Messina e Gatto-Prodi: una deludente combinazione

Post n°43 pubblicato il 03 Aprile 2007 da savin_s
 
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Una città delusa è un centinaio di migliaia di anime che non è facile recuperare nella loro integrità di speranze.

Una città delusa è Messina.

Delusa dalle tante voci degli “esperti delle illusioni”, gli Houdini della politica italiana.

Quelli che sbarcano sulla nostra porzione d’isola, che “erogano” promesse, quelli che in quella visita d’occasione prendono a braccetto il governante locale, ammiccano sornioni, come gatti davanti a una boccia di vetro. Dentro, ignari pesciolini, ci siamo noi.

Un gattone tra gli altri, più ammiccante degli altri, è giunto a Messina il 23 novembre 2005.

C’era, per noi, la frenesia delle imminenti elezioni amministrative in quel periodo. C’era la battaglia tra il candidato a sindaco del centrosinistra, Francantonio Genovese, e quello del centrodestra, Luigi Ragno.

In quel clima di fibrillazione urbana, dal Governo nazionale, arrivò lui, Romano Prodi, il leader dell’Unione, in corsa per la poltrona di premier alle elezioni dell’anno seguente.

Quel giorno, compatta, venne fuori l’ovvia alleanza con colui che gli elettori avrebbero designato sindaco: Genovese.

Solidale venne ribadita, tra i due candidati alle diverse postazioni di Governo, la comune convinzione che il Ponte sullo Stretto non fosse una priorità.

C’erano baracche da abbattere – Prodi aveva "visitato", nel suo breve tour cittadino, l’oasi di Fondo Fucile - , c’erano lavoratori precari da "sistemare", disoccupati da "occupare".

Nella sua tre-ore messinese l’attento leader del centrosinistra ebbe modo di conoscere squarci di realtà ben diversi dalla sua Bologna.

Pertanto disse, con tono rassicurante e pacioso, ma era sempre il leader a parlare: - "da qui parte una sfida importante per l’Italia ed il Meridione. Prima del ponte occorrono strutture, strade, case per chi vive nelle baracche, lavoro per i disoccupati. Occorre sconfiggere la criminalità organizzata che impedisce lo sviluppo del sud"
.

Disse questo gatto-Prodi, nel novembre 2005, ai pesciolini-messinesi. Disse questo il proprietario dell’attico agli inquilini dei piani bassi che hanno infiltrazioni d’acqua nelle fondamenta.

E oggi, oggi che l’acqua è trasudata dalle pareti, oggi che la boccia di vetro è stata frantumata dall’assenza di interventi, dalla incuria, la negligenza romana.

Oggi che i lavoratori RFI bloccano lo Stretto per la vicinissima dismissione di parte della flotta di appartenenza. Oggi che contiamo 62 arresti, in una sola settimana, per le ingerenze della mafia nelle gare di appalto, per usura, estorsioni e traffico di droga.

Oggi che la regione Sicilia sborsa denaro per pagare un corso di volo per chi “ ha paura di volare”, mentre dimentica trecentomila siciliani che hanno “ paura del futuro”.

Oggi che non abbiamo né prospettive di ponte né di risorse economiche per altri “prioritari” interventi. Oggi diciamo al Presidente del Consiglio Romano Prodi: "si può illudere…ma senza fare delle illusioni il proprio fine".

A chi, invece, più di un bolognese a Roma, dovrebbe avere a cuore le sorti di questa città dimenticata, ai tanti messinesi che, scelti da noi, ci rappresentano al Governo centrale suggeriamo la non candidatura alle prossime elezioni.

Ma Messina ha fiducia: nel 1908 “qualcosa” l’ha devastata più delle promesse inevase di un gatto ammiccante, più di nebulosi esponenti politici che non la tutelano.

Rinascerà…sull’acciaio di un ponte o la ferrea volontà di chi apprende dalle sconfitte passate e “lavora” sul domani.

Messina rinascerà sull’operato di chi non crede più a “vellutate” promesse.

Editoriale di Patrizia Vita, direttrice di Normanno.com

 
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CRIALESE, LA SICILIA E UN SOGNO CHIAMATO "NUOVO MONDO" 

Post n°39 pubblicato il 11 Ottobre 2006 da savin_s
 
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Migliaia di chilometri per sognare, un oceano vasto da attraversare, la terra sempre più lontana, la malinconia e la nostalgia per il mondo che bisogna abbandonare; le certezze che svaniscono e lo slancio verso quel paese di Bengodi, verso la cuccagna, verso quegli ortaggi giganti, le carote enormi, i soldi che piovono dal cielo così, per incanto, senza un perché. L’America, un posto stranissimo e la possibilità di diventare “signori” coi cappelli, con gli abiti lucenti. Una gran voglia di cambiare, una corsa verso l’ignoto.

Sono loro, quei siciliani dell’entroterra, che a fine ottocento non conoscevano nient’altro se non gli animali, le pecore, le capre, la terra e il lavoro, che non avevano mai visto il mare, i veri protagonisti di Nuovo Mondo di Emanuele Crialese.

Un regista rivelazione del nostro cinema. Un talento straordinario il suo e una straordinaria capacità di intrecciare piani narrativi diversi, di incrociare realismo e oniricità. Ha stupito tutti a Venezia. A tal punto che i giurati hanno dovuto inventare un premio. Tutto per lui. E un legame molto forte con una terra, la Sicilia, in cui tutto racconta. Anni fa aveva scelto Lampedusa, con i suoi pescatori, le reti e i faraglioni per raccontare la storia di Grazia e della sua famiglia. Respiro: il titolo del film con cui il regista romano aveva  trionfato, allora, sulla Croisette, a Cannes. Applausi e un premio meritato.

Ha voluto affidarsi ancora una volta alla forza narrativa dei gesti dei suoi personaggi, quei volti siciliani, scuri, arsi dal sole, che non parlano assolutamente l’italiano, che ignorano del tutto l’esistenza di una nazione chiamata Italia, con una lingua nazionale.

Sono tutti siciliani i protagonisti del suo nuovo film. La sala in cui proiettano la pellicola stasera è affollata. Che sia Milano, Torino o Venezia, poco importa. Anche chi non capisce il siciliano e storce il naso di fronte ad un dialetto incomprensibile, tanto da richiedere i sottotitoli non può fare a meno di rimanere incollato allo schermo sedici noni per seguire le vicende di Salvatore Mancuso e della sua famiglia. Poveri pastori di Petralia. “ A Suttana- iu sugnu ra Suttana- puntualizzerà in seguito Salvatore sul piroscafo in procinto di salpare per l’America.

Eh si! Perché per lui e per la sua famiglia il mondo è tutto lì, a Petralia Sottana, tra quelle distese e vallate che si alternano a dirupi scosesi, una natura arida e brulla con un fascino straordinario, quello dell’isola del sole e del mare. E poi c’è l’America, “l’autru munnu”, come lo definisce la vecchia saggia madre di Salvatore. Il Nuovo Mondo loro lo hanno conosciuto attraverso le cartoline, i fotomontaggi. E fantasticano. Credono davvero, con l’ingenuità dei bambini, che in Canada ci sia un fiume di latte. E che ci si possa bagnare e nuotare. Che tutto sia enorme, gigante. Un’allucinazione. O forse un sogno. O la disperazione e la voglia di dire   “Proviamoci anche noi! Vediamo se è vero!”

E cosi, Salvatore decide. Partiranno anche loro. Come aveva già fatto il suo gemello. Con la benedizione del cielo. In cima ad una montagna, due pietre in bocca, affaticati e sanguinanti, lui e il figlio chiedono alla Madonna un segno. Solo un segno. Che puntuale arriva.

Lasciano la Sicilia. In cerca di fortuna. Vendono tutto. “L’armali, u mulu, i scecchi…tuttu chidru ch’avimu”. Anzi, barattono tutto con scarpe nuove, vestiti, mantelli. Perché in America non possono andarci da “strazzati”. Li stringono tra le mani come feticci quei vestiti. Loro, che erano abituati a camminare scalzi. E si puliscono più volte i piedi. Se li sfregano con forza.

C’è da convincere Fortunata, la mamma. La più restia a partire. La vera custode di una saggezza popolare. I siciliani la chiamerebbero “mammana”. Una donna che parla per proverbi, preghiere. Ci ricorda un po’ Padron ‘Ntoni dei Malavoglia di Giovanni Verga. Stessa tempra, stessa caparbietà. Ostinata e tenace. Legata all’antico e a quei precetti che sembra aver risucchiato con il latte materno. Un po’ come  le nostre bisnonne. Che cura con le orazioni. E non ne vuole sapere di lasciare la sua casa, i suoi “santuzzi”. Poi, però, per amore del figlio, si accoda agli altri. E prima di allontanarsi volge l’ultimo sguardo alla porta di casa, che si richiude alle spalle. Uno sguardo triste, pieno di malinconia. In cuor suo sa cosa l’aspetta. “L’autru munnu”, l’altro mondo. E continua a ripetere: “Ma picchi ama a ghiri nta stautru munnu. Chistu viecchiu un ‘e bbuonu?”(Perché dobbiamo andare nel Nuovo mondo? Questo vecchio non è buono?)

Inizia il viaggio. Prima al porto di Catania con le ispezioni. E una gran confusione in cui il microcosmo familiare, la piccola famiglia Mancuso prende coscienza per la prima volta di cosa voglia dire “mondo altro”. Un vociare di gente in cui le parole si confondono. E ancora: il piroscafo, quell’enorme nave in cui tutti si ammassano. Un campionario di varia umanità. Donne, uomini, bambini, ragazzi, anziani. Tutti con lo sguardo spaesato, perso nel vuoto. E una linea divisoria. Quella del porto, che separa chi va e chi resta. E sui volti la stessa tristezza, mista ad una vaga speranza.

Seguiamo Salvatore e la sua famiglia. Ognuno affronta il viaggio in maniera diversa. La storia dei Mancuso si intreccia con quelle di altri immigrati. Nelle stive, tutti cercano un posto per dormire. E il viaggio interminabile. Una terra sempre più lontana. Quasi un miraggio. Solo distese d’acqua. Eccolo, “Il Grande Luciano”, come lo chiama Salvatore. L’oceano immenso.

Succede, però, che tra le tante presenze c’è una signorina inglese. Capelli rossicci e viso biancastro. Lucy.  “ ‘A signorina Luce” per i Mancuso”. E tra il giovane pastore siciliano e la ragazza inizia un gioco di sguardi intenso.

Amore? No. Non è possibile. Lucy è chiara. A lei serve solo un uomo che la sposi per favorirne l’ingresso in America. E anche Salvatore con una semplicità infantile le risponde “Ca certu. Po resseri ca cci amiamo se mancu nni canuscemu. Poi nni canuscemu…e viremu” ( ndr Certo. No possiamo essere innamorati se neanche  ci conosciamo. Conosciamoci e poi vedremo!) E con un gesto scaramantico le taglia una ciocca di capelli. Come gli hanno insegnato in Sicilia. Così crede di legarla a sé per sempre.

Il piroscafo arriva ad Ellis Island. L’isola delle lacrime. Un nome che è un presagio. Le lacrime dei tanti italiani immigrati. Il ricordo di tante umiliazioni subite. Quelle visite mediche di ogni tipo per accertare la sana e robusta costituzione. Per controllare il quoziente di intelligenza. Se gli italiani fossero o meno idonei ad entrare nel nuovo mondo. E quando a Salvatore dicono che suo figlio Pietro e la madre dovranno ritornare in Italia perché inidonei, lui risponde alzando le braccia davanti ai giudici, chiedendo una spiegazione: “Ma voscenza perdoni. Vui ‘cca aviti tanta terra. Chi fastidiu vi runanu me figghiu  e me matri?  Iddu è mutu ma travagghia comu un mulu. Un parra…meghiu accussi. Un da fastidiu a nuddru. Me matri è nicareda. Pari na carusa.”

E tutto finisce così. Una splendida inquadratura con un mare di latte, dal quale riaffiorano i protagonisti. E nuotano. Una sensazione strana per gli spettatori. Per un attimo ci viene quasi il dubbio che tutto sia stato solo un sogno. E forse sta in questo la bravura straordinaria di Crialese, la sua capacità di coniugare il crudo realismo ad un onirico visionario. Il mare di latte, una sospensione tra sogno e realtà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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GLI STRANI GUSTI DI CERTI VECCHIETTI...

Post n°38 pubblicato il 30 Agosto 2006 da savin_s
 
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Guardate un po’ quello che succede a Gela… tra cronaca rosa e gossip …In Sicilia c’è un invasione di polacche, romene,albanesi. Belle e aitanti. E si sa! Il maschio siciliano anche avanti negli anni…beh sempre “masculu” è …e così…

GELA (Caltanissetta) — Dicono che la storia non ha rilievo penale. Ma su quest’aggettivo si sprecano i doppi sensi e le implacabili risate di chi s’affaccia fra le aiuole della villa comunale per capire se davvero i vecchietti vanno a caccia di colf, bambinaie e badanti dell’Est pronte ad arrotondare gli stipendi concedendo veloci «toccatine » a gambe, tette e chiappe.
E nella scandalosa Gela che fa sempre parlare di sé per mafia e racket un’allegra pruderie avvolge le chiacchiere di fine agosto, alimentate da un medico che per salvare uno zio novantenne, o meglio la pensione dello zio, denuncia trattative e tariffe. Più che da un moto di sfegatato moralismo o da questioni sanitarie, la pietas del nipote in camice bianco sarebbe legata alle difficoltà di tanti anziani che non riuscirebbero più ad arrivare a fine mese con la pensione per quel piacevole passatempo coltivato fra romene e polacche, albanesi e croate.
In provincia le chiacchiere gonfiano a dismisura anche gli scampoli di verità. E c’è chi prende per una bufala i dettagli sul tariffario praticato all’ombra di palme e ficus: tre euro per una pacca sul sedere, due per sfiorare le gambe, cinque per palpare un seno. Ma c’è pure chi conferma, confessa e si danna perché sui vizietti di quella villa ha già scritto un libro e un altro ne avrebbe messo in cantiere.
È lei, la scandalosa scrittrice di Gela, Silvana Grasso, professoressa di greco a liceo, autrice di libri anche per Rizzoli e Einaudi, vincitrice del premio Grinzane Cavour, spesso in tv su Raiunomattina, ad ammettere di aver trattato in prima persona con alcuni vecchietti: «Questa villa mi appartiene. E’ la mia alcova letteraria. La villa è come la città. Campeggia una sola ossessione: il sesso».
La provocazione è l’anima delle sue storie e della sua vita. Come accadde quando propose le nozze al sindaco Rosario Crocetta che della sua omosessualità non ha mai fatto mistero. Così, dopo l’ultima opera dal titolo «Disìo», che è il siculo «desiderio», la Grasso racconta il paradosso del giardino «Garibaldi»: «Io lo so che incarno per questi anziani il modello della trasgressione dell’Est. Pelle chiara, capelli rossi e occhi verdi, mi presento in abbigliamento vergognosamente allusivo, tigrato, spacchi, vita stretta, chioma slegata proprio per essere adescata ».
E la richiesta arriva: «Quando mi sento chiedere ‘Quantu vo’?’ (quanto vuoi?), non mi tiro certo indietro, io che per vivere un’esperienza letteraria mi butterei nel fuoco. E contratto...».
La prima volta c’è rimasta male, come spiega ironica: «Un vecchietto offriva 10 euro. Eh no, almeno il doppio. Stimolato, mi chiedeva "Si pulara?" che sta per ‘polacca’. E io, da filologo classico, servendomi del mio greco inutile a Gela, annullando ogni traccia di dialetto: "Sono della Bielorussia". E lui, perso: "Con 500 euro di pensione debbo pagare casa, luce...". L’ho tranquillizzato e l’ho spedito dietro gli alberi dove ancora mi aspetta...». Gli stessi tronchi scelti dalla Grasso come epilogo de «L’albero di Giuda», il libro sul sogno onirico di un protagonista in cui lei tratteggia il maschio di Gela: «Per avere l’unica erezione della vita si impicca e finalmente la corda al collo gonfia il resto... Sì, in città mi hanno odiata».
Com’è capitato al sindaco comunista stanco delle avance, adesso pronto a difendere vecchietti e straniere, come spiega Crocetta: «Sono due tragedie incrociate. La solitudine, da una parte. Il dramma di chi è sottopagato, dall’altra». Lo sa che qui e altrove c’è un boom di unioni atipiche fra pensionati e straniere di trent’anni più giovani. E se potesse spargerebbe bromuro: «Manzoni nella Pentecoste raccomandava che lo Spirito Santo placasse gli eccessivi ardori degli anziani. E le romene in Italia allora non c’erano...». Come dire che la storia è antica e non è solo una storia di Gela.
                                                                            
                                                                   Felice Cavallaro
Corriere della Sera - 29 agosto 2006

 
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A LAMPEDUSA: STORIE ORDINARIE DI SOGNI INFRANTI

Post n°37 pubblicato il 20 Agosto 2006 da savin_s
 
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Hanno 20, 25 anni. Alcuni non parlano neppure e dell'inferno di cui sono protagonisti capiscono ben poco. Nei loro sguardi c'è paura, disperazione, incertezza e tanta voglia di vivere. E il futuro è l'incognita più grande. Li chiamano clandestini, ma di clandestino loro hanno ben poco, solo la voglia di lottare e fuggire in cerca di una vita migliore.

A Lampedusa, dove i barconi e le carette del mare arrivano senza sosta e attraccano lente alla riva...Storie ordinarie di sogni infranti...

C'era  un bancario marocchino di 24 anni, che ha approfittato delle ferie estive per lasciare il suo paese e tentare la fortuna in Italia, tra i morti nel naufragio di venerdì notte. E ancora, tra i superstiti un palestinese che non riesce a rassegnarsi alla morte dell'amico più caro: lo ha visto sparire tra le onde. Così come un clandestino caduto in mare e, dicono i naufraghi, divorato da un pescecane. E c'è la piccola Juliette, sudanese di appena un anno, sbarcata a Lampedusa dopo un lungo viaggio con i genitori. Sono alcune delle storie raccontate dagli immigrati sopravvissuti al naufragio e da quelli arrivati sull'isola la notte scorsa. Si sono ritrovati nel Centro di permanenza temporanea e hanno trascorso ore a raccontarsi le drammatiche esperienze vissute. 

                                          

BANCARIO A 400 EURO AL MESE, CLANDESTINO IN FERIE - Aveva deciso di cambiare vita, di lasciare il suo paese, il Marocco, e il lavoro in banca, uno dei clandestini morti nel naufragio. "Non si accontentava - raccontano gli amici partiti con lui e sopravvissuti alla tragedia - voleva di più, non gli bastavano i soldi che guadagnava". Così il giovane ha deciso di partire approfittando delle ferie estive. "Dico che vado in vacanza - aveva detto ai compagni - ma spero di non tornare più". Ma il visto turistico per l'Italia non gli è stato concesso e allora il nordafricano ha deciso di raggiungere le coste siciliane partendo dalla Libia. Via terra ha raggiunto Al Zwara, e si è imbarcato. Agli scafisti ha dato duemila euro. "In banca - raccontano gli amici - ne guadagnava 400". Con pochi mesi di stipendio si è pagato un viaggio finito nelle acque di Lampedusa.

HA VISTO MORIRE L'AMICO: ORA PIANGE, NON L' HO AIUTATO - Piange disperatamente Amir, un ragazzo palestinese di ventidue anni che ha visto annegare il suo migliore amico. "Eravamo partiti insieme - ha raccontato ancora sotto choc - ci siamo sempre aiutati, ma quando ne aveva più bisogno per lui non ho potuto fare nulla. L'ho visto affondare, ma in quel momento potevo solo pensare a salvarmi".

CADUTO IN MARE, DIVORATO DA UN PESCECANE - È tragico il racconto dei clandestini che hanno assistito impotenti alla morte di un loro compagno di viaggio. "È caduto in mare - hanno detto ieri ai volontari di Medici Senza Frontiere che li attendevano dopo lo sbarco sul molo del porto di Lampedusa -: in un istante è stato divorato da un pescecane".

JULIETTE, UN ANNO; LIETO FINE NELLA TRAGEDIA - È a lieto fine, invece, la storia di Juliette, piccola sudanese di un anno arrivata a bordo di una 'carretta del marè insieme ai genitori. Sta bene nonostante i cinque giorni di navigazione, tre dei quali alla deriva senza acqua nè cibo. Avvolta in una copertina bianca sorride ai volontari di Msf che l'accompagnano al Cpt.

PENSAVANO DI NON VEDERSI PIÙ, SI RITROVANO SULLA BANCHINA - E positivo è l'epilogo della vicenda che ha unito due clandestini sudanesi. Entrambi convinti che l'altro non ce l'avesse fatta a sopravvivere al naufragio, si sono ritrovati sulla banchina del porto di Lampedusa, ciascuno soccorso da una diversa motovedetta della Guardia costiera. Quando, ormai all'alba, si sono incontrati, si sono abbracciati piangendo. "Sei vivo - ha detto uno all'altro - sia ringraziato Allah". 

                                                  

 

 

 
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IL BUIO DI "ROSSO MALPELO", IN UN FILM DI PASQUALE SCIMECA A SPERLINGA

Post n°36 pubblicato il 29 Luglio 2006 da savin_s
 
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Il buio, una metafora della vita che non è vita, che accomuna milioni di bambini nel mondo, sfortunati perchè non conoscono la luce, gli affetti, i giochi. A questi "figli di un Dio Minore", Pasquale Scimeca, il regista di Placido Rizzotto, dedica il suo ultimo film:"Minatori. Rosso Malpelo". Un soggetto che nasce da una novella di Giovanni Verga, dallo stesso titolo. Le riprese sono iniziate una settimana fa a Sperlinga e si concluderanno a fine agosto, quando la troupe si sposterà nella miniera abbandonata di Floristella, e nella vicina Piazza Armerina.

L'immagine delle sofferenze di un minore, sfruttato e vessato: Rosso Malpelo, appunto. Il protagonista è un ragazzino quattordicenne di Assoro, Antonio Ciurca. Con il suo volto smunto e gli occhi disubbidienti, potrebbe essere un bambino che lavora ancora oggi in miniera o vive nelle favelas brasiliane, o ancora un piccolo disperato che di notte sgattaiola dalle fogne di Bucarest, in cerca di cibo.

L'attualità e la fedeltà del testo verghiano si intrecciano, parafrasando le parole del regista, "in una fedele interpretazione della novella relativamente alla dolorosa piaga dello sfruttamento dei minori, affetti da una condizione subumana, perchè costretti a lavorare in solitudine."

Sullo sfondo, lo scenario suggestivo ed abbandonato di un entroterra siciliano, in cui il villaggio preistorico di Sperlinga, abitato fino a dieci anni fa, costellato da grotte, è la location naturale per rendere vivo un ambiente fatto di miseria ed umiliazione. Con i suoi paesaggi infiniti e le sue realtà sconosciute, la cittadina con il castello, scavato nella roccia,è la sintesi di tutti i luoghi dimora e rifugio di tante civiltà.

Il film nasce come un progetto per valorizzare i luoghi e la cultura, il mondo dei minatori con le sue mille sfaccettature, legate alla sofferenza, una sofferenza che si trasforma in ribellione. Una pellicola che si attiene al verismo verghiano, ma lo supera, per condurre la dimensione del racconto ai nostri giorni.

Non professionisti quasi tutti gli attori, scelti proprio tra la gente che conosce bene il mondo delle miniere, la sofferenza e la durezza: dal protagonista al piccolo Omar Noto, di Sutera, che vive davvero a contatto con gli animali e la natura, proprio come uno dei personaggi della novella.

Una storia che tutti conosciamo quella di Malpelo, il ragazzino che, nella Sicilia degli ultimi anni dell'ottocento, vive da solo, con la madre, dopo la morte del padre, un minatore, morto per un crollo nella miniera in cui lavorava. Lo chiamavano così perchè aveva i capelli rossi, e, secondo le credenze popolari il pelo rosso è indice di malvagità e cattiveria. Malpelo lavora anche lui in una miniera, e il buio dei cunicoli sotterranei finirà per inghiottirlo.

Dunque il passato della novella di Verga, ma anche il presente, quello di tanti ragazzini costretti a lavorare in condizioni disumane, sfruttati, privati barbaramente della loro infanzia e della loro spensieratezza. Il film di Scimeca è proprio questo, un gioco di intrecci e rimandi, tra un presente attuale e un passato non troppo lontano, una denuncia per dire basta ad una schiavitù del corpo, ma soprattutto dell'anima, quella dei bambini-adulti.

 
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