Creato da Marvelius il 21/08/2012

Marvelius

Elrond lands :dove il mito e la fiaba, la realtà e la fantasia si incontrano al crocicchio del vento

 

Prigioni ...

Post n°88 pubblicato il 30 Luglio 2014 da Marvelius
 

 

 

 

Aprì gli occhi sull’ azzurro del cielo e vi si perdette.

Nel silenzio della sua stanza quello spicchio

di colore  chiuso tra i legni scialbi della finestra

fu tutto ciò che lo rapiva oltre la sua prigionia.

Un nodo in gola rendeva difficile il suo respirare

e gli occhi umidi gli appannavano la vista

ma era ancora capace di pensare al mondo oltre

le sbarre in quello squarcio tra mura di solida pietra.

 



Era ancora in grado di sorridere al suo cuore

e immaginare di correre tra l’erba alta e

le spighe di grano.

Le dita delle mani lentamente si mossero tremanti

 sulle lenzuola consunte.

Lente scivolarono sulle gambe immobili

come colonne spezzate sui prati ciottolosi

e se ne restavano inermi ad ogni tocco,

insensibili persino al vento che filtrava dalla finestra

come fiori recisi senza più un alito di vita.

Guardò ancora una volta fuori dalla sua stanza

e vide due tortore sfumare nell’orizzonte,

le foglie del suo grande acero planare nel vento,

i raggi di un sole morente luccicare sulla scorza dei tigli

mentre il suo respiro diveniva un affanno.

Trattenne a stento lacrime e rabbia,

tirò su col naso e strinse gli occhi come a voler

cancellare quelle immagini cosi legate ai ricordi

di un tempo.

 

 

Poi dentro di lui si fece strada un coraggio ritrovato

e volse nuovamente lo sguardo oltre, fino

alle cime imbiancate dei monti la dove un tempo

giungeva dopo lunghe rampicate.

Chiuse gli occhi in uno sforzo sovrumano e fu lì sulla cresta

del monte più alto tra neve candida e vento gelido e puro.

L’aria fredda gli penetrava i polmoni come aghi gelidi

infissi nel petto e in quel tocco ghiaccio sul pulsare

 delle sue linfe calde avvertiva quanta vitalità c’era  ancora

dentro di lui.

Aprì gli occhi e si accorse che non era più nella sua stanza

non c’erano più muri sberciati a confinarlo nelle ombre,

non più un tetto annerito dal fumo di una stufa a legna

a impedirgli di sognare le stelle e i rossi tramonti.

Era libero in capo al mondo, libero di volare come

un uccello sulle ali del vento e di quella libertà ora

sapeva che fare per ritornare ai ricordi di un tempo

e ritrovare nel fondo del suo animo  tutte le cose che

aveva perduto e smarrito negli anni di una solitudine rubata .

 

 

Così quando i ricordi si fecero solidi e veri

una fitta lancinante gli serrò il petto

e l'immagine di Lei riempì la stanza,

il profumo dei suoi capelli colorò le mura di pietra ,

la profondità dei suoi occhi

si irradiò come una luce nelle profondità siderali.

Udì prima impercettibilmente la sua voce

come un canto lontano tra gli aranci in fiore,

poi divente un tintinnio di una squilla argentina.

Chiuse gli occhi per serrare quella visione dentro di sé

e la tenne custodita nel fondo del suo animo 

come un tesoro senza prezzo nel cupo mulinare

delle sue ore senza tempo.

MARVELIUS

 
 
 

Ricordi di un ombra ...

Post n°87 pubblicato il 14 Luglio 2014 da Marvelius
 

 

 

 

 

Chiuse gli occhi per un istante

e il ricordo si fece vivo e pulsante come il canto del mare 

Così aprì la porta dei suoi ricordi come si scosta una tenda

e la vide immersa nelle sue cose

come se il tempo non l'avesse mai sfiorata

Eppure gli anni erano trascorsi come nembi sulla terra

trascinati dai carri del vento.

Come schiuma di mare s'erano sciolti sulle rive del tempo

ma il bianco canapo che li aveva uniti era ancora lì

come un crine che nulla può spezzare

Il viso candido come neve di marzo

e  il rosso fulgore delle sue labbra

simile al vermiglio ramo d'inverno

Sulle gambe fogli ingialliti  vergati a mano

e negli occhi l'autunno liquido dei suoi rimpianti...

 

 

Le si avvicinò lentamente come un ombra che sorge dalla terra

 e gli sorrise per un solo istante

ma in quel preciso momento

nell'ora che non si può fermare

il tempo gemette...

Così l'ancora della clessidra eterna

si fermò

come se ogni cosa perdesse la sua durezza

e nella fragilità di un intimità scoperta

si fondesse

per riposare per sempre nella profondità di un gesto...

MARVELIUS

 
 
 

L'UOMO NEL VENTO ... II

Post n°86 pubblicato il 03 Maggio 2014 da Marvelius
 

 

 

 

 

Il campanello squillò ripetutamente e  come un araldo

 impaziente continuò a trillare fino a che Gabriel non

aprì la porta.

Hello peste … mi hai fatto attendere sul pianerottolo.

Lo sai che non si fa aspettare una donna? … Una come

me poi ...
”.

 Gabriel sgranò gli occhi assonnati e sorrise, appena un

 lieve stirare di labbra ma era divertito da Roberta, una

donna intrigante piena di un energia contagiosa che

metteva di buon umore, forse un po troppo appariscente

 con le sue scarpe eccentriche e i tacchi esagerati, quei

 jeans troppo stretti, le gonne troppo corte e le camicette

sbottonate  sempre un po oltre il normale, ma a lei

piaceva essere notata e forse la sua natura libera e

selvaggia la portava a non curarsi poi troppo dei giudizi e

pregiudizi degli altri, così si divertiva a dire che ...

 Non si possono chiudere tutte le curve in un lembo

di stoffa o prima o poi qualcosa esplode e  non voglio

causare danni all’altra metà del mondo  ...

e la sua risatina

concludeva sempre le sue frasi con una strizzatina d’occhi.

A volte quando lui le faceva notare che forse però qualche

 eccesso in superficie era sinonimo di sfrontatezza lei se la

 rideva di gusto ma poi tornando seria reagiva con una

 frase uscita da qualche manuale zen

 Senti bello ...  il cuore ha bisogno di aria e di sole e io gli do

entrambi
.


Lui alzava le mani e assentiva sorridendo senza parole.

Così era Roberta, libera, intensa, esageratamente bella

ma tenera e distaccata.

 

 

Ti sono mancata?"

Disse poggiando le  mani sulle sue spalle

aprendo le sue labbra quel tanto da far uscire le parole

arroventate del suo fuoco…

"Uhmm meglio che non mi rispondi … lasciami nell’ignoranza è

così bello pensare ciò che ci piace che nessuna parola è cosi

meravigliosa e capace di eguagliarlo … e poi non ci crederei

fino in fondo a quello che mi diresti
”.


E così dicendo  gli fece un occhiolino.

Era cosi, doveva dire tutto lei, dolcissima e tenera, prendendo

tutto con leggerezza come fosse ingenua e superficiale, ma non

 lo era, e in questa finzione, negata persino a se stessa, in questa

 maschera incipriata di leggerezza stava bene o così sembrava

, costruendo il suo mondo spensierato e senza complicazioni.

Il suo  corpo era elegante e impertinente allo stesso

 tempo, un insieme di curve cesellate da una mano divina, un

regalo di un Dio Gaudente all’uomo più fortunato della terra,

ma questo corpo cosi sinuoso sembrava contrastare con la

 leggerezza del suo fare, con la semplicità dei suoi pensieri

quasi adolescenziali.

Le voleva bene e a volte provava sentimenti che andavano

oltre la passione della carne, quando stanchi delle loro battaglie

tra le lenzuola si perdevano l’uno nelle braccia dell’altro.

La teneva stretta a sé per farla sentire amata sul serio, ma non

 era finzione  piuttosto era una inspiegabile volontà di

dimostrarle che teneva a lei in un modo che non riusciva a

 declinare, anche se non l’amava di un amore travolgente e

totale, e questo suo scostarsi dall’essere sempre franco e leale

 al principio della verità di un sentimento oltre l’apparenza lo

 disturbava un po.

 Le piaceva quella donna che c’era sempre per lui e lui voleva

restituirgli, se non sprazzi di amore vero, che a lei pareva non

 importare tanto, un po di affetto sincero.

Almeno un po mi hai pensato? Si Si quello lo hai fatto te lo

leggo negli occhi.

 Sapevo che saresti tornato questo mese … me lo ha detto

Misty.

Ti ha visto ieri, mi ha detto che sei sciupato, a me non sembra

ma sono sicura che da qui a un settimana lo sarai eh eh, si che

lo sarai …  smack
“.

 

 

Lo baciò sulle labbra e gli arruffò i capelli con una mano , poi

lo abbraccio stretto e adagiò la testa sul suo petto chiudendo

gli occhi per un istante. Gabriel le accarezzò i capelli poi la

baciò in fronte e le sussurrò nell’orecchio

Ti voglio un gran bene piccola ma non sono sciupato …

sono solo molto stanco
”.

Ci penserò io a farti stare meglio, la stanchezza non si cura

solo col sonno


Rispose lei e lo solleticò ficcando le mani dovunque … risero

entrambi scambiandosi quelle carezze che mancavano da

 tempo.

Poi lei lo lasciò pian piano abbandonando le sue mani come

un velo che si perde nel vento e  restando inchiodata ai suoi

occhi indietreggiò con piccoli passi, poi  come un felino

sinuoso cadenzò  gesti e movenze.

Entrò nel salone dove la luce del sole filtrava appena dalle

fessure delle tapparelle abbassate, premette un tasto sul

cellulare e una musica dalle cadenze orientali si

diffuse per tutta la stanza  mentre  lei

iniziò a muovere il corpo plasmando d’ ombre ogni cosa,

togliendo il respiro  persino all’aria della stanza.

Si sfilò la gonna con movimenti lenti e calcolati fino a farla

cadere ai suoi piedi e fu come se una voragine aprisse delle

ferite nella terra. Alzò con eleganza i tacchi e la scostò su un

lato, poi volse appena lo sguardo indietro fissando lui con

occhi pieni di promesse, le sue mani intanto si modellarono

 sui fianchi e le unghie graffiarono le calze lungo le cosce

interne , continuando a ondeggiare coi  fianchi disegnando 

arabeschi di una sensualità raffinata.

 

 

Si mise a sbottonare ciò che rimaneva della camicetta

come a violare i segreti di mille forzieri e quando anche

questa raggiunse la gonna l’ombra di due seni boriosi si

stagliò nell’intimità della penombra.

Ora erano l’uno di fronte all’altro, la carne bianca di lei tra

 i merletti e i pizzi della sua biancheria era un manto candido

 di voglie mature, mentre il petto ansimava nella pienezza

del respiro ingordo.

Le labbra tumide e rosse come un fico spezzato si schiusero

 al ritmo del cuore e un odore speziato si diffuse nella stanza

 come un infuso di mandorle amare .

Appoggiò un ginocchio sul divano mentre con i denti

legava un dito alle sue labbra scarlatte, poi si adagiò

 con un raffinato senso teatrale sul canapè indossando

ancora le scarpe alte e lucide, le calze nere con un filo

leggero a segnare un sentiero di dannazione salivano

su per le gambe come l’ombra della notte sulle falesie

del mare.

Lacci sottili e pinze morbide ad ancorare i pizzi della

guepiere alle calze, pieghe di pelle turgida e levigata a

riempire gli occhi e i pensieri di lui.  Il seno impaziente

di liberarsi di coppe di vino dolce e le cosce armoniose

e snelle incapaci di stare ferme si muovevano come ofidi

in amore.

Portò le dita sulla bocca e sussurrò il suo nome mentre

lui in piedi la guardava chiuso nel suo maglione scuro …

La  guardò fino a penetrarla con lo sguardo e violarne i

più  intimi recessi  scardinando le serrature del suo

 pensiero ormai perso nelle stanze di un piacere atteso

e desiderato …

Poi si volse indietro aprì la porta e con un ultimo sguardo

 impietrito le disse con parole malferme …

Non qui Roby … non oggi  … ora ho voglia di …

ma la sua resistenza era più un esemplare tentativo di

autocontrollo che una reale necessità e già dentro la sua

anima il fuoco si era acceso come mille fastelli nella calura

di agosto così, quando la fissò negli occhi la vide per la

prima volta in vita sua triste e muta. Un filo di delusione le

disegnava una maschera sottile sul viso dolce rendendo la

sua bellezza tragica e maestosa .

Restò a guardarla come se non l’avesse mai vista veramente

e pian piano le mosse incontro, quando le fu vicino le

allungò la mano  e lei la prese nella sua , gli si sedette accanto

 raccogliendogli il viso nel palmo della mano, le sorrise mentre

 lei si avvicinò fino a baciarlo e nell’incanto di quel gesto si

abbandonarono a loro stessi, all’istinto del loro sangue caldo,

alla tensione dei loro muscoli tra la seta profumata della pelle

e nel sudore  reso bollente dai loro respiri corti …

 

 

 Si amarono fino a cadere esanimi l’uno sull’altro mentre

la luce della luna filtrava nella stanza in mille piccoli fasci,

colorando la loro notte di bianco e di silenzio.

 

MARVELIUS

 
 
 

L'UOMO DEL VENTO...I

Post n°85 pubblicato il 30 Aprile 2014 da Marvelius
 

 

 

Picchiettava con le dita sul tavolino del bistrot mentre

con gli occhi la spogliava. Lei  sentiva il suo sguardo addosso

come l'ombra delle sue mani sulla pelle appena sudata.

Il caldo era insopportabile ma lui sembrava non dolersene

e concentrando lo sguardo lo sgranava in un sorriso beffardo.

La donna gli sorrise di rimando ma fu un attimo poi volse il

 capo altrove e una cascata di boccoli neri ondeggiò nell'aria

 occupando tutta la scena.

 

 

"Non puoi proprio evitarlo vero?"

Disse Rebecca dando uno schiaffo col dorso della mano al

bicchiere di Lemon che si rovesciò sul tavolino .

Il liquido si riversò sulla tovaglia e giunse all'orlo opposto

 gocciolando sui pantaloni di lui che rimase immobile.

Non si scostò lasciandosi bagnare fino all'ultima goccia,

il cameriere che era li vicino si mosse nella loro direzione

ma lui alzò la mano quasi impercettibilmente ma con un

tono deciso a intendergli che era tutto a posto e che

non lo desiderava li attorno.

Cosi il ragazzo si era immobilizzato guardando la donna irritata

 e l'uomo freddo come una statua di marmo.

Lei lo fissava tremante stringendo i muscoli della faccia, un misto

di rabbia e gelosia, di fastidio e un filo di  rassegnazione a cui

non voleva cedere; poi volse il capo alla sua destra perdendo

 lo sguardo verso il mare.

Il vento spirava leggero scompigliandogli i capelli di un mogano

 scuro, lisci perfetti  che le scendevano fino al centro

delle spalle.

Si raccolse i capelli in una coda tirandoli sulla fronte e si  

tolse agli occhiali da sole lasciandosi ferire dall'aria densa

di salsedine che la fece lacrimare. I suoi occhi si confondevano

con tutte le declinazioni del mare e filtravano il brillio scintillante

 della luce illuminandole il viso.

 

 Era bella ... forse troppo ... di  un bello senza tempo.

Il volto lineare, gli zigomi alti, il naso con una lieve imperfezione

 che attirava lo sguardo degli uomini già rapiti dai lineamenti felini

del viso . Il sole le aveva da tempo indorato la pelle avorio

rendendola ambrata come l'oro, sarebbe stata adorata come una

Dea su quelle spiagge un tempo meta di guerrieri  ed eroi.

Lui restava a guardarla impassibile e senza emozioni apparenti,

gli occhiali scuri, i capelli arruffati, chiuso in un abito blu e una

camicia di lino chiara. Senza orpelli, senza aggiunte nel corpo alato

 di un umano senza limiti, senza steccati ... si avvertiva a stargli

 vicino come la fusione di elementi primordiali in lui avessero

partorito l'amore verso l'avventura al limite dell'orizzonte ,

tra il rischio immanente della fine e la scoperta dell'impercettibile

aroma della vita.

Percorreva in ogni istante sentieri mai battuti, scoprendo i veli

di una natura incontaminata che a lui si mostrava per dedizione

e somiglianza.

Non era un uomo cattivo, ne la sua indole portata alla cinica

 scarnificazione dell'essere.

Piuttosto era un uomo generoso e sensibile ma la lealtà a se

stesso lo portava a somigliare più ad un mercenario errante

 che trova nella solitudine l'altra faccia della medaglia di ogni

esperienza negata

Il mondo era per lui un cammino fatto di mille rivoli e mille

stradine dove incontrare l'altro e svelarne il mistero, farlo

 suo lasciando parte di sé, del proprio io, del suo inaccessibile

 essere, e in questo incontro fondere esperienze nell'esoterico

e arcano mistero delle anime.

" Mi fai soffrire ... tu lo sai che non sopporto  questo tuo darti,

mi fa male ma tu sembri non capirlo, non notarlo
"

Lui si tolse gli occhiali e la guardò fissa. La linea nera

del bistro e le sfumature scure dell'ombretto le facevano risaltare

 ancora di più gli occhi rendendo profondo e trasparente lo

sguardo allo stesso tempo e lui pensò che in quel momento non

 era mai stata cosi bella.

"Non riesco a farti prigioniero della nostra isola, renderti mio

a tal punto da non pensare alle altre
".

E strinse le labbra tra i denti con per sentire il dolore farsi

largo dentro di lei .

 

 

"Non ne hai bisogno".

Rispose lui, e la sua voce era chiara , senza tentennamenti.

"Non ne ho bisogno?"

Ripetè lei alzando le sopracciglia stupefatta ...

"No. Tu rincorri solo dubbi e paure".

"Ah...!!!

Esclamò lei  scuotendo il capo ..

"Certo".

"Sono qui con te e sono tutto qui in questo momento ... perché

ti concentri su uno sguardo , un sorriso e sul pensiero di ciò che

potrei pensare oltre a te?
".

Lei si alzò con grazia dalla sedia raccolse lo scialle di filo rosso

e vi si avvolse ... aveva freddo ma quel freddo si generava da

dentro, come un rigurgito d'inverso nel pieno fiorire della

primavera.

 Si incamminò verso la battigia con le braccia raccolte al seno.

 La tunica di cotone bianco le cadeva fino ai  sandali

 di cuoio intrecciati color melograno che  mostravano i suoi piedi come

 gioielli delicati, unghie perfettamente smaltate d'avorio come

quelle delle dita delle mani affusolate come steli d'erba filuta,

dolci camme di pallide calle protese al vento del meriggio,

mentre il crine sciolto era ora rapito dal vento ribelle e si

 arricchiva del sapore del mare in tempesta.

Quando raggiunse la riva dove andavano a morire le onde si

 tolse i sandali con una mano slacciandoli uno a uno restando

 in piedi mentre con l'altra mano teneva stretto al seno lo

 scialle e immerse i piedi nella schiuma bianca e fresca .

Dietro di lei un vuoto silenzio rotto solo dal frusciare del vento

 e dalla risacca gorgogliante tra i sassi e la sabbia  smossa

Lui era rimasto seduto a osservarla ... un lento sfilare lungo i

passi di una distanza che si faceva sempre più  lunga.

Con un cenno del capo chiamò il ragazzo dal grembiule bianco

 e la camicia scura e mentre questi gli andava incontro pose

una banconota sul tavolino e andò via. Il ragazzo  la raccolse

 fissando l'uomo che si incamminava verso il mare ... avrebbe

 voluto ringraziarlo ma l'uomo era ormai distante e forse era

meglio così , sapeva che non lo avrebbe degnato  di uno

sguardo, aveva ben altri interessi per una creatura ferita che

 finanche il mare avrebbe accolto aprendo le sue acque e il

 cielo posto su una nube bianca come angelo trionfante sugli

elementi della terra.

Ma lui no ... sembrava il calco di un metallo incorruttibile,

il frutto di un albero duro ed eterno, cesello di un mago

beffardo, avrebbe affrontato le bocche di cento leoni pur di

non soccombere tra gli artigli e la pelle di un felino ben piu

pericoloso.

I suoi  occhi erano quelli di un uomo senza riflesso, senza

inganno, avrebbe piegato il suo corpo fino a spezzarlo pur di

 non flettere la sua mente a ciò che gli sembrava l'ingiusto

 baratto della sua libertà di pensiero .

Quando la raggiunse gli si mise al fianco , le mani nelle tasche,

 lo sguardo fisso sull'orizzonte e il respiro silenzioso. Fu ancora

lei a parlare per prima .

"Amo questo mare e  il vento che gli scorre sulle reni ...questa

 luce sembra arrivare  al cuore delle rocce e germoglia nel

profondo delle acque
"

Lui abbassò per un attimo la testa e con il piede smosse la sabbia

 vicina, poi rispose con voce calma e sembrò raccogliere i fili

d'anima come rose di un giardino d'incanto.

"Questo luogo è magico ... te ne sei innamorata al primo sguardo

come ha stregato me la prima volta che l'ho incontrato.
"

In mezzo all'acqua una roccia a forma di pugno si ergeva come un

 totem scintillando al riverbero della luce tra l'azzurro e il turchese

del mare, alle sue spalle Il Castello di Roseto Capo Spulico

a picco sulla piccola baia

confondeva le sue pietre con gli scogli, appena una manciata di

 metri prima si snodava il lungo serpentone della linea ferroviaria

 e un convoglio di pochi vagoni transitò tra i pini floridi a ridosso

 del lungomare alberato.

 

 

"In questa fortezza è stata  custodita la Sindone, forse non

te l'ho mai detto ... era una rocca dei Cavalieri del Tempio.

Questa terra la amo perché sfuggente, antica, schiava e

libera eppure sempre da conquistare. Gronda di  un 

fascino inespugnabile  e un mistero

 che la rende unica e selvaggia ... come sei tu Rebecca
".

 

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Lei si girò di scatto ... sfiorata dal tocco morbido e profondo delle

sue parole ... erano rare da un po di tempo ... ma erano vere e

cristalline e l'avevano turbata  più di quanto lui se ne accorgesse.


La torre dei suoi dubbi che con tanta difficoltà si era  eretta sasso

 dopo sasso ora stava per  sgretolarsi con la velocità di un fulmine,

 ma dentro di lei qualcosa per la prima volta gli diceva di resistere,

 di edificare altri muri per rendere meno vulnerabile il suo essere

 all'ariete che batteva alle sue porte , di puntellare i bastioni

 percossi dagli onagri delle parole del suo uomo che minavano

 tutte i suoi dubbi ma che non le regalavano più nessuna certezza.

"Ora devo andare Gabriel"

Disse prima che il tunnel che sentiva scavare sotto le sue

 fondamenta la facesse crollare definitivamente come un masso

 giù dalla montagna.

"Devi o Vuoi?"

Rispose lui tornando freddo.

Lei farfugliò qualcosa tra le labbra e lui mosse la testa come ad

acconsentire, poi  voltandosi  raccolse tutte le sue forze e sbottò.

" Devo e Voglio ... forse lo voglio e basta o forse no a te cosa

importa dei miei desideri ...
"

La torre aveva ceduto su un fianco e le sue pietre rotolavano nel

mare agitato, innalzando onde e spruzzi nel vento adirato.

"Mi importa ... o non sarei qui con te ...  "

" Sei qui con me ora come questo vento che spira su questo

 mare e chissà dove altro ancora
".

E nella foga delle parole battè un pugno sul suo petto.

Ci fu un attimo di silenzio, un vuoto si plasmò tra di loro come

 l'immane crepuscolo che scolora il giorno, prima del grande balzo

nel profondo oblio della notte

"Bene Rebecca ... bene"

 disse serrando le labbra e concentrando lo sguardo su di lei.

"Non posso mutare i tuoi dubbi né ora  voglio farlo ... se lo facessi

durerebbe solo il tempo di un battito di ciglia e in fondo dopo non

 basterebbe a me saperti convinta ... dovrei giustificarmi, dovrei

dimostrarti ciò che non si dimostra ne con le parole ne con fatti

che sarebbero pesati, misurati e sottoposti alla bilancia del giudizio.
"

Scosse il capo come a farsi una ragione e recuperare la calma poi

trovò le parole mancanti dentro di lui e aggiunse

 "Si sente con l'anima e con l'essere e tu ormai non riesci più ad

ascoltare ... siamo venti che si fronteggiano senza sosta e non

basta l'amore a farli fondere ne il respiro di questo mare a farli

immergere l'uno nell'altro nella quiete dei sentimenti
".

Disse queste parole con un filo di rabbia e la morte tra le

labbra, dentro di lui qualcosa si era rotto che non si sarebbe

 più aggiustato, così senz'altro aggiungere prese gli occhiali e

 li buttò nelle onde poi si incamminò verso l'interno lasciando

 il mare e lei alle sue spalle.

"AMORE?".

 Urlò lei nel vento sciogliendosi i capelli nel vento

"AMORE? TU SAI COSA VUOL DIRE QUESTA PAROLA?...

 LO SAI?...lo sai...?
"

 

 

Rebecca per la prima volta restò immobile senza andargli dietro,

salda come un asta infissa nel cuore della terra lo vide scomparire

oltre il bistrot, non prima di vederlo dare le chiavi dell'auto allo

stesso ragazzo dal grembiule bianco e dalla camicia scura,

erano per lei, lui avrebbe trovato il modo per tornare a casa ...

 una casa posta in qualche luogo  lontano, un posto  lo avrebbe

 accolto di certo ma  che ora era difficile da immaginare ...

un isola sconosciuta nel cuore della fine del mondo, del suo

 piccolo e sconfinato mondo.

 


MARVELIUS

 
 
 

IL FAUNO II ...

Post n°84 pubblicato il 18 Aprile 2014 da Marvelius
 

 

 

Immerse la mano nelle acque gelide del fiume

e fu come sentire il sussurro dell’inverno tra le

pieghe della pelle e giù in ogni canto della carne ad

attraversare le falesie delle arterie e farsi tocco

raggelando linfa e il rosso sangue.

In alto le nubi correvano come brenne

su scuri lastroni di basalto, mentre all’orizzonte

una lama di fuoco saettava tra le punte dei monti

come a dividerne i profili e la sorte.

Chinò il capo lentamente e bevve a fondo

calmando l’arsura del petto …

si dissetò

fino a gelarsi le labbra e a far tremare i sensi

e quando si scollò dal quel suo rivivere

si specchiò nei cerchi d’acqua.

Il crine, nei riccioli d’onda, profuse come una cascata

d’impeto corso,

sulla fronte ricaddero e oltre si sospese

quella massa informe.

Si guardò nel silenzio di acque placide

e in quello specchio liquiforme andava ritrovando se stesso.

Come un errante pellegrino ripercorreva le linee

della sua esistenza, tra le rughe profonde o i lievi solchi

ricordò i suoi passi.

Leste movenze tra l’erba delle valli  o i  lenti cammini

 tra gli ombrosi varchi .

Chiuse gli occhi, serrando le pupille nel buio cerchio

della vita andata,

nella penombra di ciò che era ormai un ricordo.

E sostò tra quei giacigli come lepre stanca e fiera indomita

che non s’arrende al ciclo dell’eterno.

Sentì il bisbiglìo del vento,

lo stormire tenue delle fronde,

l’argentino scorrere del fiume

e il rotolare discreto delle pietre smosse,

il soffice cadere delle foglie

 sul candido mantello della terra.

Quando offri lo sguardo ai colori del tempo

il volto suo s’era già sciolto in mille grinze.

Non c’erano più ciocche a merlettarne il flusso,

ne il giusto profilo del suo viso a rendere

pungenti e vivi i fiotti inquieti delle acque,

non v’era il bianco rilucire della pelle,

il marmo pulsare di muscoli tesi come sartie d’un vascello,

ne il vitreo corso delle sue vene a scavare

 solchi di rubino nel taglio della carne.

Solo il cupo gorgogliare delle linfe del torrente

turbato dal molesto guizzare di un pesce esangue.

Si scosse da quel letargo come da un lungo sonno

volgendo lo  sguardo tutt’intorno.

Ora il cielo era sgombro di carri e la luna già proiettava

lamine d’azzurro sulle cime aguzze dei rilievi.

Si erse verso di lei come a farsene parte,

ogni muscolo,  ogni lembo di pelle ne assorbì luce e forza

e la maestosità della sua figura si stagliò

sull’erba della radura come un gigante

nel ferreo dominio del suo scanno.

Poi una voce lo distolse ancora …

Prima flebile come un refolo tra vele d’organza,

poi giunse dolce nei profumi di mandorlo fiorito,

e il Fauno fu felice di udirne il timbro,

la musica di quelle note alpestri

Fatuus …

E la bellezza di quel sigillo si fece aria rarefatta

vibrando sulle acque stanche

come il mormorio d’ali di farfalla

e giunse trasportata dal vento.

Il Fauno si volse come rapito dal torpore

e guardò incantato  la ninfa …

Gli occhi di un verde baleno scintillavano

come sorgenti  di smeraldo,

sulla pelle di latte nell’ incerto pallore della notte.

Era bella come una gemma

 tenuta al riparo dallo sfacelo del tempo

e brillava di un fuoco che incessante

si’originava dal fondo  dall’anima.

Arhel …

Le rispose accennando un sorriso il Fauno .

Nei suoi occhi vi era il colmo di una gioia vibrante

e quell’essere un tempo  percosso dal fato

era ora grato al destino che lo aveva ripagato

di un dono inaspettato.

Arhel  …

mormorò tra le labbra … e la voce gli si mozzò in gola.

Era felice il Fauno di quella presenza e

Nell’ apice della sua felicità

avvertiva la fragilità di quel momento,

temendo potesse infrangersi di colpo

sugli scogli del destino beffardo.

La donna gli si sedette accanto con frusciar di vesti

 sulle filute camme e le verdi zolle.

Poi chinò il biondo capo cinto

di fiori sul petto del fauno.

Mentre lui le accarezzava le trecce e il crine sciolto

intonò un canto che tinse l’aria d’incenso

sciogliendo il cuore del Fauno fino e farlo  sanguinare

in quella veglia di rimpianto e solitudine.

Così nella quiete della selva il suo pensiero volse alla fanciulla

che d’umana stirpe s’ era creduta e ora era mutata in altre forme

era crisalide al colmo del suo corso.

" Padre ..."

Disse Arhel fissandol Fatuus negli occhi

Raccontami di mia madre … dimmi di Eco, perché

ho nostalgia di lei … di Lei tutto mi manca,

 persino il volto e il suono del suo canto mi sono ignoti ,

eppure sento dentro di me un vuoto che va riempiendosi,

come il pozzo dei tuoi occhi al ricordo di Lei … ”.

Il Fauno chiuse le palpebre per un istante

e ripensò alla sua ninfa,

la rivide tra i veli di seta e i canapi di giunco

cinti al seno rigoglioso,

vide le sue rosse labbra fiorire nel canto.

Si immerse nei i suoi occhi di mare

colmi d’onde e fiere tempeste

ma dolci come nettare di fico

all’ombra delle lunghe ciglia.

Aveva amato Eco più della sua vita

e ancora l’amava come il primo giorno,

Perduta e  violata nel sangue mai l’avrebbe dimenticata,

trascinata dal fiume oltre il guado del suo abbraccio

Ma quando ogni torre era crollata

e ogni fondamenta rotolata nella rovina,

quando ogni cosa era volta al declino e la rabbia

precipitata nella furia della vendetta

aveva ritrovato Lei … Arhel …

dal segno che lega il filo d’ogni minuto punto

e muove i passi su questo mite  regno .

Lo scosse nuovamente Arhel

Parlami di Lei ti prego,

fa che il suo ricordo

 non viva solo dentro di te  ”

Il Fauno fu colto da una strana emozione

serrò gli occhi lucidi

e con voce rotta dall’emozione aprì

lo scrigno della memoria e iniziò a raccontare …

mentre intorno a loro si raccoglievano gli animali del bosco

nel silenzio della radura illuminata dal cerchio diafano

di una luna splendente,

tra lo sciabordio delle acque del fiume nel suo letto ciottoloso

e lo stormire delle foglie mosse dal vento …

MARVELIUS

 
 
 

IL FAUNO ...

Post n°83 pubblicato il 25 Marzo 2014 da Marvelius
 

 


Le nuvole ricoprivano tutta la porzione di cielo che lo

sguardo poteva abbracciare.

A nord le montagne erano immerse per gran parte

in una nebbia densa che dal bianco scoloriva

in un grigio carico di pioggia.

 A sud, lungo le praterie sconfinate, un mare di bruma

galleggiava sull’erba  assorta nel mormorio del vento.

In questo declivio di un biancore sporco e ovattato

stavano appollaiati a levante e ponente i piccoli borghi

fortificati come nidi di rapaci raccolti nelle loro

cinte merlate.

Castellari dormienti e resi sicuri da solide pietre,

tra torrioni svettanti e masti poderosi, mentre

al loro interno, ancora fumanti, le case di ciottoli e argilla

si tenevano strette l’un l’altra in un abbraccio intimo

e rassicurante.

Sulle torri più alte, verso sera, venivano accesi i

Fuochi dell Alleanza, occhi scintillanti tesi a rinsaldare

un unione che da secoli scacciava

le tenebre della notte segnando il cammino per

i viandanti e  forgiando una catena ideale

per ogni uomo che di quelle terre era sovrano e custode.

 

 

Quando la notte era assisa in cielo e in ogni angolo

di quella terra l’ululato dei lupi segnava il domino

di una natura selvaggia,

tutte le porte venivano sbarrate, i cardini serrati,

i cancelli sprangati, i portali di pietra piombati dai loro ponti

levatoi e ogni borgo, ogni castrum, ogni castellanìa

si rinserrava in se stessa nell’attesa che la notte

giungesse presto al termine .

Fuori ,tra gli alberi alti della foresta, fra i grovigli di cespugli

 e i rovi molestati di spine e bacche dal sapore dolcissimo,

oltre le radure, in ben altro calore forgiavano la loro rabbia

i cuori neri e innominati del bosco.

Non era il fuoco dei camini che li avrebbe tenuti lontano

ne la luce fioca delle candele o l’olio combustibile di

piccole lampade infisse nei muri tinti a calce.

Niente li avrebbe fermati se avessero voluto …

 nessuno avrebbe potuto nulla forse neanche il fuoco.

Ma per ora le grandi mura merlate, i grandi ponti

levatoi e i fossati colmi d’olio nero potevano tutto questo.

Da un secolo l’olio dei fossati era restato spento,

un immoto gorgogliare di liquido scuro e denso che era

bastato a tenere lontano, con il suo odore pungente e

venefico, le bestie della foresta e Lui …

la Belva Innominata

che tutte  teneva avvinte al suo dominio.

Quando la sera giungeva, le ombre della boscaglia

si allungavano fino a ghermire le pietre dei fossati e tutto

tornava a galleggiare nella paura e nel timore,

nell’ansia di ore lente tessute dai ferri di un

Candelaio silente.

Sulle rive del lago immerso nella pallida luce di

una luna piena se ne stava Lui … nudo a guardare

le acque agitarsi tra i riverberi delle sterminate stelle .

I capelli sciolti sulle spalle e le braccia pendule

lungo i fianchi.

 


Si sedette su un trono di pietra, chiuse gli occhi e  si

abbandonò al passato pungente, come una spina

conficcata nel cuore  gonfio di solitudine e tenebra

desiderata, amata e vissuta come ombre raminghe

tra i cespugli della brughiera.

Guardava le creste delle onde rincorrersi nella

penombra e ricordava Lei immersa in quelle acque

d’argento, scivolare  come un anguilla nei fluidi caldi

di quel lacustre catino, circondato da pini vetusti

e giovane  betulle.

La rivide giocare tra le caule in cerca di lucciole per illuminare

la sua notte e allietare i suoi occhi smeraldo.

 


Lungo le bordure del fiume serti di ginestre e felci e,

 tra i greppi , avvolti da trini di fiori scarlatti,

cascate di  asclepias  e canne ondeggianti

si piegavano al suo passo spargendo i loro profumi.

Lì .. tra quei nidi di un intimità inviolata Eco si scioglieva

i capelli corvini come getti e virgulti di una pianta invitta

e Lui ammaliato e piegato da una voluttà plasmata

nel desiderio della carne avrebbe voluto rapirne i pensieri,

per custodirli nel forziere segreto del proprio petto,

sepolti tra le sabbie del suo mare popolato di onde e alichini.

Avrebbe sciolto le catene della rabbia e tratto dalle pietre

antiche

il mormorio di una magia dimenticata per

 farsi acqua e penetrare recessi e anfratti insondati,

rinserrandosi

nei cubicoli inaccessibili di Lei … Lei soltanto.

 

 

Il Fauno piegò il capo vinto dai ricordi e sopraffatto

dalla mancanza della Ninfa.

ECO … sussurrò tra le labbra … Eco …

Una lacrima si fermò sui greppi delle ciglia come un diamante

sospeso sul baratro di un monte.

Il vento gli carezzava la schiena illuminata da un

raggio di luna, mentre i profumi del bosco gli penetravano

dentro come suffumigi di mago.

Strinse i pugni con forza e accigliò lo sguardo ferino,

un onda di odio montò dentro di Lui come le acque

inarrestabili di una diga infranta e ricordò …

Il ricordo di Lei divenne chiaro come le stelle nel buio della

notte, si levò dalle acque prendendo forma e sostanza e

pian piano si ammantò di rimpianto  e disperazione.

Una furia cieca prese a scorrere nelle sue vene avvelenando

il suo sangue e l’immagine di Lei sanguinante  lo rese

servo della sua collera .

Rivide gli uomini braccare la sua Ninfa e si rivide impotente

sulla riva avversa di un fiume turbolento.

Chiuse gli occhi per cancellare quel ricordo, ma il ricordo

ormai  viveva dentro di Lui e si impresse con più forza nella sua

testa come le grida di Eco che gli martellavano le tempie.

Scosse il capo e grugnì con fastidio e sprezzo ma

l’immagine delle vesti di Eco strappate e abbandonate

alla corrente delle acque gli scivolavano davanti agli occhi.

Poi il fiume divenne rosso del suo sangue, i suoi occhi

che prima coloravano le acque si erano spenti nel vitreo

 pallore della morte  e Lui…Lui era rimasto sulla

sponda opposta prigioniero dell’invalicabile limite delle acque.

Loro avevano saziato i loro istinti e colmato

 con la violenza ciò che gli era stato rifiutato con grazia.

Sentiva tutto il peso della sua diversità trasformarlo

nell’emblema di una creatura da abbattere o confinare

ai limiti del mondo mentre la vera mostruosità

era quell’umanità  imbevuta di bizzarrie

e di eccessi , che si nutriva violenta

di insoddisfazioni e putridume di sensi.

Raccolse le sue forze allargando le braccia al cielo urlando

la sua rabbia alla luna poi volse oltre i suoi passi

 lungo il sentiero che lo avrebbe portato da loro,

verso i cumuli di case e le torri di pietra, tra muri

svettanti e porte infisse nei cardini ferrati.

Nulla lo avrebbe fermato, nulla avrebbe retto

alla sua violenza, nulla sarebbe più stato come prima

 perché nulla era più come un tempo.

Devastò, uccise , dilaniò qualunque cosa si opponesse

 al suo passo, violò case e palazzi e non vi fu torre

che non riuscì a scalare, muro che fosse invalicabile

per le sue braccia e la sua rabbia divenne un turbine

di ferocia e di sangue.

Quando giunse alle porte dell’ultimo borgo vi trovò

una fanciulla ad aspettarlo.

Una creatura stretta nelle spalle e tremante, esile come un

giunco tenero mosso dal vento.

I capelli cerulei raccolti in una lunga treccia, la pelle di luna,

il viso emaciato e delicato, le braccia pendule e le dita sottili

intrecciate, nocca a nocca , sul ventre appena proteso.

Una lunga veste rattoppata e lisa le copriva il corpo acerbo

fin quasi le caviglie , snelle, diafane e  chiuse in scarpe consunte.

Lui non si era accorto di aver frenato la sua marcia, di aver

calmato la sua ferocia , era restato fermo a un paio

di braccia da quella figura smilza e indifesa.

Ansimava ancora, come una bestia dopo una lunga corsa,

sudato e coperto di sangue la guardava indeciso sul da farsi

e sorpreso  e dubbioso di trovarsi davanti un umana

fuori dal grande cancello di ferro del suo borgo di pietra.

Spostati donna

disse con fastidio allungando il suo braccio armato di spada,

ma si accorse che aveva ben poco senso

quella minaccia e le passò accanto per dirigersi verso la

porta sbarrata.

 

 

Nello sfilarle vicino vide gli occhi pieni di lacrime della

fanciulla fissare il vuoto, bellissimi occhi verdi

come il fiume immerso nel folto

fogliame di alberi secolari , dove Eco amava specchiare

i suoi occhi così simili a quelli dell’umana.

La luce di una stella vibrò in quell’istante nelle pupille di Lei

ma il Fauno capì che la luce  l’aveva attraversata senza

che Lei ne potesse avvertire il calore ne il freddo incedere

del suo brillìo.

 

 

Le agitò lievemente  una mano davanti agli occhi ma Lei

non si mosse ne chiuse le sue palpebre,  aveva avvertito

la presenza e forse il gesto ma era rimasta immobile

come avrebbe fatto con chiunque.

Perché sei fuori dal cancello in una notte di

sangue e vendetta?
”.

Disse cercando di apparire più terribile di quanto non fosse.

La curiosità lo molestava come un esca per troppo tempo

 lasciata sciogliere nelle acque del fiume, mentre pesci voraci e

infidi sbattevano le loro pinne in cerca di coraggio .

Aspettavo il Fauno …

 rispose incerta la fanciulla

Attendevo Colui a cui è stato fatto oltraggio ..

inferta la ferita nel cuore che tutte supera

nel dolore


TU ASPETTAVI Me ?

Urlò con rabbia, mista ad un incredula rivelazione, il Fauno

Si …

rispose abbassando il capo la ragazza tra i singulti

mozzati in gola.

Sono l’offerta che il borgo ti porge affinché tu non

vada oltre, sono il sacrificio che ripaga del torto subito


IL Fauno stette in silenzio per un po guardando la ragazza

cieca, ma dentro di Lui già sentiva la rabbia bruciargli il ventre.

Avrebbe voluto uccidere la fanciulla e spargere le sue membra

lungo le mura a protezione del borgo, sapeva che i suoi abitanti

erano tutti lì nascosti al riparo delle pietre e degli sbecchi

dei camminamenti, tremuli e codardi, ma non provava

odio per Lei , anzi la tenerezza informe che si sprigionava

dalla voce della ragazza lo irretiva.

L’esile membra strette nelle sue vesti ne faceva una regina

di coraggio e un icona di invulnerabile fragilità,

di fronte al pavido celarsi dei suoi consanguinei.

Così le pose una mano sulla spalla e fu come una coperta

nel gelo dell’inverno.

Lei sussultò un po sotto il peso di braccia così poderose e

respirò forte sotto i palpiti del suo cuore.

Era bella … di una bellezza senza inganno, pura come

l’acqua cristallina di una fonte d’altura .

Non c’è compensazione per la mia perdita,

 la mia Ninfa ora è un soffio che avvolge la mia pelle

come il figlio che portava in grembo, non c’è offerta

 che mi ripaghi delle loro vite perdute
”.

Disse con un velo di rassegnazione, poi volgendo il suo

sguardo sul viso della fanciulla esclamò

Vieni

E la sua voce profonda era senza più un briciolo di rabbia

Vieni via da tutto questo sangue e tutta questa miseria”.

E volgendo le spalle alle mura del borgo si avviò lungo

il sentiero puntellato di platani svanendo oltre la boscaglia.

Sono ormai passati cinquant’anni da allora e del Fauno e

della Fanciulla nulla più si seppe.

 Di tanto in tanto qualche viandante smarrito per i nostri

 boschi giunge al borgo antico giurando che nelle acque del

fiume abbia visto una donna cantare con dolcezza

specchiandosi nuda nelle sue acque, tra le note

di una  musica melanconica proveniente

dal una riva e dal folto della boscaglia.

Gli abitanti del borgo non amano parlare di questo

e chiusi nei loro serragli ,

abbassando lo sguardo, serrano i loro cuori

pensando ad un triste passato

e alla loro umanità smarrita nella notte

mentre una fanciulla, forse da lontano, scruta le case

del loro antico borgo.

 

 

MARVELIUS

 
 
 

"LA FINE DEL LIBRO"

Post n°82 pubblicato il 04 Marzo 2014 da Marvelius
 

 

 

La fine del libro : racconto breve del 1994 riadattato in

forma piu sintetica per il blog. 

 

Quella notte Lorenzo capì che un pendolo non può oscillare all’infinito, lo aveva compreso guardando il grande orologio a muro del suo salone, aveva ridacchiato tra sé  gli aveva dato un ultima carica, così, quel misurino del tempo aveva ripreso la sua altalenante condanna tra un tic tac banale e ripetitivo.

Poi si era sistemato comodo sulla sua sedia a dondolo, si era coperto le gambe con un ampio plaid di lana scozzese e aveva dato un occhiata alla sua stanza ben ordinata, infine, si era tolto gli occhiali, li aveva infilati nella tasca della giacca e si era addormentato

pian piano ...



Lorenzo era cresciuto in un vecchio istituto di frati insieme a tanti altri ragazzi che come lui custodivano le speranze di genitori troppo impegnati per occuparsi di loro, ma abbastanza orgogliosi da pretendere per essi un futuro che li ripagasse degli sforzi sostenuti per mantenerli negli studi.

Fin dall’infanzia era apparso evidente che Lorenzo sarebbe stato un ragazzo modello. Ordinato e meticoloso, si immergeva nello studio con una caparbietà ad altri sconosciuta, ma si sa la vita toglie e la vita dà e a quel ragazzo a cui la natura aveva concesso un intelligenza fuori dal normale gli aveva negato il carattere, la forza e quel pizzico di malizia che prepara alla vita, così era finito per diventare il buon Lorenzo a cui impartire ogni tipo di scherzo e di sopruso. Ma Lorenzo non era un codardo, il suo carattere mite lo predisponeva alla tristezza della vita, ad incassare i colpi più amari e a perdonare senza rancore. Si caricava dei problemi degli altri ragazzi ed era sempre pronto a ripartire da zero. Aveva imparato  presto che la fiducia riposta nei suoi compagni lo ripagava spesso con vergate e punizioni da parte dei suoi precettori ma ciò nonostante era sempre pronto ad assolvere e sopportare  .

A volte, quanto più dura era stata la giornata,con le lacrime negli occhi si rinserrava sotto le coperte e rannicchiandosi nel letto ricordava i suoi genitori. 

Di suo padre aveva un ricordo vago e distaccato, un ombra vagheggiata

tra le tinte fosche della notte, un uomo assente che presto li aveva abbandonati per svanire insieme alla sua inutilita di padre e marito.

Sua madre era precipitata nella spirale della depressione, un lungo tunnel fatto di angoscia e un melanconico nichilismo che la portava a rifiutare persino suo figlio ma lentamente era uscita dal baratro con l'aiuto del suo medico e  come in una favola a lieto fine si era risposata. Da quella unione era nato un figlio che pian piano aveva rimpiazzato il buon Lorenzo raccogliendo ogni attenzione e tutto il suo affetto di un tempo, quasi che lui fosse tutto ciò che ancora la legasse al suo primo marito.

Così quel collegio era finito per diventare la sua vera casa a cui si era adattato pur tra le visite  sempre più rade di quella donna bionda e alta che oramai da anni non rivedeva più.

Dopo i suoi studi aveva preso a scrivere e recitare, ma la sua voce stridula e goffa mal si adattava ad un palcoscenico e ai testi che avrebbe amato interpretare.

Aveva scritto numerosi romanzi e racconti d’ogni genere, ma nessuno aveva voluto pubblicarli, poche risposte fatte di rifiuti e frasi di circostanza.

Le storie sofferte, le vite spezzate e i sogni infranti che prendevano vita nei suoi romanzi non trovavano l’interesse degli editori, troppo cupi e pieni di tristezza dovevano apparire a quel mondo a cui lui sembrava non appartenere più.

Così lentamente si era spenta la sua vena creativa e si era messo da parte rinunciando a tutte le  aspirazioni di un tempo, ai sogni coltivati nel chiuso della sua anima .

Ogni tanto riapriva il cassetto della sua scrivania prendeva dei fogli bianchi e li riponeva sul tavolo, restava delle ore a guardarli mentre con il pensiero li sfogliava ricoprendoli di tutti i racconti che avrebbe voluto scrivere, poi con tristezza li riponeva lentamente nel cassetto.

In quei giorni era venuto a trovarlo, dopo molti anni, l’unico vero amico dei suoi freddi inverni nel vecchio Istituto San Bernardo, Lorenzo nel vederlo ebbe un sussulto di gioia e fu felice come forse mai lo era stato.

Luca era un uomo alto e magro con i capelli brizzolati ed un aspetto elegante, il volto scavato dalle occhiaie tradiva il suo stato di salute che lo aveva accompagnato fin dalla giovinezza. Lorenzo al contrario era un uomo robusto dalle guance rosse ed il viso glabro, portava degli occhialini tondi che lo rendevano simpatico e goffo allo stesso tempo. I capelli corti ne ispessivano il capo ma nell’insieme della sua figura

era un uomo che ispirava serenità, fiducia e molta dolcezza.



Luca si era fermato alcuni giorni a casa sua, avevano ricordato i tempi della scuola, delle ore di latino e greco e dei seminari passati a farsi dispetti, poi una sera gli aveva confessato di essere gravemente ammalato e che quella sarebbe stata la sua ultima visita.

Lorenzo non aveva saputo dire niente, ascoltando e soffrendo come aveva sempre fatto, in silenzio, ma nel suo cuore vi era un tormento che Luca conosceva bene per questo aveva cercato di cambiare subito discorso.

Andarono a dormire a notte fonda, l’indomani Luca sarebbe partito.

Ma fu una notte in cui Lorenzo non riuscì a dormire visitato dai fantasmi della sua giovinezza e dal circolo dell'esistenza  fatta di distacchi e addii laceranti. Un altro pezzo della sua vita se ne stava andando verso una deriva che languida lo trascinava al ricordo di una vita piatta e noiosa come i suoi libri, un vortice di immagini lo rapiva e lo stordiva confinandolo in un tartaro fatto di echi e sprazzi di colori informi ... poi tutto era stato risucchiato dal buio e dal silenzio della notte .

L’indomani Luca e Lorenzo si salutarono tra lacrime mal celate e quando Luca entrò nell’ascensore richiudendo la porta alle sue spalle Lorenzo si vide solo in un mondo a lui estraneo.

Si affacciò dalla finestra del suo studio con un senso di estraneità opprimente e vide la gente, frenetica, attraversare la strada, entrare ed uscire dai negozi fra gli sguardi assenti, macchine in coda tra i fumi dei motori e i suoni isterici dei clacson.

Una moltitudine di vite continuamente alla ricerca  di una felicita  che scivolava dalle mani come pioggia sulla pelle, un effimera chimera che regalava apparenza per poi lasciare il  vuoto di un insoddisfazione costante.

Si sentì triste e per la prima volta non ebbe voglia di reagire si strinse nelle sue spalle strette e appoggiandosi al muro ruppe in un pianto muto e soffocante.

Assaporò quasi sadico quel suo tormento, sentiva il petto stringersi in una morsa devastante, un nodo alla gola gli serrava il respiro e tutta l’inutilità della sua vita gli scorreva davanti agli occhi pieni di lacrime.

Gli venne in mente sua madre, la ricordava sorridente e delicata accarezzargli le guance, ne ricordava il profumo dolce che gli lasciava sugli indumenti. Rivide i suo occhi verdi guardarlo con dolcezza e la su avoce sottile e delicata infondergli coraggio e sicurezza, ricordò i suoi abbracci i bisbigli tra i suoi capelli e il calore della sua pelle sulla sua.

Singulti acerbi da troppo tempo trattenuti nell’anima si fecero strada a ondate, con un fazzoletto bianco con ricamate le sue iniziali di azzurro si tamponava gli occhi,  ma senza una via di uscita da quel suo mondo in declino si arrese alla disperazione e al fallimento.

Poi a fatica si diresse al suo studiolo e allungando le braccia cercò la sua poltrona immersa nella penombra, vi si  adagiò come a perdersi nel vuoto, e in una caduta esanime ed eterna  cercò di ricordare qualche momento di felicità, ma sapeva che erano stati ben pochi ed effimeri. Così allungò una mano fino a raggiungere il cassetto dove teneva i suoi fogli bianchi li tirò fuori e quasi inconsapevolmente iniziò a scrivere.

Aveva superato la cinquantina e l’amore lo aveva puntualmente evitato, non che non avesse mai provato dei sentimenti per una donna anzi , ma c’era stato sempre chi prima o poi lo aveva scavalcato nell’attesa che  lui dichiarasse le sue intenzioni, così, era diventato un custode di segreti, un amico con cui confidarsi e niente più ma si era adeguato, come sempre, a questo ruolo accettandolo serenamente ma in un  oceano di rimpianti e una sconfinata delusione che sapeva ben celare .

Passati gli anni della giovinezza anche questo ruolo lo aveva ripudiato ed ora si ritrovava solo nell’intimità della sua casa come una torre diruta che attende il crollo dopo anni di solitudine e abbandono.

Il suo libro intanto lentamente stava prendendo forma, scriveva in ogni ora del giorno preso da una frenesia che non pensava più di possedere.

Una mattina era sceso a comprare il solito giornale,  lì sotto la sua casa aveva conosciuto Giulia, una donna intorno ai quaranta, bella come Lorenzo ne aveva visto poche nella sua vita, avevano scambiato qualche chiacchiera sul vago, ma presto si erano ritrovati ogni mattina dallo stesso giornalaio e preso a frequentarsi. Lorenzo era affascinato dalla bellezza di Giulia, dalla sua vitalità per ogni cosa che faceva ed in breve tempo erano diventati buoni amici.

Più volte avevano pranzato insieme e trascorso molte ore nei parchi della città a chiacchierare dei loro interessi, delle loro passioni fino a scoprirsi tanto simili da restarne a volte meravigliati entrambi.

Lorenzo per la prima volta era veramente felice, si accorgeva di quanta energia gli emanasse Giulia e pian piano si era innamorato di quella donna elegante e raffinata che gli aveva aperto le porte della sua vita.

Lei sembrava assecondarlo, gli confidava ogni cosa e gli si stringeva tra le braccia cercando di metterlo in imbarazzo tra la gente per poi scoppiare a ridere con la sua voce cristallina che accendeva Lorenzo di passione.

Un giorno gli aveva confidato di essere sposata, ma di vivere lontano dal marito oramai da anni. Gli aveva più volte ripetuto di aver attraversato momenti terribili con quell’uomo ma che da qualche tempo aveva ritrovato una serenità ed una voglia di vivere nuova e Lorenzo in questo si sentiva felicemente responsabile.

Tutto procedeva nel migliore dei modi, il libro era quasi finito e Giulia non gli negava quei sorrisi e quelle piccole carezze che il tempo, sperava Lorenzo, avrebbe tramutato in un affetto più profondo  mentre in lui l’amore lo ardeva e lo consumava come un adolescente.

Si alzava sempre più presto la mattina con l’idea di incontrarla e andava a letto sempre più tardi immaginando il sorriso di lei nei suoi occhi e trovando nei sogni e nei pensieri il coraggio di parole che nella realtà, di fronte a lei, non riusciva a pronunciare

Quella mattina attese a lungo il suo arrivo ma lei non venne. Quando il campanello suonò era ormai sera, Lorenzo si alzò di scatto dalla poltrona e si precipitò a lunghi passi ad aprire il portone e lei  apparve come un angelo a dargli sollievo nel mezzo della selva delle sue preoccupazioni .

Lo guardò con tenerezza e con un po di imbarazzo, allungò un braccio sul petto di lui ma non volle entrare ed accigliando lievemente lo sguardo gli parlò guardandolo dritto negli occhi:

Devo dirti una cosa

e a Lorenzo sembrò più bella che mai.


Ho rivisto mio marito, abbiamo parlato di tante cose, di come eravamo, dei nostri errori. La lontananza ci ha cambiato … ha fatto riflettere entrambi e a me ha dato l’opportunità di conoscerti, sei stato molto più che un amico e a te devo la serenità e la fiducia in me stessa che avevo perduto … tutto questo non lo dimenticherò mai”.

Poi aveva chinato il capo sul suo petto e tratto un lungo respiro, quando rialzò il capo aveva gli occhi lucidi ma pur con la voce rotta dall’emozione continuò a parlargli.

Io e Paolo abbiamo deciso di riprovare a tornare insieme, chissà, questa volta forse sarà diverso e potrà funzionare, domani partiremo per un viaggio spero che sarà felice come lo è stato quest’ultimo periodo”.

Questo gli aveva detto, poi lo aveva baciato su una guancia e se ne era andata nel silenzio ovattato del pianerottolo.

Lorenzo aveva rinchiuso la sua porta e con quella anche la sua anima, era ricaduto nella trappola del suo destino, con le sue gioie effimere ed i suoi baratri  amari.
Un tempo avrebbe cercato una ragione in tutto questo e ripreso la sua esistenza ora avvertiva un distacco nuovo che lo affliggeva e lo consumava, si sentiva avvilito come quando vedeva sua madre salutarlo fuori dal cancello del collegio e svanire con la corriera delle cinque, allora sapeva che prima o poi sarebbe ritornata, almeno questa speranza lo aiutava a superare i freddi inverni della sua mite esistenza e i giorni duri nell’istituto, ora invece questa speranza non c’era e forse non c’era mai stata.

Riprese i suoi fogli, decise che avrebbe finito il suo libro, lo avrebbe spedito all’ennesimo editore per riprendere il ciclo di umiliazioni di un tempo, ma non gli interessava più oramai, tutto era coerente con quella che era stata la sua vita....una banale esistenza fatta di sconfitte e orizzonti grigi.

Terminò il suo ultimo capitolo a notte fonda, proprio quando il grande orologio a muro rintoccava le quattro, Lorenzo si alzò e si diresse verso il pendolo immobile come un chiodo infisso alla parete.

L’editore ricevette il libro alcuni giorni più tardi, sulla copertina una frase: “LA FINE DEL LIBRO” ed un indirizzo, poi nient’altro.

Egli lo lesse attentamente assaporando ogni rigo, ogni frase intimamente costruita in un dramma lungo una vita, capì di trovarsi nell’esistenza di un uomo a cui la vita molto aveva tolto concedendogli ben poco.

Penetrò la grandezza di quell’anima che in molti avevano ignorato e così decise che l’indomani lo avrebbe telefonato per fissare un incontro, poi rilesse con calma il finale del libro:

 


Quella notte Lorenzo capì che un pendolo non può oscillare all’infinito, lo aveva compreso proprio stando davanti al grande orologio a muro del suo salone, aveva ridacchiato tra sé e gli aveva dato un ultima carica, così quel misurino del tempo aveva ripreso la sua altalenante condanna tra un tic tac banale e ripetitivo. Poi si era sistemato comodo sulla sedia a dondolo, si era coperto le gambe con un ampio plaid di lana scozzese e aveva dato un occhiata alla sua stanza ben ordinata, infine,  si era tolto gli occhiali, li aveva infilati nella tasca della giacca e si era addormentato pian piano.........nell’odore acre del gas.

Lentamente il sonno avrebbe lasciato il posto alla morte che in silenzio avrebbe violato il suo corpo mentre la sua anima ormai era già morta da tempo
.


                                                              
MARVELIUS

 
 
 

L' ULTIMO VOLO ...

Post n°81 pubblicato il 09 Febbraio 2014 da Marvelius
 


 




Passeggiava sulla scogliera tra il ruggito delle onde

e la spuma di mare come veli di sposa sugli irti

pinnacoli di roccia.

Al vento consegnava i suoi pensieri e le domande

pescate in fondo al cuore, mentre

col viso stanco si immergeva nelle profondità scure

delle acque.

Chiuso nel suo giaccone scorreva i suoi passi come grani

di un rosario senza fine.

 

 

Al largo una barca duellava con le grandi onde ferruginose

e il cielo baturlante tempesta,  così,  tra la pioggia sferzante

e il vento teso si sedette su uno scoglio poggiando i suoi

stivali  su un  masso bianco e  traslucido.

Si tolse il cappello e con le mani ne accarezzò la tesa scura

 imbibita di pioggia e salsedine, poi sorrise e alzandosi con

una composta flemma si pose sul ciglio della scogliera

tenendo il suo cappello tra le dita, poi strinse il braccio

verso il petto per poi allargarlo di colpo con un rovescio

lanciando il cappello  nel grigiore del cielo .

Restò immobile fino a che il suo cappello non approdò

sulle acque, lo guardò sparire e riemergere tra le

onde sfrigolanti, una piccola macchia scura tra flutti

di verdemare e piombo liquido e rabbioso.

Poi si volse verso il declivio della montagna

e con gli occhi lacrimanti per il troppo vento si mosse,

lasciandosi alle spalle quell’oceano di vita pulsante.

Si inerpicò lungo il sentiero brullo e roccioso che

portava alla sommità della scogliera col capo chino

sui suoi passi e i pensieri pesanti come macigni e nel

muto incedere lasciò che il suo cuore gli parlasse.

Sono stanco … stanco di questo tuo non dimenticare,

stanco del tuo darti pena, dei tuoi capricci che tolgono

il sereno lasciando nubi ai tuoi orizzonti, onde maestose

al tuo animo e tempeste nel fondo del tuo spirito.

Sono stanco del tuo peregrinare, del tuo non saper

attendere nell’oasi dei tuoi simili, del tuo astenerti

dal desinare oltre i morsi frugali privi di sale,

stanco dell’ insonne ristoro delle tue membra
”.

Si fermò sul ciglio del dirupo e con le mani in tasca

si sporse fin quasi a spiccare il volo tra l’aria rarefatta

sopra il rigurgito delle acque, tra gli scogli affioranti

la baia angusta del litorale.

Poi si sedette nuovamente accarezzando ciuffi di achillea

coi palmi delle mani e con serenità rispose al suo cuore …

Ho attraversato strade polverose di vecchie città dirute e

danzato sui grandi lastroni di marmo di palazzi sfarzosi,

ho posato i piedi nudi nella rena umida del mare

e nelle roventi sabbie dei deserti.

Ho diviso il mio viaggio con stranieri come divide il fuoco

 le sue lingue, condiviso gioie e dolori con chi del mio fianco

teneva dolce premura sperando in certezze e protezione.

Ma non ho cessato di andare avanti, di cercare di

afferrare l’ombra dei miei passi quando il sole mi scaldava

la schiena e la notte mi ammantava con le sue tenebre.

Il mio destino è un libro bianco mio fidato amico, pagine sciolte

su cui intingere il pennino delle nostre scelte, la mia fame

è un insaziabile torre che svetta verso il cielo e i miei

occhi hanno il colore che tutti li possiede .

Così mi immergo nelle trasparenze del vento come

nelle oscurità degli abissi che tu hai imparato a percorrere

insieme a me
“.

Si distese sull’erba sparuta tra piccole sporgenze di roccia e

terra e si lasciò rapire lo sguardo dall’’ampio squarcio di

azzurro tra dense colonne di piombo.

Una lama di luce di un rosso perlato si incuneava ora

 tra lembi di cirri biancastri e i carri di nuvole pesanti  che

inghiottivano le cime più alte dei monti.

Poi fu ancora il suo cuore che parlò e sarebbe stata l’ultima

volta che lo avrebbe fatto, e lo fece con la voce tenera di un

bambino ...


 

 

Sono triste … e tu sai perché …

Avrei voluto darti altri rintocchi che come tuoni

potessero echeggiare tra le gole dei monti  e ben altro

calore al tuo petto per incendiare le notti al chiaror di

stelle o quando la tormenta ghiacciava le tue membra.

Avrei voluto avere un altro cuore vicino a me affinché

come una pariglia di brenne potessimo correre e battere

le ore della veglia, avresti dovuto avere un altro Me …

Un cuore più adatto al tuo cammino, piu forte e profondo

con cui immergerti nei pozzi oscuri e nella luce

vermiglia dei tuoi soli.

Ma qui ci sono io  e io soltanto e sono stanco …

Stanco per non poterti seguire e  dare cio che tu cerchi

e in questa mia incapacità mi consumo come

stoppia affastellata al calore di carboni ardenti.

Fumo nero sale tra volute storte lungo i muri della tua dimora,

ne annerisco le pietre nobili e i cocci cinabri e come sangue

rappreso cedo la mia linfa a fatica per darti le ultime ore

di sollievo che segnano la mia incapacità e la mia melanconica

resa.

Dirti addio è un ponte sospeso su un abisso tra due monti ,

l’uno mi è di conforto per la mia pace dopo molte battaglie,

l’altro è il calco indegno del mio fallimento
”.

 

 

Egli restò immobile steso a terra, ma i suoi occhi ora erano

serrati, lo sguardo sereno, il viso disteso nei suo tratti regolari.

Solo i capelli ricadenti sulla fronte si muovevano agitati dal

vento, i profumi di fiori selvatici gli giungevano alle narici

e l’odore della salsedine gli riempiva i polmoni di gioia.

Sognava l’immensità del mare e la forza eterna delle onde

e iniziò a viaggiare con la mente verso la sua meta tra le stelle

e il cosmo siderale.

 Si lasciava cullare dal vento che lo innalzava sopra le

cime imbiancate dei monti, lo librava come una piuma tra i

boschi resinose e finì a planare sulle acque tortuose dei fiumi

 o quelle placide dei laghi di foreste antiche e mormoranti.

Le caule filute gli narravano la storia di quella terra

e le camme dei gigli gli bisbigliavano ciò che avrebbe sempre

voluto conoscere, che non c’è dolore oltre quel momento di

mutamento e che il suo viaggio era appena iniziato e non

importa quale strada si percorre perche uno è il viaggio,

una la meta a cui si giunge.

Poi quando un pettirosso si fermò sul suo petto aprì gli occhi

e li immerse in quelli della piccola creatura, ora anche il suo

cuore sanguinava ma non c’era dolore, solo un piccolo peso

che lo faceva sentire ancora vivo …

 

 

Mi hai servito bene invece”

disse con voce calma, poi aggiunse con dolcezza

“Mi hai dato ciò che in fondo ho sempre desiderato e in quei

desideri mi sei sempre stato accanto, battendo all’unisono

con la mia anima …

Hai pianto con me quando eravamo colmi di dolore e hai riso

quando traboccavamo di felicità.

Ci siamo stretti per mano nelle giornate di solitudine e

camminato fianco a fianco nelle ore in cui ogni cosa

sembrava smarrirsi nelle ombre, mi hai parlato con

voce profonda quando scelte importanti serravano le

forze e con voce dura quando caparbia e testarda

l'anima mia avrebbe voluto incendiare il cielo e le

profondità della terra.

Hai levigato i mie spigoli e lenito le mie ferite e hai

saputo scandagliare abissi, portando luce e sentimento

negli angoli più sperduti del mio spirito inquieto.

Non ho nulla da chiederti oltre, nulla da rimproverarti,

niente che tu non mi abbia dato negli anni, nei giorni e in

                          in ogni attimo in cui mi sei stato accanto ...

non addio dunque ma arrivederci”.

E dicendo queste ultime parole chiuse gli occhi e si lasciò

trasportare nel vento dalle ali di un piccolo pettirosso.

 

 
MARVELIUS

 
 
 

LEONIDAS I

Post n°80 pubblicato il 21 Gennaio 2014 da Marvelius
 

 

 

 

L 'ADDIO

Aprì gli occhi nel cuore della notte,

intense iridi scuri come pozzi d’olio nero

si sciolsero nel buio della stanza,

e se ne stette immobile a fissare il tetto di legno

cercando di immaginare il brillio delle stelle .

Ma capì che era ora di prepararsi …

il suo cuore e la sua mente erano pronti da tempo

e quel tempo era ormai scaduto.

Distolse il lenzuolo di lino dalle sue gambe e

poggiò i piedi nudi sul pavimento di pietra.

Rimase seduto sul letto di piume e cardato di lana

saldo come una statua di marmo

mentre tutto intorno era silenzio e ombra.

Guardava fisso i contorni della stanza farsi

più chiari nell’albeggiare del mattino informe.

Gli spigoli dei muri tinteggiati a calce schiarirsi

 con le prime luci dell’alba che filtravano

dagli scuri della finestra.

 

 

Quando la fitta nello stomaco diventò più forte,

con una smorfia del viso, si alzò dal letto

 e si lasciò inghiottire dalla penombra

come ci si immerge nelle acque calde del mare …

nudo

come una creatura celeste, i capelli ornati da tempo,

 la pelle ambrata dal sole , tesa sopra i muscoli tumidi

dal duro esercizio e  solo un canapo bianco intorno

 al ventre a coprire il suo sesso .

Si celò per un attimo il viso  con le mani

per scacciare i pensieri della notte che avevano

agitato il suo sonno infausto, poi passò le dita tra i

capelli fino alla treccia ricadente sul collo.

Il viso tirato e duro come la pietra di Tanel,

i denti bianchi come il latte delle sue giovenche,

le labbra rosse  e carnose sotto la barba corvina,

ogni muscolo scolpito nella roccia in un insieme

sfrontato e spavaldo da rasentare la superbia di un

semidio troppo orgoglioso per flettere il capo e

troppo umano per sentirsene pago.

Ora tutto nella la stanza aveva preso forma e sostanza,

gli occhi si erano abituati alle ombre e la luce dell’aurora

filtrava più forte dalle fessure degli scuri come

lamine d’argento.

Immerse il viso nell’acqua fresca di un bacile e

in quel liquido incolore aprì gli occhi inabissandoli

come perle d’avorio e pece in fondo al mare .

Quando riemerse una voce alle sue spalle risuonò argentina.

 

 

"È già tempo di andare ?

È dunque giunto il giorno in cui ogni cosa sembra

non avere più importanza?".


Lui restò di spalle assorto nel silenzio e lei riprese a parlare.

“I giorni sono volati via come lemuri nei sogni infranti

e i carri di marte Ares già corrono davanti alle nostre porte.

Ti porteranno lontano … come lontano sento già il

tuo cuore.”


Leonidas si voltò verso di lei e i suoi occhi erano

chiodi intinti in un amaro calice e allo stesso tempo

erano occhi dolci e teneri come quelli di un bambino.

“Una parte di me è in viaggio da tempo .

Luoghi selvaggi ne trascinano i passi,

sogni raminghi la portano in grembo su botri e valli ,

ma ciò che non lascerà mai questa stanza è qui“


e dicendo queste parole si tocco il cuore con la mano.

Poi aggiunse con voce profonda, come se ogni serenità

e ogni tempesta di emozioni si fossero dati

appuntamento in quel preciso istante per schiudere

le porte sull’uscio delle sue labbra

“Tu immagini i pensieri di questo soldato sui carri

di una guerra disperata … ed è vero …

ma i pensieri più profondi di quest’uomo restano qui con

Te.

Sono i pensieri di uno sposo e  di un padre che si

 infrangono sugli scogli di un destino beffardo”.

 

 


Aprì la finestra della stanza e volse lo sguardo davanti

a sé e  un sospiro venne trattenuto in gola …

Vide il terreno scuro dei campi appena arati,

i cipressi segnare il profilo delle colline e

gli immensi ulivi

come sentinelle bardate campeggiare sui prati a

difesa della loro storia e del loro mondo di quiete.

Poi ancora una volta una voce lo riportò indietro.

“Ho paura … ho paura che non ti rivedrò più”.

Lui si girò verso di lei e vide i suoi occhi di ghiaccio

fissarlo con durezza ma andò oltre quello scudo

penetrando nella sua anima e in quel giaciglio caldo

la vide rinserrata nel canto di un ombra,

 immersa in una veste nera nel pianto tenero e composto

dei suoi verdi anni .

Raccolse il  rosso vermiglio del suo mantello come

si intinge il drappo nel sangue di un amico d’arme

per dare testimonianza del suo sacrificio a chi

 lo aspetterà invano tra i muri spogli di una casa.

 Le lacrime di Gorgo scorrevano sulle guance rosee

come torrenti senza più argini ma lei restava ferma

come una lancia infissa al suolo nel suo portamento regale.

Lui ricordò le parole dell’Oracolo, ricordò la profezia

del sacrificio di un re della stirpe di Eracle e chinò il capo.

Ma fu un attimo e tornò a guardare Gorgo con benevolenza,

osservò i suoi capelli sciolti come tenebre assorte nella notte,

i suoi occhi vispi rigati di bistro e la pelle liscia e pallida,

la sensualità del suo corpo lo richiamava ad altre battaglie,

 così la carne profumata, serrata nella sua veste candida,

i seni turgidi nei canapi di lino e le forme piene

intorno ai legacci  sui fianchi.

 

 

Tutto la richiamava a sé in un onda piena

che si abbatte sugli scogli , come un vento d’ostro

che si urla nella tempesta inabissando ogni cosa,

ma restò immobile nel suo fortilizio di soldato

poi esclamò senza tradire le sue emozioni

“Ho paura anche io di perdere il nido amorevole che hai

innalzato con pazienza e una dedizione in cui non trovo il velo

di una discordanza.

Ho timore per le gioie della nostra vita che abbiamo

ammassato e custodito negli anni della nostra

 giovinezza come covoni di speranza affastellati

nel granaio della nostra intimità.

Temo come temi tu di non tornare e di rimpiangere,

negli ultimi aneliti di vita, col viso  immerso nel fango,

il profumo di questa casa, di spogliarmi del suo calore

come un pesce smarrito in mari sconosciuti,

 di morire nella lenta agonia di una notte senza stelle

col sangue che gorgoglia in gola togliendo il respiro

e le viscere sparse sul campo di battaglia."

Scosse la testa annuendo ma senza un velo di rassegnazione

poi riprese a parlare come spinto da una forza che premeva


nel suo petto finalmente liberata da catene e legacci.

"L’ angoscia mi tormenta come un segugio la sua preda

mentre guardo nella visione dei miei sogni

 i miei soldati gemere come agnelli sacrificali ,

lacerati dal dolore  prima che qualche nemico

 li finisca dando loro una morte veloce”.


Trasse un respiro profondo nella ricerca vana di

 sciogliere il nodo che gli attanagliava la gola.

 Infine la guardò fissa negli occhi e una lacrima solitaria

celata tra le ciglia sporse oltre il dirupo dei suoi greppi,

cosi volse di nuovo lo sguardo sull’orizzonte che

ora era illuminato da un barbiglio di luce come se un

rogo stesse divampando sui suoi contorni e continuò

”Ma  temo di più l’immagine di un giorno ingrato in

cui, come demoni  vomitati dall’Ade, da quelle colline

baciate dal sole giunga un esercito straniero che

col fuoco e l’arroganza delle loro lunghe e arricciate

barbe prenda possesso

di tutto ciò che mi è più caro al mondo”


Disse queste ultime parole volgendo lo sguardo su di lei

e il bambino che le dormiva a fianco.

Poi un vuoto lo  colse e le parole si spensero

come il filo della fiamma di una candela

stretto tra le dita umide.

Trasse ancora un lungo respiro e la voce tornò ferma e

 profonda  così emise la sua volontà , spietata e crudele

come una profezia che si abbatte rovinosa nei giorni felici,

come uno strale che squarcia il cielo ancora tinto dal sole.

“Se non dovessi tornare sai cosa fare …”
 

“Prenderò nostro figlio e ti raggiungerò sui verdi

campi di Etrom”


rispose lei stizzita.

“Andrai via con lui Gorgo … e ti risposerai dandogli

 dei fratelli e delle sorelle” 


disse lui con un tono deciso che non ammetteva repliche.

Ma una voce gentile ruppe quel presagio di sventura,

quel limbo di disfacimento che andava disegnando

 i loro pensieri precipitandoli nella tristezza di un futuro

che sembrava ormai segnato .

“Padre …”

E la voce risuonò come il timbro tenero di una cascata

 di primavera.

 

 

Leonidas si era  appena rinserrato nella sua armatura

 e stava indossando il suo rosso mantello quando

la voce di suo figlio squarciò l’aria rarefatta della stanza,

giungendo al suo cuore come una cuspide che

ogni cosa trapassa.

Egli si  volse di scatto puntando il suo sorriso maliardo

negli occhi del suo erede .

“Plistarco … figliolo …”

furono le sole parole dolci che permise al suo cuore di 

sbocciare.

“Dormi che ancora il sole riposa oltre le cime dei monti."

“Padre portami con te …”

lo interruppe il giovane e quelle parole scossero

il silenzio come un terremoto sbriciola la pietra .

Leonidas sentì il suo orgoglio di spartano farsi spazio

nelle viscere, gonfiare i muscoli sotto l’onda

del suo sangue e il petto premere sul giaco ferrato

dell’armatura lucente così, inebriato e commosso,

gli si pose accanto e sedutosi sul ciglio del letto

gli accarezzò la fronte, mascherando l’ amorevole segno

di affetto, col  pretesto di sistemargli la treccia di crine

scomposta dalla notte troppo presto svanita.

“Mi servi qui Plistarco con tua madre a governare in

mia assenza”


 Si sforzò di apparire sereno e deciso ma sapeva bene

che non avrebbe più rivisto suo figlio ne Gorgo

e insieme alla sua terra e alla sua casa sarebbero

state le ultime cose che avrebbe ricordato prima di morire.

Si udirono  i passi dei suoi uomini sullo spiazzo

 fuori dalla porta, così egli si scosse e alzandosi disse

“È  tempo di andare”

raccolse l’elmo e la lancia mentre la spada

già gli cingeva il fianco e lo scudo gli proteggeva

la schiena .

 

 

Un ultimo sguardo alla sua casa e alla sua famiglia

 poi si girò di scatto,  aprì la porta e si avviò

verso i suoi uomini quando la regina lo chiamò forte

“Spartano”

egli si volse lentamente  lasciandosi raggiungere da Gorgo

e da suo figlio Plistarco.

“Si mia Signora”

“Torna col tuo scudo … o sopra di esso”

disse lei carezzando le parole con l’amore chiuso nel

petto e quelle parole per uno spartano furono i

baci e le dolcezze negategli fin dall’infanzia.

“Si mia Signora …”

Rispose fermando il suo cuore.

 

 

La guardò negli occhi e fu come un lungo

e struggente ultimo abbraccio, poi rivolse lo sguardo

 al ragazzo e il figlio guardò lui ammirato e commosso.

Si consegnarono una stretta ideale forgiando una catena

 invisibile tra di loro che nessuno avrebbe potuto disfare,

 i loro cuori si fusero, le loro menti si dissero tutto quello

che un padre e un figlio spartano potevano dirsi e

anelare in silenzio.

 Poco dopo con un sorriso appena accennato

si volse verso i suoi uomini e diresse oltre i suoi passi,

i suoi pensieri andarono via con lui mentre

il sole indorava i campi e riluceva sulle armature,

gli schinieri e gli elmi opliti di quei 300 guerrieri spartiati,

come fiamme vive, come lingue di un fuoco inestinguibile

sugli acroteri dorati del tempio vetusto di Apollo.

 



MARVELIUS

 
 
 

Selene e la Notte...

Post n°79 pubblicato il 15 Gennaio 2014 da Marvelius
 

 

La luna era alta nel cielo impettita nel suo abito di festa

mentre la notte plasmava d' inchiostro il bosco

offuscando ogni sporgenza.

Come una sposa tremula che attende il suo Signore

dal suo mantello ombroso così entrambi ingannavano

il tempo reso terso dal vento che spazzava via le nubi

e tormentava le fronde di una foresta silente.

Nella radura una luce smorzata illuminava il cuore

come un proscenio in attesa di un grande attore,

una maschera parlante o un satiro danzante

nel quieto mormorio di un soffio vespertino.

Lungo i bordi immersi nella penombra si muovevano

i rami degli arbusti,

ondeggiavano lievi le caule e le corolle dei fiori ancora schiuse ...

piccole belle di notte anelanti crogioli d'effusioni alla loro Signora

luminosa come baccanti estatiche o invasate ancelle al seguito

di musici zelanti nel corteo orfico del dionisiaco

Padrone della selva.

In lontananza lo sciabordio dell'acqua di un fiume lesto

e discreto sull'argine sfrontato, si perdeva tra l'aria rarefatta

del limbo rugoso delle sterpaglie umide e scomposte.

Il ruggito modesto della corrente sul suo greto ciottoloso

graffiava il silenzio ottenebrato dalla nebbia che lenta

planava e smorzava in alto senza molta convinzione come

volute di torba tra  graticci infausti.

Poi ecco rompersi la quiete come un tumulto di fanti

sull'erba superba dei campi fecondi

e il molesto sgusciare delle acque dal nido caldo delle rocce

obliate nelle fessure della terra.

Una cascata di lacrime d'argento scivolare nell'etere

fresco di rugiada e l' incestuosa libidine di calde stille monda 

dal ventre di un monte che fu caro alla Dea che fece del suo viso

l'icona di uno stampo da cui discese l'arte e la bellezza senza tempo.

 

 

Poi giunse Lei tra veli fruscianti di un bianco esangue,

il viso emaciato e gli occhi di un verde accecante ...

scalza come la nuda terra e nuda m'apparve sotto un velo

mosso da un alito ardente ... ariose  nudità avvolte

dal caldo frusciare dell'aria.

I seni rigogliosi come mantici sospinti dal respiro

ansante e nelle loro pieghe trattenute da canapi intrecciati

vi lessi desideri immersi in pozzi senza fine e udii una voce

tuonarle dentro come mille cascate urlanti nei sogni di una

brenna senza morso e briglie.

Lieve, nel solco appena tratto , un filo cupo

come il nero ciglio

che si mostra nel buio della notte  esso'apparve ...

come erbe primaticce sulla bianca stele d'una

chinea in estro.

E i fianchi come anse dolci e colline declinanti al

chiaror di luna m'appresse incontro come una Dea

che pesa punte di timor ne spine di vergogna alcuna.

Ed io ... ed io fremetti come l'onda su bianchi scogli ...

mi sciolsi come spuma sulla riva ingorda e stesi le

mie meraviglie come il poco burro si stende su un tocco

di pane duro .

Poi le andai incontro come un giunco che flette mosso dal vento,

le mani le posi innanzi come un cieco che avanza per luoghi

sconosciuti mentre nei mie occhi una luce vermiglia fu

come rogo e scintille di stelle nel cuore di un cosmo in fiamme.

Caddero ad ogni passo i veli delle sue vesti ...

 


uno dopo l'altro come pampine di bruma sul far della sera

e la sua bocca si schiuse ad ogni movenza sussurrando

note in una lingua ormai perduta .

Fu come se la carne mia s'armasse di giudizio e in quel pensiero

nuovo gemesse come sotto l'incudine di un piacere avito

e mille e non piu mille spilli si conficcassero nella tenera fibra,

nel molle reticolo di polpa e sangue, nei lacerti pulsanti

tra tendini asfitti , fin dentro l'intimo midollo delle ossa

per suggerne piacere e forza, alito di vita e d'anima

pensante, per volgere al suo trapasso senza colpa,

senza rimpianto nella resa feconda e inebriante

di una volontaria ...  eterna dannazione.


 
MARVELIUS

 
 
 

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