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Mal di lavoro

Post n°681 pubblicato il 25 Febbraio 2015 da ilpasquino.controinf
 
Foto di ilpasquino.controinf

Un libro di Renato Curcio

Da utilizzatore di mezzi per produrre merci a mero strumento e merce egli stesso. Questa la trasformazione dell’uomo “lavoratore” nel millennio della globalizzazione.

La precarizzazione come processo di isolamento, di cancellazione progressiva della propria identità, individuale e di classe, inserito nel “concetto” odierno che fa del profitto l’unica meta da raggiungere, a scapito di ogni pulsione personale, di ogni bisogno, anche fisico, nel ribaltamento dell’idea della produzione come bene comune e motivo di crescita collettiva.

Un controllo sempre più pressante sull’operato del lavoratore, con apparecchi sempre più avanzati, che ne monitorano i movimenti, anche le pause fisiologiche, tutto sottomesso all’interesse primario, a quel mercato reale o virtuale che sia, che detta le leggi, che condiziona la vita di chi lavora e di chi compra, in una comunità fittizia di scambio di cose, ma non più di emozioni, né di sentimenti, né di esistenze.

Non solo estromesso, ma anche malato colui che non riesce ad adeguarsi ai ritmi, alle esigenze, ai tempi della macchina, alla richiesta di un utente spesso neanche mai visto, e quindi da “rottamare”, da indicare come cattivo esempio, come colui che impedisce che tutto fili liscio anche per gli altri, in quella accesa competizione che mette chi lavora uno contro l’altro, disposti a tutto, anche a regalare, gratis, ore della propria vita pur di essere “accettati” a divenire oggetti di sfruttamento.  

Nel libro viene riportato l’esempio degli operai dell’Ilva, contrari al demansionamento e ad una decurtazione dello stipendio o, in alternativa, all’auto licenziamento, come accaduto agli operai della Fiat di Pomigliano deportati a Nola, che vengono relegati in una parte della fabbrica a non far nulla.

Accusati di sfruttare il lavoro altrui, indicati, agli altri operai della fabbrica, come esempi da non seguire e persone da non frequentare, pena licenziamento, ridotti a nascondere, alle loro stesse famiglie, le condizioni in cui erano ridotti…alcuni di loro sceglieranno il suicidio.

La non accettazione delle regole imposte, della riduzione della propria vita ai tempi ed ai desideri della produzione e del padrone, da ribellione diviene malattia da curare, in gergo medico “depressione”, da affrontare con la somministrazione continua di farmaci, che ne conferma lo stato “anormale” e ne acuisce l'isolamento.

Con gli strumenti di controllo a distanza, vigenti in alcuni paesi, in grado di misurare l’attività lavorativa di ogni singola persona, si individuano, con il massimo di precisione, le pause dal lavoro effettuate durante la giornata. Il licenziamento, e la successiva denuncia penale per furto all’azienda, scatta immediatamente ad ogni infrazione, anche minima, frutto di quel “pensiero” che non concede più nulla di umano, non lascia alla vita del lavoratore più nessuno spazio di libertà personale, neanche conseguiti i risultati richiesti.

Stravolgimento del senso e del significato stesso delle parole, un incasellamento in categorie che prescindono dai bisogni, dai sentimenti, dalla vita stessa di ognuno di noi, una catalogazione in “utile” e “non utile” ad esigenze non scritte nel Dna di ogni essere umano.

Il riappropriarsi del vero significato delle parole, riannodare il filo con la nostra umanità, con quel senso di socialità e comunità oppresso e schiacciato dall’idea imperante che mercifica ogni atomo dell’esistente, ritrovare e riscoprire i giusti termini del senso stesso del nostro esistere, sono le uniche armi a disposizione di chi ancora ritiene che la propria vita non sia solo una merce in vendita.

 
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