che hanno abolito i controlli sono state, nell’estate del 2002, la Lombardia e la Puglia, guidate rispettivamente da Formigoni e Fitto. Fino al 2002 gli Enti locali erano sottoposti al controllo delle regioni attraverso organi neutrali (Coreco). Quello che nel bene e nel male era stato un sistema che aveva assicurato il buon funzionamento degli enti locali e l’oculato utilizzo delle risorse pubbliche è apparso all’improvviso in contrasto con il sistema costituzionale delle autonomie locali. Con l’attuazione del federalismo si è introdotto il concetto della  "pari soggettività" o "pari dignità" costituzionale fra Stato, Regioni, Comuni, Province e Città Metropolitane, enti autonomi tutti costituenti l'organizzazione dei pubblici poteri, per cui l’assetto della repubblica non è più piramidale ma orizzontale. Secondo questa singolare visione di federalismo il controllo di legittimità sugli atti, esercitato da un organo che emana da un'altra amministrazione (statale o regionale), comporterebbe una subordinazione dell’ente destinatario del controllo. Eppure nel resto d’Europa, anche negli stati federali, esistono controlli successivi che riguardano la legittimità degli atti, la loro efficacia, economicità e la regolarità dei bilanci. In Spagna e Germania, caratterizzati da forti autonomie, i controlli sono su base regionale, mentre nella realtà anglosassone sono di competenza  dello stato centrale. Addirittura in Irlanda e Svizzera agli organi regionali di controllo sono conferiti veri e propri poteri giurisdizionali. Obiettivamente non crediamo che le regioni autonome spagnole o quelle tedesche si sentano subordinate o menomate nella loro autonomia per il fatto di essere soggette a controlli esterni. Ecco quindi che non viene minimamente lesa l'autonomia degli Enti locali ex art. 114 della Costituzione. Peraltro l'art. 41 terzo comma della nostra costituzione prevede che "La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali". Una volta abrogati i Coreco, come è avvenuto dal 2002 è sostanzialmente rimasta priva di controllo l’attività economica delle amministrazioni locali, in continua espansione. In mancanza di organi di controllo tale funzione è stata di fatto delegata all’autorità giudiziaria penale che potrà perseguire gli eventuali reati, ma difficilmente potrà bloccare la continua emorragia di risorse economiche degli enti pubblici. L'autonomia non può essere interpretata quale assenza di ogni forma di controllo e di verifica della legalità. In ogni sistema democratico non vi è alcun potere senza controllo. Chi amministra deve sottoporre le proprie scelte e decisioni, oltre che al giudizio politico di chi lo ha eletto, anche alle verifiche della legalità, della efficacia, efficienza ed economicità. Un ripensamento dei controlli amministrativi appare oggi quanto mai urgente e necessario ed in tal senso un ampio dibattito è già in corso, anche in considerazione dell’esponenziale indebitamento di tutti gli enti locali. Certamente non è utile alla collettività gestire le diffuse illegalità nell'attività amministrativa con l’ausilio del magistrato penale o del giudice amministrativo che finirebbero con lo svolgere un ruolo di supplenza, senza alcun risultato pratico. La portata dei dissesti amministrativi dei vari enti locali da quando è stato soppresso ogni sistema di controllo esterno deve ancora esplodere nella sua drammaticità, ma per avere un’idea di cosa ci attende nei prossimi anni è sufficiente considerare quello che è avvenuto per il settore della sanità che, dopo essere stato svincolato dai controlli esterni dei Coreco ed affidata all'autonomia  dei direttori generali di nomina regionale, ha dato dimostrazione di gravissima inefficienza nella gestione delle risorse pubbliche.

* Avvocato

 

 

 
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Caso Eluana,indispensabile il consenso

Post n°15 pubblicato il 16 Febbraio 2009 da alflex0
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    Caso Eluana, indispensabile il consenso

di  ALFREDO ..... 

(pubblicato sul settimanale  “Il Corsivo” n. 5 del 14 febbraio 2009 pag.8 e 9)

 

La vicenda di Eluana Englaro costituisce il primo caso di stato vegetativo permanente portato all'attenzione della giustizia italiana. Come è noto, la giovane il 18/01/92, a seguito di un incidente stradale, riportava un gravissimo trauma cranico con danni alla corteccia cerebrale, zona da cui dipende la vita cognitiva, precipitando in uno stato di coma vegetativo irreversibile. Il genitore, Beppino Englaro, ritenendo che le condizioni della figlia fossero prive di dignità, che non vi erano possibilità di miglioramento e che l’alimentazione forzata cui era sottoposta fosse un vero e proprio trattamento terapeutico, legittimamente rifiutabile, ha promosso vari procedimenti innanzi ai giudici di merito e di legittimità rivendicando il diritto di ottenere la sospensione dell’alimentazione artificiale. La problematica presenta numerosi aspetti controversi sia in ordine alla qualificazione della nutrizione artificiale come terapia medica ed accanimento terapeutico, sia sotto l’aspetto della manifestazione della volontà del soggetto sottoposto al trattamento, se debba essere espressa o presunta, sia,  infine, in relazione all’attuale vuoto normativo in materia di autodeterminazione su quali trattamenti sanitari accettare e quali rifiutare. Nel nostro ordinamento non è prevista l’eutanasia, ma è consentito il diritto, garantito dagli artt.2 e 32 della Costituzione, di non accettare terapie invasive. I giudici che sono stati investiti della vicenda Englaro hanno affrontato tali problematiche. Nella fattispecie, dopo la dichiarazione di interdizione e la nomina a tutore del genitore, quest’ultimo ha adito i magistrati in sede di volontaria giurisdizione prima innanzi al Tribunale di Lecco ed in sede di reclamo alla Corte d’Appello di Milano. Dopo i provvedimenti negativi il sig. Beppino Englaro ha proposto ricorso in Cassazione. Con ordinanza n.8291/05 la Cassazione, senza entrare nel merito, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso affermando che, non essendo Eluana in condizione di esprimere la propria volontà ed essendo la richiesta del padre-tutore in potenziale conflitto con gli interessi dell'interdetta, doveva essere nominato un curatore speciale o un protutore. Dopo la nomina del curatore speciale l’iter giudiziario è stato riproposto fino a che la Cassazione, con sentenza n.21748/07, ha testualmente affermato: “è escluso che l'idratazione e l'alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscano, in sé, oggettivamente una forma di accanimento terapeutico, pur essendo indubbiamente un trattamento sanitario e che poteva essere autorizzata l'interruzione soltanto in presenza di due circostanze concorrenti: a) la condizione di stato vegetativo del paziente sia apprezzata clinicamente come irreversibile,….secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti, di recupero della coscienza e delle capacità di percezione; b) sia univocamente accertato, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, dalla sua personalità e dai convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che ne orientavano i comportamenti e le decisioni, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento”.  A seguito di tale pronuncia, la Corte d’Appello di Milano, con decreto del 09/07/08, ha disposto l’interruzione dell’alimentazione. Tale provvedimento è stato impugnato dalla Procura Generale della Repubblica di Milano con richiesta di sospensione dell’esecuzione, su cui la Corte ambrosiana ha  emanato una decisione di non luogo a provvedere. A sua volta la Cassazione, sempre investita dalla procura Generale, con sentenza n.2751/08, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione attiva. Della questione si è infine occupata anche la Corte Costituzionale, in sede di conflitto tra poteri dello Stato, su iniziativa di Camera e Senato, che ha dichiarato inammissibili i ricorsi presentati avverso la sentenza della Cassazione ed il decreto della Corte d'appello di Milano, motivando che: “non rileva la sussistenza nella specie di indici atti a dimostrare che i giudici abbiano utilizzato i provvedimenti censurati, aventi tutte le caratteristiche di atti giurisdizionali loro proprie e, pertanto, spieganti efficacia solo per il caso di specie, come meri schermi formali per esercitare, invece, funzioni di produzione normativa o per menomare l'esercizio del potere legislativo da parte del Parlamento, che ne è sempre e comunque il titolare". Il resto è storia più recente che passa attraverso la determinazione del padre di Eluana di dare esecuzione al decreto della Corte d’Appello, il tentativo del Governo di bloccarne gli effetti, prima attraverso la circolare Sacconi e poi attraverso un decreto legge varato in tutta fretta dal Consiglio dei Ministri soltanto il 06/02/09, trasformato, dopo il rifiuto di controfirma da parte del Capo dello Stato, in disegno di legge ed abbandonato a seguito del decesso di Eluana. Questa è la sintesi dell’intera vicenda processuale ed umana di Eluana e della sua famiglia, che coinvolge tutti e pone numerosi interrogativi. Al di là delle sensibilità di ognuno, un fatto importante è da rimarcare ed è quello che l’intervento legislativo che il Parlamento si è impegnato a porre in essere non potrà andare in direzione della compromissione della libertà individuale e della libera e cosciente determinazione su quelle che sono le scelte di fine vita. In caso contrario si rischia di ritornare a quella diffusa pratica clandestina per cui viene rimesso alla coscienza del medico il pietoso compito di staccare la spina, pratica cui Beppino Englaro si è rifiutato di ricorrere.    

* AVVOCATO

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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Inaugurazione anno giudiziario

Post n°14 pubblicato il 09 Febbraio 2009 da alflex0
 

Inaugurazione anno giudiziario e la riforma della Giustizia

          

 

GIUSTIZIA, è il momento della riforma                                 

di ALFREDO ....

(pubblicato sul settimanale “Il Corsivo” n.4 del 7 febbraio 2009, pag.11)

 Anche quest’anno ha avuto luogo presso la Corte di Cassazione e nelle sedi di Corte d’Appello l’inaugurazione dell’anno giudiziario nel corso della quale, Presidenti e Procuratori generali hanno svolto le loro relazioni sulla giustizia. Ancora una volta sembra di assistere al ripetersi del medesimo copione che viene aggravandosi per l’inerzia del legislatore che, al di là di qualche animato dibattito, non affronta poi in concreto la questione della riforma organica di tutto il sistema giustizia. L’inaugurazione dell’anno giudiziario rappresenta quindi una cerimonia nel corso della quale si assiste all’elencazione di quelli che sono i cahiers de doleances dei vari protagonisti che operano nel settore giustizia, ma, come sempre, Governo e Parlamento fanno poco per risolvere il problema nel suo complesso con soluzioni moderne, in linea con il resto dell’Europa e, soprattutto, nel rispetto dei diritti e delle libertà dei cittadini. Nella sua relazione introduttiva perfino il Primo Presidente della Corte di Cassazione, dott. Vincenzo Carbone non ha potuto fare a meno di denunciare l’esistenza di “un forte disagio dei cittadini nei confronti dell’apparato giudiziario, che produce un diffuso scetticismo nei confronti dello Stato di diritto e della democrazia”, auspicando che la cerimonia dell’inaugurazione fosse “un’opportunità per una riflessione approfondita e trasparente sullo stato della Giustizia in Italia,… sulle criticità da superare e sugli obiettivi da raggiungere, sulle aspettative che la comunità ha nei confronti della Giustizia e sulle azioni e gli strumenti da porre in essere per soddisfare quelle aspettative e per riconquistare fiducia”. Il dott. Carbone ha ancora parlato di interventi per una “Giustizia certa, pronta, efficace”…una Giustizia rispettosa dei diritti e delle libertà dei cittadini, una Giustizia che riacquisti la loro fiducia e che restituisca ad essi serenità e certezza. In tale ottica - ha ancora proseguito il dr. Carbone - la Giustizia va concepita non come “potere”, ma come “servizio”…, al quale si chiede, in primo luogo, funzionalità ed efficienza.  Un servizio da valutare nel suo contesto e in considerazione dei suoi utenti, i cui costi e i cui problemi non sono da considerare asintotici, ma finalizzati ad accrescere il benessere dei cittadini, l’affidabilità istituzionale, la crescita e la competitività del Paese, nel contesto europeo e mondiale”. Ma, nonostante i nobili intenti e le migliori intenzioni degli addetti ai lavori, come si legge sempre nella citata relazione, l’Italia, quanto a tempistica il “servizio Giustizia”, si colloca al 156° posto a livello mondiale, dopo gli stati Sao Tomè e Principe, Guinea Bissau, Gabon, Angola ed Egitto, con una media di ben 1210 giorni per la definizione di un processo di recupero di un credito commerciale. Anche il  Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, dott. Vitaliano Esposito, nel corso del suo intervento, ha dato prova di una nuova e diversa visione della “giustizia” spingendosi ad affermare:“pensare alla giustizia non in termini di una sacralità inarrivabile, ma come un servizio sociale -al pari della sanità o dell’istruzione- che deve essere portato a livelli sostenibili di efficienza e di effettività. Il dr.Vitaliano non ha sottaciuto l’esistenza di “talune deprecabili anomalie nella conduzione di indagini” ed ha poi, concluso sostenendo “la cultura dei diritti dell’uomo deve essere la stella polare di ogni riforma, sostanziale e processuale”. Il pensiero manifestato dai due massimi esponenti della Magistratura italiana induce a considerare  che finalmente anche nella Magistratura si è fatta strada una diversa concezione del ruolo che la stessa deve e può svolgere in uno stato moderno e democratico. Credo quindi che questo il momento più propizio per varare quella riforma organica che tutti si aspettano, che sia in sintonia con i concetti di Giustizia rispettosa dei diritti e delle libertà dei cittadini, di una Giustizia intesa non più solo come potere, ma come un servizio sociale che deve essere portato a livelli di efficienza e di effettività, al quale si chiede funzionalità ed efficienza. Dunque  i tempi sono maturi per la separazione delle carriere tra giudicante e requirente, per un controllo sulla produttività, efficacia ed efficienza del servizio reso e per l’introduzione dell’azione di responsabilità civile e contabile a carico dei Magistrati che sbagliano nell’esercizio delle loro funzioni. Se l’Italia non vuole continuare ad essere il paese delle controriforme, deve affrontare con priorità la riforma della Giustizia, non tanto per assecondare istanze di gruppi organizzati, che spesso rappresentano interessi  di potere o di corporazione, ma per tutelare autenticamente l’individuo, come soggetto portatore di diritti e di interessi, che non possono continuare ad essere sacrificati in nome di sterili, retorici e strumentali proclami.       

                                                                   *Avvocato
                      

                                 
 
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Post n°13 pubblicato il 22 Dicembre 2008 da alflex0
 
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(pubblicato sul settimanale  “IL Corsivo”  n.49 del 20 dicembre 2008 pag.11 

Giustizia

Riforma ibrida,

cammino da completare

di ALFREDO L......

Come da qualche tempo accade all’inizio di ogni legislatura anche in questa si è riparla di giustizia. Nell’ambito di tale dibattito si è riproposta la questione della separazione delle carriere dei magistrati. Il pm cui è  attribuito l’esercizio obbligatorio dell’azione penale rappresenta il diritto potestativo dello Stato di punire il colpevole di un reato ed è la parte pubblica del processo penale che si contrappone al difensore dell’indagato prima e dell’imputato in caso di rinvio a giudizio. In Italia ed in tutti gli altri stati dove vige il principio della obbligatorietà il pm deve promuovere l'azione penale tutte le volte in cui abbia notizia di un reato, mentre negli ordinamenti di common law e di  civil law, dove vige il principio della opportunità, il pm decide se perseguire un reato secondo quelle che sono le scelte generali di politica criminale. In realtà, nonostante il principio della obbligatorietà, in Italia il pm di fatto ha un certo margine di discrezionalità  e spesso, nel mare magnum di notizie di reato  sceglie i reati da perseguire. Nel nostro ordinamento il pm svolge le sue indagini preventivamente per individuare i responsabili dei  reati e raccogliere le prove con l’ausilio della Polizia giudiziaria, mentre negli ordinamenti di common law le indagini sono svolte dalla polizia che trasmette gli elementi raccolti al pubblico ministero che decide se esercitare o meno l'azione penale. Nel 1989 il legislatore procedette alla riforma del processo penale abbandonando il sistema inquisitorio ed optando per un sistema ispirato al modello anglosassone. Tuttavia, tale scelta non fu portata fino in fondo ed il prodotto che ne è venuto fuori è un ibrido che ha ancora di più aggravato la situazione della giustizia penale. Infatti solo con una buona dose di ipocrisia si può parlare di parità tra accusa e difesa senza tenere conto che da un lato sotto il profilo della raccolta delle prove il pm dispone della polizia giudiziaria e di mezzi il cui costo è scaricato sul contribuente, mentre l’indagato o l’imputato per approntare una difesa tecnica adeguata deve avvalersi di consulenti ed investigatori privati con notevoli costi economici. Altrettanto ipocrita è la pretesa che il pm debba contemporaneamente ricercare le prove a carico dell’indagato e nello stesso tempo quelle che ne dimostrino l’innocenza. Il fatto che nel nostro ordinamento giudice e pm facciano parte dell’ordine giudiziario è una vera e propria anomalia, tanto è vero che con una riforma costituzionale del 1999 il Parlamento modificò l’art.111 della Costituzione, stabilendo in materia di giurisdizione che il processo debba svolgersi nel contraddittorio delle parti, in  condizioni di parità e davanti a un Giudice terzo ed imparziale. Fino a quando sarà consentito il passaggio tra le funzioni di giudicante ed inquirente e viceversa il dettato costituzionale è destinato a rimanere inattuato poiché il pm non ha nulla a che vedere con la giurisdizione, essendo a tutti gli effetti parte. Si impone pertanto una riforma che porti a compimento quel cammino iniziato alla fine degli anni 80. La pubblica accusa, rappresentando il diritto potestativo dello Stato di perseguire i reati e di dettare le scelte di politica criminale, non potrà non dar conto del suo operato sia sotto l’aspetto della efficacia nella repressione dei reati e della efficienza dell’uso delle risorse pubbliche. Corollario della riforma dovrà essere la previsione di una responsabilità civile dei pubblici accusatori sulla stregua di quella prevista per tutti i pubblici funzionari. Un esempio che si potrebbe mutuare in quanto è da tempo collaudato è quello in vigore nei paesi anglosassoni, in particolare negli Stati Uniti, dove i capi degli uffici della procura sono eletti. Questo sistema rappresenta il grado più alto sotto l’aspetto della democrazia in quanto l’attività e le scelte di politica criminale sono sottoposte al vaglio degli elettori. Il fatto che da ogni parte si invochi un intervento sulla giustizia non deve portare a facili entusiasmi, dal momento che ai dibattiti debbono seguire le scelte conseguenti, anche se susciteranno  malumori di chi difende lo status quo. Trovare equilibrismi o ricorrere ad ulteriori compromessi come quello della separazione delle funzioni significherebbe non attuare il dettato costituzionale e perdere l’ennesima occasione di realizzare finalmente un sistema processuale penale in cui vi sia l’effettiva parità tra le parti in gioco (accusa e difesa) e soprattutto un giudice terzo che non solo sia tale, appaia anche tale.

* Avvocato

 
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Taglio-Province, meno costi

Post n°12 pubblicato il 12 Novembre 2008 da alflex0
 

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  Taglio-Province,meno costi

(Pubblicato sul settimanale “Il Corsivo” n. 43 del 8 novembre 2008 pag.11)

Il numero delle province italiane è progressivamente aumentato dal dopoguerra ad oggi anche in considerazione del fatto che in occasione della istituzione di nuove province non si è registrato mai alcun caso di accorpamento o soppressione. Attualmente le province italiane sono 110, includendo quelle di Barletta-Andria-Trani, di Fermo, di Monza, di recente istituzione e considerando che la Regione Valle d'Aosta accorpa anche le funzioni provinciali. Secondo recenti studi dell’Unione delle Province Italiane la somma dei bilanci di tutte le Province italiane nel 2006 ammontava a circa 115 miliardi di euro. Di queste soltanto il 27% (31 miliardi) è stato utilizzato in favore delle popolazioni residenti sotto forma di servizi, mentre il rimanente 73% (84 miliardi) è servito per ricoprire i costi degli enti: personale, utenze, affitti, spese di rappresentanza, auto blu, ecc.. Abolendo le province, si otterrebbe quindi una  drastica riduzione dei suddetti costi e nel contempo di tutto quel ceto politico-burocratico che dalle stesse trae i suoi consistenti redditi (presidenti di provincia, consiglieri, assessori e consulenti vari interni ed esterni). Attualmente le Province costano ad ogni cittadino circa 1712 euro all'anno, pari all'intero prelievo delle imposte sui redditi. Le risorse economiche risparmiate  potrebbero invece essere utilizzate in settori strategici come lavoro, scuola sanità, giustizia, sicurezza e trasporti. L'abolizione delle Province,  divenute ormai veri e propri serbatoi di voti per i partiti, unita a quella delle Comunità Montane, che sono enti obsoleti, inutili e dispendiosi, nonché, l’accorpamento dei piccoli Comuni, consentirebbe di risparmiare costi che si stimano non inferiori a 68 miliardi di euro all’anno.  A ciò va aggiunto che a seguito della revisione della Costituzione, attuata con la legge costituzionale n.3 del 2001, lo Stato ha  trasferito molte competenze prevalentemente ai Comuni ed alle Regioni, non considerando le province, cui sono riservate competenze residuali che possono essere loro conferite di volta in volta dalle Regioni. Le province hanno attualmente organici eccessivamente ampi in relazione ai compiti che in concreto svolgono ed  hanno competenze che spesso si sovrappongono a quelle degli altri enti locali e soprattutto  la più bassa produttività all'interno delle pubbliche amministrazioni. E’ sufficiente effettuare una analisi comparativa tra le funzioni limitate e marginali svolte dalle province e da altri  enti come le comunità montane ed i piccoli comuni, il costo per il contribuente ed i benefici, per giungere all’unica conclusione possibile che è quella di abolire tutti questi enti inutili. Naturalmente l’abolizione delle province non è così semplice come apparentemente può sembrare, non potendo essere attuata con una legge ordinaria, essendo invece necessaria una nuova riforma costituzionale. Infatti l’art.114 della vigente Costituzione prevede che la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato che sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni. Dunque il percorso per giungere al traguardo dell’abolizione delle province è irto di difficoltà considerando la sicura resistenza di tutto quel ceto politico che si vedrebbe privato di un grosso settore dove sono collocati i vari esponenti locali, che dalle province traggono remunerazioni, redditi oltre che consensi elettorali. Basti pensare ai numerosi casi di leader politici locali che contemporaneamente rivestono le funzioni di consigliere provinciale, comunale e regionale. La difficoltà non deve scoraggiare quei parlamentari cui stanno effettivamente a cuore gli interessi del paese e non quelli del partito di appartenenza. Essi infatti non dovrebbero dimenticare che l’art.67 della Costituzione vieta ogni  vincolo di mandato, eliminando quindi qualsiasi condizionamento  sia da parte degli elettori che dei partiti.

Alflex

 
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