Creato da pierrde il 17/12/2005

Mondo Jazz

Il Jazz da Armstrong a Zorn. Notizie, recensioni, personaggi, immagini, suoni e video.

IL JAZZ SU RADIOTRE

 

martedì 9 ottobre 2018 alle 20.30

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JAZZ & WINE OF PEACE

Pipe Dream

violoncello, voce, Hank Roberts

pianoforte, Fender Rhodes, Giorgio Pacorig

trombone, Filippo Vignato

vibrafono, Pasquale Mirra

batteria, Zeno De Rossi

Registrato il 26 ottobre 2017 a Villa Attems, Lucinico (GO)



 

 

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I PODCAST DELLA RAI

Dall'immenso archivio di Radiotre č possibile scaricare i podcast di alcune trasmissioni particolarmente interessanti per gli appassionati di musica nero-americana. On line le puntate del Dottor Djembč di David Riondino e Stefano Bollani. Da poco č possibile anche scaricare le puntate di Battiti, la trasmissione notturna dedicata al jazz , alle musiche nere e a quelle colte. Il tutto cliccando  qui
 

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Messaggi di Agosto 2018

BRAXTON PLAYS FOR LOVERS?

Post n°4062 pubblicato il 31 Agosto 2018 da pierrde
 

Nel deserto ferragostano succedono cose strane. Nuovamente a digiuno di musica live, mi aggiravo famelico nelle labirintiche stanze della Grande Discoteca Svedese, quando mi sono imbattuto in questo 'strano oggetto' :

https://open.spotify.com/album/1wchKjajLlm7U5tXLSIIUQ?si=XMh-pmW3SMm1nh9kwgLjmg

D'istinto mi è venuto da sorridere, pensando che di questo passo forse ci possiamo attendere anche un "Braxton plays for Lovers", o quantomeno un suo "Greatest Hits". Facezie a parte, la compilation non è una boutade, ma una raccolta pubblicata da una di quelle etichette inglesi specializzate in ristampe di materiale d'epoca, da tempo inedito. Dobbiamo presumere che l'edizione abbia il pieno avallo del musicista, che del resto ha così messo nuovamente in circolo una selezione delle sue registrazioni Arista della metà degli anni '70: operazione meritoria, visto che si tratta di musica da tempo indisponibile in formato fisico e cui Braxton deve una prima affermazione sulla scena internazionale (en passant, segnalo ai fan di Anthony che gli ineffabili svedesi si sono accaparrati anche l'intera serie degli album Arista completi...).

Qualche riflessione viene spontanea: ormai viene per tutti il momento della 'compilation', persino per una figura appartata ed ammantata di reputazione esoterica come Braxton. Questo è uno dei pochi frutti positivi per noi ascoltatori della corsa all'occupazione di ogni e qualsiasi nicchia di mercato disponibile da tempo in corso tra i giganti della musica liquida.

E dunque cogliamolo, questo strano frutto: con la facilità ed il disimpegno consentito dalla formula dello streaming, profittiamone per riascoltare con l'orecchio di oggi quegli album degli anni '70 che contribuirono alla inossidabile fama di musicista ostico e difficilmente avvicinabile che ancora oggi Braxton si porta dietro presso vaste fasce del pubblico della musica afroamericana.

Non essendo mai stato un suo aficionado, anch'io ho tentato questo riascolto retrospettivo: devo dire che i risultati sono stati piuttosto interessanti e coinvolgenti. Innanzitutto, va detto che gli oltre quarant'anni trascorsi hanno smussato molte delle spigolosità avvertite allora nella musica del chicagoano: direi che parecchie sono nel frattempo quasi inavvertitamente filtrate nel grande fiume del modern mainstream, diventando moneta corrente. Altra cosa che mi ha colpito e che andrebbe rispettosamente fatta rimarcare ai più tenaci detrattori è l'ostinato e metodico confronto costantemente affrontato da Braxton con il grande songbook americano, ciclicamente sfogliato e riletto con serietà ed impegno da un musicista i cui notevoli atout di compositore sono del tutto fuori discussione (al contrario di quelli di altri suoi più celebrati colleghi, che continuano ad infliggerci dimenticabilissimi 'originals'....). Infine, mentre scorrevano le mobilissime e zigzaganti linee di "Creative Orchestra Music 1976" mi è venuto da riflettere sul fatto che Braxton non ha mai cessato di pensare e lavorare in dimensione orchestrale (altro campo a lungo disertato da molti), e che spesso in questo ambito è capace dei suoi risultati più singolari ed affascinanti, tutt'altro che privi di sostanziale comunicativa anche per un ascoltatore munito di media cultura jazzistica; risultati tra l'altro ancor oggi più freschi e stimolanti di tanto algido, monocromo minimalismo che ci giunge dal Nord Europa, tanto per dirlo chiaro.

Quindi concediamo una chance anche a "The Essential Anthony Braxton": quantomeno ci risparmieremo gli sbadigli di tanta offerta festivaliera di queste settimane.

Franco Riccardi

 

 

 
 
 

LA MUSICA COME UN IDRANTE

Post n°4061 pubblicato il 24 Agosto 2018 da pierrde

Berlino Dieci anni fa ci aveva provato Londra: musica classica nelle stazioni della metropolitana, the Tube, per ridurre i comportamenti antisociali.

Niente di meglio delle armonie di Bach, Händel e Mozart per ridurre gli scippi, le aggressioni e il vandalismo sui treni e nei tunnel piastrellati da una linea all'altra. La capitale inglese aveva mutuato l'esperimento della canadese Montreal ma l'idea che la musica calmi gli uomini come le fiere parte da lontano e se ne trova già traccia nei miti di Orfeo e di Arione. 

Adesso Deutsche Bahn (Db) prova a rovesciare il paradigma: la società ferroviaria tedesca vuole provare ad atterrire i gruppetti di tossicodipendenti e spacciatori che traccheggiano presso la stazione della S-Bahn (la metropolitana di superfice) di Hermannstrasse, nel popolare quartiere di Neukölln, diffondendo musica atonale con gli altoparlanti. La musica atonale rimette in discussione le regole della musica occidentale, quella classica come quella popolare, alle quali siamo così abituati. 

Fonte: http://www.ilgiornale.it/news/politica/germania-caccia-i-balordi-dalle-stazioni-musica-atonale-1566722.html?mobile_detect=false 

Decisione assurda per principio e che ben difficilmente approderà a qualche risultato tangibile, ma, nel remoto caso funzionasse, si potrebbe provare a diffondere solo musica di Cecil Taylor in parlamento....

 
 
 

Addio a Giorgio Lombardi, il jazz a Genova

Post n°4060 pubblicato il 24 Agosto 2018 da pierrde
 

Fra le tante tristi notizie che in questi giorni arrivano da Genova, ce n'è anche una che riguarda il mondo del jazz. Nei giorni scorsi è mancato, ad un mese dagli 81 anni, Giorgio Lombardi, fondatore del Louisiana Jazz Club, istituzione genovese del jazz dal 1964, esperto di jazz tradizionale, critico musicale ed autore di numerose pubblicazioni, libri, saggi, articoli e dvd dedicati ad artisti della musica afroamericana.

Ma soprattutto, instancabile promotore di iniziative, concerti, conferenze e presentazioni di musicisti, sempre sorretto dalla ferrea volontà di ottenere ed ampliare lo spazio per la "sua" musica.  I ricordi personali lo collocano sul palco del Louisiana, nella seconda sede di piazza Matteotti o in quella di corso Aurelio Saffi, oppure sui palchi dei festival estivi di riviera come quello di Sori, intento a presentare l'artista ospite o il gruppo da lui promosso, individuando consonanze ed affinità fra musicisti che non avevano collaborato in precedenza.

Oppure nelle numerose presentazioni delle proprie opere, fra le quali spiccano i due volumi di "Hot Jazz"  editi dall'editore Daniela Piazza, e considerati la più completa ed autorevole panoramica sul jazz tradizionale, o da ultimo una completa retrospettiva sull'opera di Eddie Condon. Lo ricordo anche, un paio di anni fa protagonista di una veemente discussione con Stefano Zenni sul tema del jazz e della razza, sostenere con autorevolezza la propria tesi a favore dei doni naturali delle cantanti afroamericane.

Lombardi ricopriva da alcuni anni l'incarico di Direttore Artistico del Museo del jazz l'istituzione cittadina nata per diffondere storia e valori del jazz, custodendo la grande collezione di oltre 4500 dischi donata dal Presidente della Cassa di Risparmio di Genova ed Imperia Gianni Dagnino, grande appassionato del genere. In questa veste aveva consolidato cicii di incontri con critici e specialisti di vari aspetti del jazz e prodotto numerose raccolte di video dedicate a famosi artisti come Count Basie o Billie Holiday o alle Grandi orchestre jazz.

Sarà difficile, per il jazz e per Genova, trovare un successore a Giorgio Lombardi.

Andrea Baroni

 

 

 
 
 

CALDE NOTTI A FANO 2. VIJAY IYER SEXTET, LA METAMORFOSI ‘LIVE’

Vijay Iyer, piano e fender rhodes; Steve Lehman, alto sax; Mark Shim, sax tenore; Graham Haynes, tromba, flicorno, cornetta con elettroniche; Stephan Crump, basso; Jimmy Dutton, batteria

22 luglio 2018, Rocca Malatestiana, Fano Jazz by the Sea

Alla sua seconda giornata Fano Jazz propone un altro appuntamento molto atteso, quello con il pluripremiato sestetto di Iyer, in formazione quasi originale. Per una sorta di scaramanzia dell'ascoltatore, dopo l'exploit del trio di Meldhau della sera precedente, mi ero predisposto solo ad una impeccabile riproposizione live dello splendido "Far From Over". Ma per fortuna queste oscure regolarità statistiche sono state sovvertite dai fatti: ed ecco un'altra serata al calor bianco, se esistesse un premio per la migliore performance live il sestetto l'avrebbe aggiunto a mani basse al suo già lungo palmares.

Sgombriamo subito il campo da un interrogativo: il giovane drummer Dutton non ha affatto sfigurato nell'ingrato compito di sostituire un Tishawn Sorey, musicista a tutto tondo che ormai percorre con decisione la strada della composizione e della conduction (a proposito, lo sentiremo prossimamente in queste vesti a Sant'Anna Arresi, altro cartellone smagliante, ne parleremo separatamente). Del resto Iyer deve esser allenato a ritarare la musica del sestetto in dipendenza di variazioni di un organico che comprende tutti musicisti di spiccata personalità e carriera individuale, un ensemble che è un gioco di equilibrio mantenere compatto, speriamo che l'acrobazia riesca ancora a lungo (del resto Iyer ha spiegato al pubblico che la band ha quasi sette anni di vita sulle spalle). Dal canto mio, ho avuto l'impressione che a Fano il leader avesse fatto lievemente slittare il baricentro del gruppo sul basso di Crump, che ha spiccato per tutto il set per una potente onnipresenza ed evidenza, un vero bassista da big band per assertività.

Eh già, perché in realtà questo sestetto anche nella perigliosa dimensione del live ha la complessità interna di un'orchestra. La sua gemma è la front-line dei fiati: Lehman, Shim ed Haynes oscillano tra le strettissime e cronometriche tessiture polifoniche dell'insieme e la dialettica di marcati contrasti interni nei momenti solistici di ciascuno. Mark Shim (musicista da riascoltare con attenzione nelle sue prove da leader nei Blue Note dei primi anni 2000) sembra nato per dialogare con il suo suono scuro ed il fraseggio conciso e netto con un Lehman che ha lasciato di stucco per l'energia incontenibile e travolgente dei suoi assoli, lunghissime e vertiginose linee improvvisate in cui mai è venuto meno l'assoluto controllo sul suo suo affilato, chiaro tono, né l'impeccabilità di un fraseggio privo di sbavature e ridondanze. Visto il precedente di Meldhau, c'è da pensare che la raccolta atmosfera della Rocca Malatestiana abbia il potere di far uscire allo scoperto il Mr.Hide che riposa in molti jazzmen. La brillantissima prestazione a Fano mi conferma nell'impressione che Lehman sia una sorta di 'eminenza grigia' della formazione, che nella dimensione live gli dona un impatto energetico e travolgente, del tutto insospettabile avendo presente la levigata e sofisticata confezione della registrazione in studio, il tutto senza perdere alcunchè in termini di pulizia e precisione. Che altro dire di Lehman, se non che nel sestetto sembra trovare la sua dimensione ideale di espressione? Ma faremmo torto a Graham Haynes, se non ricordassimo la sua grande versatilità ai suoi tre strumenti, creativamente manipolati alle elettroniche con un risultato di estensione dei loro timbri e dinamiche: particolarmente riuscita l'avventurosa e raffinata rielaborazione della cornetta, una scommessa vinta contro i mille imprevisti e rischi del palcoscenico.

La ricchezza del materiale tematico originale che ha alimentato questo infuocato concerto conferma che il gruppo è tuttora in ulteriore evoluzione; fortunatamente i bei temi che facevano in buona parte il fascino di "Far from Over" continuano a far capolino qui e là, ma soprattutto in funzione di trampolini di lancio verso nuove elaborazioni, che quasi sempre partono da momenti di sintesi e proposta del leader Iyer.

Questi tende a mettere tra parentesi il suo ruolo di solista al piano, è evidente che tiene molto a quello di caporchestra. Le sue intervallate sortite solistiche, quasi dei preludi, ci riconfermano un pianismo smagliante, potente, energico, definito, armonicamente massiccio; nelle rare occasioni in cui ha messo le mani su di un vissuto fender rhodes le sottigliezze timbriche che ne ha cavato ci hanno fatto desiderare momenti solistici più ampii ed articolati, ma l'esplosivo, rovente impatto live del sestetto ha il suo prezzo, un deus ex machina dietro le quinte è necessario.

Di fronte ad una performance di questo livello e vitalità, viene spontaneo desiderare un disco 'live' del sestetto: purtroppo temo che proprio non lo vedremo, diciamo che non rientra nelle corde della ECM di oggi (salvo che prima o poi i sei non si presentino a Monaco con un nastro già bello che confezionato sottobraccio, come già hanno fatto DeJohnnette & c. con 'Made in Chicago' e Formanek con l'Ensemble Kolossus... ).

Scontato il grande coinvogimento del pubblico (i 700 posti della Rocca erano pressochè al completo), a dimostrazione che nel contesto giusto le proposte di qualità si fanno sempre strada; viene strappato un corposo bis, che significativamente però viene offerto solo da Iyer in trio (ad ulteriore conferma della prestazione sopra le righe della front line dei fiati....). Un'altra serata da archiviare nell'album dei migliori ricordi, con Iyer che, congedandosi dall'Europa dopo una lunga tournee', allusivamente ci ricorda che "Far from over" si legge "ben lungi dall'aver concluso": nessuno ha dubitato che non parlasse solo di musica.......

Franco Riccardi

 

 
 
 

CREATIVI E VIVENTI

Post n°4057 pubblicato il 15 Agosto 2018 da pierrde
 

Robert Wyatt - cornet
David Gilmour - guitar, vocals
Chris Laurence - double bass
Martin France - drums
John Parricelli - guitar
Rado Klose - guitar
Jools Holland - piano
Colin Stetson - saxophone

"La gran parte dei musicisti pop si rovina a forza di ripetere i propri cavalli di battaglia per tutta la vita; rifanno sempre sempre sempre la stessa cosa. Nei concerti ci sono tantissime pressioni in tal senso. E' molto difficile non cedere e lo capisco.

Alla fine però se ne esce distrutti. Invece Robert Wyatt è un esempio per tutti i musicisti di quello che dovrebbero fare ma non ha mai rinunciato alla parte creativa della produzione di nuova musica; non ha mai smesso di essere inventivo.

Robert occupa una posizione molto particolare. Tra i musicisti della sua generazione lo colloco nella stessa categoria dei Nick Drake, Syd Barrett e Peter Green, con la differenza che lui è vivo."

Jerry Dammers

Volendo trasferire il concetto base enunciato da Dammers al campo jazzistico i nomi da ricordare fortunatamente non sono pochi, parlo naturalmente dei viventi e sopra i settant'anni: Henry Threadgill, Herbie Hancock, Wayne Shorter, William Parker, Roscoe Mitchell, Wadada Leo Smith, Jack De Johnette, Dave Holland, Randy Weston, Ahmad Jamal, Kenny Barron, Anthony Braxton, Sonny Rollins, Keith Jarrett, Charles Lloyd, Chick Corea, John Surman, Carla Bley, Ron Carter, Henry Grimes, Eddie Gomez, Steve Swallow, Gary Peacock. Più quelli che al momento non mi vengono in mente....

 
 
 

MY RESPECT

Post n°4056 pubblicato il 14 Agosto 2018 da pierrde

 

"Abbiamo tutti bisogno e chiediamo rispetto, uomo o donna, bianco o nero. E' il nostro diritto umano fondamentale." 
ARETHA FRANKLIN

 

 

 
 
 

QUATTRO ASCOLTI PER FERRAGOSTO

Post n°4055 pubblicato il 13 Agosto 2018 da pierrde

Pianist Aruán Ortiz, flutist Nicole Mitchell, cellist Tomeka Reid, vocalist Fay Victor

JOYCE JONES photo 

Mentre dagli States rimbalza la brutta notizia delle precarie condizioni di salute di Aretha Franklin, il clima vacanziero invita ad ascolti di novità, magari di un certo spessore, cosa non sempre facile da realizzare. Ho "rubato" e liberamente tradotto dal sito WBGO per proporvi questi quattro brani tratti da album di recente o recentissima pubblicazione.

Nicole Mitchell, "No One Can Stop Us"


Nuove musiche e nuove idee sembrano sgorgare instancabilmente da Nicole Mitchell, flautista e compositrice dalla visione elastica e dall''esecuzione meticolosa. Si è esibita allo  Stone nei giorni scorsi in una serie di situazioni ,dal duo al quartetto, al gruppo di sette elementi presenti nella sua  Xenogenesis Suite.

La scorsa primavera Mitchell ha presentato un'altra suite, Maroon Cloud , come parte della Stone Commissioning Series di John Zorn alla National Sawdust. Il titolo si riferisce ai maroons, schiavi ribelli che si emanciparono e fondarono le proprie enclave nel 16 ° secolo. Ma l'attenzione di Nicole Mitchell non è concentrata solo sulla vicenda storica quanto sul potere dell'immaginazione radicale della musica.

 I suoi partner sono la violoncellista Tomeka Reid, il pianista Aruán Ortiz e il cantante Fay Victor. Lavorano in una situazione cameristica ma pressante, spingendo la musica verso un piano più alto. Su "No One Can Stop Us", che potete ascoltare nel link sottostante, la frase del titolo assume proprietà gioiose: è una sfida, un proclama, ma anche una celebrazione. 

 https://fperecs.bandcamp.com/album/maroon-cloud


Steve Coleman and Five Elements, "Live at the Village Vanguard vol. 1"


Il sassofonista e compositore Steve Coleman ha una lunga storia al Village Vanguard, dove ha suonato regolarmente all'inizio della sua carriera a New York nella Thad Jones / Mel Lewis Orchestra. Ma è stato necessario un po 'di tempo perché Coleman facesse il suo debutto come leader nel club, nel 2015. Da quel momento il suo è diventato un appuntamento fisso, ed è stata solo una questione di tempo prima dell'arrivo di un album come  Live at the Village Vanguard, vol. 1: The Embedded Sets , che Pi Recordings ha pubblicato venerdi 10 agosto. 

Se questa descrizione vi suona di routine, non lasciatevi ingannare: non è  una passeggiata rilassante per Coleman e il suo gruppo , i Five Elements, che viceversa si sono fatti carico di una notevole quantità di nuovi brani nel concerto. La sezione ritmica è composta dal batterista Sean Rickman e dal bassista Anthony Tidd; la prima linea include il trombettista Jonathan Finlayson. E nel bel mezzo di tutto (in quello che pare essere il suo ultimo concerto come membro della band) c'è il chitarrista Miles Okazaki. Ascoltate la scintilla creativa nel motivo chiamato "Nfr" ( sul sito WBGO), che incorpora un groove funk di impostazione M-Base e una linea di matrice boppish, con assoli fulminanti di Coleman, Finlayson e Okazaki. Pregevole anche l'elaborazione del senso del limite che porta la melodia ad una brusca, decisiva fermata. Io invece propongo il brano Horda che da inizio al doppio album: 

https://stevecoleman.bandcamp.com/album/live-at-the-village-vanguard-vol-1-the-embedded-sets

 


Five Elements: Miles Okazaki, Jonathan Finlayson, Steve Coleman, Anthony Tidd, Sean Rickman 

Houston Person e Ron Carter, "Remember Love"


Il sassofonista tenore Houston Person e il bassista Ron Carter hanno un lungo e proficuo percorso alle loro spalle, e come duo hanno già dimostrato la forza e l'intelligenza creativa della loro chimica in un album del 2016 a loro nome. Il loro secondo compact,  Remember Love , è stato recentemente pubblicato su HighNote Records, con una preferenza dichiarata per gli standard  di stampo più romantico.

"Blues for DP" di Carter è una anomalia in un certo senso; non è una canzone d'amore  quanto una canzone di tributo. Le iniziali del titolo sono per il pianista e compositore-arrangiatore Duke Pearson, e la melodia è apparsa per la prima volta su un album di Grover Washington, Jr. In questa versione, Person corteggia e gioca sottilmente con la melodia, oltre la linea di basso di Carter. Il loro interplay ingannevolmente casuale è soffuso di sentimento blues, in una modalità che suona originale e inattesa.

https://soundcloud.com/highnote-savant-records/blues-for-dp-from-houston-person-ron-carter-remember-love


Dave Douglas, "Sharing a Small Planet"


All'inizio di quest'anno Dave Douglas ha iniziato a pubblicare una serie di brani da un album in edizione speciale chiamato  UPLIFT: Twelve Pieces for Positive Action .  Il progetto, disponibile solo on line in abbonamento tramite Greenleaf Music, pone il trombettista in ottima compagnia: il sassofonista Joe Lovano, i chitarristi Mary Halvorson e Julian Lage, il bassista Bill Laswell e il batterista e percussionista Ian Chang. La scorsa settimana, Douglas e la sua etichetta hanno pubblicato una versione alternativa di "Sharing a Small Planet". 

Una marcata linea della tromba sopra un beat martellante è una risposta a una domanda che pochi hanno formulato: come sarebbe se Dave Douglas decidesse di creare una melodia di surf-punk? Lage e Halvorson lavorano in un tandem intricato e nodoso, e Laswell infarcisce il suono di una profonda gravità . Strada facendo, Lovano imbastisce un assolo elegante e coinciso, e Douglas alimenta il fuoco da par suo. Il titolo del brano richiama l'attenzione  sulla conservazione delle nostre risorse naturali, e non c'è dubbio che la sua urgenza sia un riflesso dell'attività degli attivisti di Peace Corps. Sul suo sito web, Douglas nota che questo mese lui e Greenleaf sosterranno la causa di Peace Corps. "Abbiamo bisogno di educare noi stessi in modo che possiamo convivere su questo pianeta", scrive. "Nessuna nazione può 'fare da sola.'"

https://davedouglas.bandcamp.com/album/uplift-twelve-pieces-for-positive-action-in-2018-preview 

 
 
 

RISATE AMARE

Post n°4054 pubblicato il 11 Agosto 2018 da pierrde

Cosa c'è di più bello che salutare le prime luci del sole che sorge con le belle note di Giovanni Allevi? Probabilmente nulla.

Fonte: https://tg24.sky.it/spettacolo/musica/2018/08/10/giovanni-allevi-concerto-otranto-luce-oriente-in-jazz.html 

Riporto, come commento, quello che scrive Alberto Arienti Orsenigo su Facebook a proposito del mio post Dieci (e più) protagonisti del futuro:

Gli italiani hanno scelto un governo indegno, ascoltano musica pop brutta, vedono film mediocri e non leggono. Perchè dovrebbero amare il buon jazz ?

 Da parte mia, complimenti agli organizzatori di Luce d'oriente in jazz. Dei veri esperti...

 
 
 

IN ARRIVO IL NUOVO ALBUM DI COLEMAN

Post n°4053 pubblicato il 11 Agosto 2018 da pierrde
 

La piccola PI Recordings, etichetta tra le più coerenti e caratterizzate dell'attuale scena discografica (e pensare che sono solo in due...) annunzia con giustificato orgoglio l'uscita del primo volume di un 'live' dei Steve Coleman's Five Elements al Village Vanguard di New York.

Coleman aveva calcato il palco della mitica cantina newyorkese agli esordi della sua carriera a cavallo degli anni '70/'80, prima con la Thad Jones/Mel Lewis Orchestra, e poi con la grande Abbey Lincoln (il buon giorno si vede sin dal mattino...). Nonostante la luminosa carriera seguita poi, e dipanatasi in luoghi ben lontani dal Vanguard, Coleman si è sempre fatto un punto d'onore di ritornarvi da leader, cosa che gli è riuscita nel 2015, rinnovando poi l'appuntamento negli anni successivi: forse sente ancora risuonare nel locale l'eco delle registrazioni di Coltrane e Rollins che costituiscono caposaldi della sua formazione, sentimento dichiaratamente condiviso anche dai suoi compagni Jonathan Finlayson alla tromba, Miles Oyazaki alla chitarra, Anthony Tidd al basso e Sean Rickman alla batteria.

"Spontaneo" ed "estemporaneo" non sono esattamente i primi aggettivi che vengono in mente pensando al coerente e caratterizzato corpus della musica di Coleman e dei suoi Elements, soprattutto quando si pensa agli album degli ultimi anni. Invece PI Recording spergiura che sono proprio le due chiavi migliori per descrivere le registrazioni dei due sets raccolte nel doppio album ora in uscita (è chiaro che si attende anche il Volume 2...). Messe da parte le sofisticate e complesse orchestrazioni degli ultimi lavori, i Five Elements nella formazione attuale hanno preso una lunghissima rincorsa di quasi quattro anni, dipanatasi in numerose 'residencies' in grandi città come Chicago, Detroit, Los Angeles e New York, in cui la coesione telepatica del gruppo è stata portata sino all'estremo in innumerevoli sessioni: di giorno concerti in scuole urbane ed strutture comunitarie per pubblici tendenzialmente svantaggiati (chapeau, Mr. Coleman...) e la sera in concerti nel circuito tradizionale.

"Coleman believes strongly that only constant and consistent performance as a unit will enable the music to fully blossom" : una lezioncina da meditare a tutti i livelli alle nostre latitudini.... e non parlo solo e soprattutto dei musicisti.

Questo serrato tour de force preparatorio da parte di un leader e di una formazione di indiscussa reputazione è stato possibile essenzialmente grazie al fatto che Coleman l'ha largamente finanziato in proprio grazie alla sua organizzazione no-profit (chapeau due volte!!)

Nonostante questo serrato rodaggio, il leader è riuscito a sorprendere i suoi compagni portando nuovo materiale durante la stessa settimana delle registrazioni, ed improvvisando sul palco la melodia di alcune nuove composizioni (come la "Embedded#1"). Qualche brivido anche per la band di scena su un palco così prestigioso, dunque, ma il chitarrista Oyazaki osserva che il risultato è stato "un suono che va al cuore dell'improvvisazione, non compiacente, non sedimentato in uno schema, un suono in lotta, di ricerca".

Naturalmente non si può chiedere a Coleman di non esser l'alchimista che è, quindi vedremo tentativi di trasporre la logica della scrittura geroglifica egizia nella notazione dei suoi brani, catene melodiche fondate su anelli di due note 'incistate' nei temi ed altre invenzioni: per chi ammira lo Steve fine strumentista non mancheranno comunque ghiotte occasioni (in passato abbastanza rare ed in certa misura limitate).

Attendiamo con impazienza il disco, rammentiamo invece ai tecnofili che per deliberata (e coraggiosa) scelta PI Recordings si affida solo a Bandcamp per il download digitale.

 

Franco Riccardi

 

 

 
 
 

DIECI ( E PIU') PROTAGONISTI DEL FUTURO

Post n°4052 pubblicato il 10 Agosto 2018 da pierrde

Nella foto uno degli "esclusi" dall'elenco

Sempre più spesso è possibile leggere, sia sul web che sulla stampa generalista, articoli che hanno a che fare con la nostra musica e con i nostri musicisti.

Questa volta è il caso della testata GQ Italia, che, per la penna di Maurizio Di Fazio, presenta "Dieci protagonisti del jazz italiano del futuro", e cosi' introduce il pezzo:

Paolo Fresu, Stefano Bollani, Enrico Rava, Fabrizio Bosso, Franco D'Andrea, Enrico Pieranunzi, Roberto Gatto, Stefano Di Battista, Danilo Rea, e gli altri. Sono ancora loro gli esponenti di punta del jazz italiano. I festival estivi, italiani e non, se li contendono.Ma chi ne raccoglierà il testimone artistico?

Parte da qui una disamina di dieci nomi compresi in una fascia d'età che comunque rimane sotto i quarant'anni, con una esclusione eccellente, quella di Francesco Cafiso, perchè ormai universalmente conosciuto.Che pensare di articoli cosi' costruiti ? Spesso sono raffazzonati ed evidenziano la poca confidenza dell'autore con la materia. Altre volte invece, più o meno volontariamente, possono offrire spunti per qualche riflessione.

E' questo il caso, grazie alle parole di Piero Delle Monache, uno dei dieci new talent che il giornalista nomina:

«Lo stato di salute del jazz italiano è molto buono! Sia per la qualità, altissima, raggiunta, sia per il suo sguardo internazionale, sia per la sua presenza, ormai consolidata, nei conservatori e finalmente anche per l'organizzazione istituzionale dei musicisti. Penso al Midj, al dialogo con la Siae, al più recente protocollo d'intesa firmato da Paolo Fresu e dall'ex ministro Franceschini e alla nascita della Federazione nazionale del jazz. Nello stesso tempo però, purtroppo, i festival storici soffrono del mancato rinnovamento del pubblico (sempre più anziano) e gli spazi per gli artisti più giovani e ancora poco noti non sono molti. Morale della favola: cosa ce ne facciamo di accordi siglati e centinaia di nuovi diplomati in Jazz, se poi le opportunità di lavoro sono poche e difficili da cogliere? Dobbiamo ripensare al sistema musica nella sua interezza, la strada è ancora lunga».

Delle Monache centra il problema: se i direttori artistici dei festival italiani sono obsoleti e vetusti nelle loro scelte, ben difficilmente richiameranno un pubblico più giovane, tantomeno daranno spazio ai nomi emergenti (a proposito, tra i dieci nominati ne mancano molti che sono a pieno titolo molto più interessanti di alcuni di quelli proposti, ma tant'è, un elenco minimo è sempre poco rappresentativo di una realtà).

Rimane poi da chiedersi come mai, se la salute è molto buona, un numero considerevole di musicisti italiani cerca sempre più frequentemente fortuna all'estero. Forse perchè nei festival vengono chiamati sempre gli stessi nomi ? Pigrizia unita a esigenze di botteghino, un binomio micidiale che poi inevitabilmente ricade sul pubblico, sempre più abituato ad "andare sul sicuro" e poco propenso a scoprire quanto di buono e di diverso c'è tra le nuove leve.

E mentre la nascita della Federazione nazionale del jazz è sicuramente fatto positivo, c'è ancora da chiedersi (come fa lo stesso Delle Monache) che valore può avere (e quanta enfasi venne data alla notizia!) quel protocollo di intesa Franceschini/Fresu ora che il governo pentafelpato ha come massimo ideale musicale il festival della musica celtica ed il PD sembra avere le stesse probabilità di estinzione della foca monaca.

Non rimane che condividere e sottolineare l'ultima frase del sassofonista pescarese.

Link: https://www.gqitalia.it/show/musica/2018/08/08/top-10-del-jazz-italiano-del-futuro/?refresh_ce= 

 
 
 

TESSITORI DI SOGNI

Post n°4051 pubblicato il 07 Agosto 2018 da pierrde
 

La serata finale del decimo Ambria Jazz ha visto all'opera un trio speciale in una location notevole, lo scalo ferroviario di Tirano con le motrici d'epoca, ed è stato salutato da un largo successo di pubblico.

La musica dal canto suo ha mantenuto tutte le promesse legate ai nomi del trio Dream Weavers, composto dal chitarrista franco vietnamita Nguyen Le, dal percussionista francese di origini martinicane Mino Cinelu e dal soprano di Gavino Murgia, artista in residence e vero mattatore del festival.

Tre provenienze estremamente diverse, con radici quanto mai lontane tra di loro, potevano dar vita ad una esibizione di talento un pò arida e fine a se stessa, oppure, come avvenuto domenica sera, integrarsi e sollecitarsi reciprocamente in una continua alchimia di suoni,  compreso il canto creolo ed il tenores sardo, il tutto innervato da un corposo linguaggio jazzistico.

L'inizio è folgorante: un cielo stellato creato dalle elettroniche sul quale Le dispensa poche note sgocciolanti e Murgia fa volare il soprano su paesaggi che non possono non richiamare le migliori pagine di John Surman. Una sonorità controllata, potente evocatrice di emozioni, un linguaggio estremamente comunicativo e contemporaneo pur attingendo a sonorità ancestrali.

Tutte le composizioni, scritte dai tre musicisti, rimangono su un piano squisitamente jazzistico, dalla forte componente ritmica sollecitata a turno dalla chitarra elettrica di Le, esuberante ma controllata, e dalle percussioni minimaliste di Cinelu: un piatto, il cajon, uno strumento di origine peruviana divenuto protagonista indiscusso nella musica flamenca contemporanea grazie a Paco De Lucia, ed un pad elettronico, oltre naturalmente a campanellini e sonagli di varia foggia e dimensione.

Un set potente e controllato, un pugno di composizioni ispirate dall'impronta personale, assoli coinvolgenti e un utilizzo delle elettroniche misurato e comunicativo. Un bel gruppo, la cui evidente gioia di suonare insieme ha fatto non solo da collante ma si è propagata al pubblico, rendendo la serata indimenticabile.

Non rimane che attendere con ansia l'uscita dell'album annunciato per l'etichetta S'Ard Music. Mentre me ne sto andando il trio, richiamato a gran voce sul palco, inizia a suonare Confians, il meraviglioso brano in lingua creola dal testo bellissimo (  http://www.marok.org/Elio/Discog/confians.htm ) che Cinelu registrò con i Weather Report sull'album Sportin Life.

Una magnifica chiusura del concerto e del festival. 

 
 
 

STORIA DEL JAZZ EUROPEO

Post n°4050 pubblicato il 07 Agosto 2018 da pierrde
 

Very excited that this comprehensive & authoritative new volume is in the final stage of production & will be set up at the printer very shortly. It will publish next month - pre-order here: https://bit.ly/2H440ug  @isdistribution @europejazznet @europe_creative @AlynShipton


Per ora in lingua inglese, ma essendo il testo a cura di Francesco Martinelli non rimane che aspettare la traduzione in italiano. 

 
 
 

BUD POWELL

Post n°4049 pubblicato il 07 Agosto 2018 da pierrde
 

Mercoledi' 8 agosto, Radio 3, Wikiradio, h 14. Stefano Zenni racconta Bud Powell 

 
 
 

CALDE NOTTI A FANO: BRAD MELDHAU TRIO, L’ADRENALINA

Post n°4048 pubblicato il 06 Agosto 2018 da pierrde
 

Brad Meldhau, piano; Larry Grenadier, basso; Jeff Ballard, batteria.

Rocca Malatestiana di Fano, 21 luglio 2018, Fano Jazz by the Sea

Sono sempre stato convinto che Meldhau sia in qualche modo sottorappresentato discograficamente e tutte le precedenti ripetute occasioni di ascolto live mi hanno confermato in questa opinione. In passato mi aveva colpito soprattutto la maggiore scioltezza e lo slancio del leader, ma questa volta la sorpresa è stata ben maggiore.

Sin dai primi momenti del concerto è stata evidente una marcata e profonda connotazione blues del pianismo di Meldhau: un blues raffinato, ma comunque di radici profondissime e sentite. In tutto il ricchissimo set hanno continuato a balenare evocazioni sottili ma inconfondibili: hanno risuonato echi stride, Bud Powell e Parker hanno fatto baluginanti, istantanee apparizioni. Meldhau ha nella testa e nelle mani tutta l'anima più vitale ed inquieta della musica afroamericana. Altra novità spiazzante è stata costituita dal marcato carattere percussivo del pianismo di Meldhau, che fatalmente portava con sé un fraseggio molto più nervoso e quasi puntillistico, e comunque del tutto alieno da una certa maniera elegiaca e crepuscolare che molti gli imputano come un cliché ormai risaputo. Un vago termine di paragone per l'exploit offerto a Fano dal pianista americano può esser costituito dall' "Airegin" incluso nel suo "Where do you start" (2012). Solo la collaudatissima intesa con Larry Grenadier al basso e Jeff Ballard alla batteria ha consentito di canalizzare con risultato d'insieme strutturalmente solido ed ineccepibile l'inarrestabile, adrenalinico flusso di energia che scaturiva dal leader: ma sia il batterista con sequenze melodiche piene di colori, che il bassista con interventi di autorevole eloquenza si sono conquistati spazi personali di rilievo. Una menzione particolare è però dovuta a Grenadier, che ha aperto con prestazione superlativa un festival che ha visto poi sfilare un'intera serie di bassisti di gran classe ed impegnati in ruoli di grande impegno (con una sola eccezione...)

L'emozionante, adrenalinico set del trio, oltre a donare a Fano Jazz una ouverture difficilmente dimenticabile anche per chi come me aveva ampia confidenza con la sua musica (dono più che meritato, come emergerà dalle cronache successive), avrebbe potuto costituire istruttiva esperienza per due particolari categorie di ascoltatori. Una è quella dei direttori artistici di festival, che avrebbero potuto ritrarre opportune lezioni circa la capacità di attrazione e coinvolgimento di una musica pur raffinata e complessa su di un pubblico in larga parte non specialistico, ma da tempo abituato dal Festival ad un ascolto 'a mente aperta' (nell'occasione, gli appassionati di vecchia data si riconoscevano a prima vista, a momenti 'ballavano' sulle sedie....). Il fatto è che Brad è forse l'ultima incarnazione del jazzman purosangue, totalmente identificato e risolto nella sua musica, e l'intensità e la sommessa passionalità della sua scommessa vengono percepite senza difficoltà ed esitazioni anche da un pubblico semplicemente colto e curioso. E qui veniamo alla seconda categoria di ascoltatori, i molti che di fronte alla musica di Meldhau e del suo trio arricciano il naso da tempo, lievemente, per carità, ma sempre visibilmente. Un ascolto spassionato ed obiettivo del trio nella sua dimensione 'live' rivelerebbe con chiarezza che la sua musica ed il suo approccio lo fanno rientrare limpidamente e senza sforzo del nucleo irriducibile di un canone jazzistico contemporaneo, un nucleo forse recondito e sepolto, ma che continua ancora a pulsare.

 

Franco Riccardi

 
 
 

RIVOLUZIONE SESSUALE

Post n°4047 pubblicato il 05 Agosto 2018 da pierrde

Da "The meaning of Jazz" di Boob McNut - anni '20 

...e a proposito di vecchi babbioni (vedi post precedente e, ad ogni buon conto, "vecchio babbione" lo intendo nella declinazione più benevola e comprensiva), non è male nemmeno questa: 

Il jazz infatti ebbe, come tutti i fenomeni culturali, un influsso sul costume e quindi anche sulla morale dell'epoca. Dal 1910, quando nacque la fase denominata "New Orleans" allo swing e poi il "cool jazz" (né ballabile né cantabile) fu accompagnato e stimolato il libero amore, la libertà dei costumi, il gusto dell'improvvisazione, l'emancipazione femminile, la dominanza dell'amore sessuale su quello romantico.

Dopo è venuto il rock ed è stato tutt'altra cosa perché la melodia è scomparsa del tutto e così pure la varietà del ritmo. Il ritmo è uno solo, al posto della melodia c'è il rumore, il ballo è un puro agitarsi del corpo che non fa più coppia fissa ma vaga da solo e fuggentemente insieme ad un gruppo o ad una persona non importa di quale sesso.

Anche il rock è un fenomeno culturale, riservato però ai giovani e giovanissimi. Non modifica i costumi ma è il segnale del disfacimento sociale. Forse il presagio di un'epoca nuova della quale i lineamenti sono tuttora ignoti. 

Non l'ha scritto Mario Adinolfi come sarebbe lecito supporre bensi'  ....

http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2015/04/08/news/rivoluzione-sessuale-sulle-note-del-jazz-1.207306 

 
 
 
 

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