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Quando gli oggetti parlano

Post n°9 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da bellicapellidgl3

 

 

Il valore degli oggetti non può essere stabilito guardandoli.

Io ho un legame morboso con poche cose, credo che cederei più volentieri il mio portagioie che peraltro tengo in bellavista sul comò.

La collana regalatami da mamma più di dieci anni fa, comprata per cinque euro ad una bancarella, che resiste all’usura, agli sguardi disgustati delle altre collane che le stanno intorno, con la chiusura oramai rotta e sostituita da me con una certa pervicacia (che sfiora la malattia mentale) con una spilla da balia.
Va da sé che non la indosso mai con i capelli raccolti, ma mentre cammino sento il dolce tintinnio dei ciondoli di ambra, appena percettibile.
Emana influssi benefici, ma è specializzata nel portare fortuna in ambito medico: l’anno scorso non volevo toglierla per fare la mammografia.

Poi c’è il libro di nonna, quella nonna con la terza elementare e una sensibilità straordinaria, che teneva sul comodino Cent’anni di solitudine e riusciva a rileggerlo a spezzoni senza nemmeno aver fatto uno schema (come me) di quell’immenso albero genealogico dei protagonisti.
Una nonna novantenne con un’apertura mentale che farebbe invidia a molte quarantenni di oggi.
Mi regalò “Non ti muovere”, io ero di ritorno da Parigi, avevo la testa leggera, entrai nella sua casa che profumava sempre di pulito, mi allungò questo libro che aveva vinto il premio Strega.
“Quando scrive una donna è tutta un’altra storia” c’era scritto con la sua grafia tonda. ”Specie se è una donna che fa parlare e agire e pensare un uomo come protagonista. Quest’uomo, infatti, pensa come una donna. Facci caso. Con amore, nonna”.

In un cassetto, reduce da almeno tre traslochi, ho una reliquia in un cassetto del comodino.
Una calza autoreggente color blu notte con pizzo alto. Custodita da oltre venti anni.
La prima (e disastrosa) uscita col ragazzo dei miei sogni che si ostinava a guardarmi come un’amica.
Finché.
Presi il coraggio a due mani, chiusi in ascensore dell’università,  decisi che dovevo cambiare registro, ma fui maldestra (la parte della donna fatale non mi è mai riuscita granché, quella che prende l’iniziativa e ti sbatte al muro, per intenderci).
La buttai là, mentre l’ascensore saliva:” esci con me stasera?”.
Non so se ero più perplessa io o lui dal mio tono deciso, occhi negli occhi, rischio di infarto. Lui: ”Eh ma ho il basket stasera, tornerò tardi e sarò tutto sudato”.
Le porte si aprono con mio grande sollievo, posso uscire dal casino in cui mi sono infilata, ma per essere certa di non lasciare dubbi sulle mie intenzioni per nulla amicali, dichiaro uscendo a testa alta manco fossi Greta Garbo:
”La faremo insieme la doccia”.
Quella calza, unica e separata per sempre dalla sorella che non so che fine abbia fatto, testimonia la mia audacia, il mio essere volitivo, mi ricorda che nella vita le cose accadono perché vogliamo farle accadere. E mi piace.

E poi ci sono gli orecchini di oro giallo con la pietra nera. 
Due anelli sottili uno dentro l’altro. Sobri senza essere anonimi.
Li portavo la prima volta che l’ho visto.
Quando ho compreso con estrema lucidità, in pochi attimi, che sarebbe stato un amore per me inossidabile, che avrebbe resistito all’assenza, alla distanza, anche al rifiuto, forse.
Di quelli con cui impari a convivere e profumano di rammarico, ma anche di dolcezza. Quella sera ho perso uno dei due anelli dorati, lo cerchiamo insieme, in auto, per strada.
Ma non rinuncio ad indossarli, ho tolto il secondo anello anche all’altro orecchino; ora sono solo un po’ più scarni, ma sono loro.
Li indosso quando la mancanza è più forte, quando mi sento più sola.
Quando voglio farmi coccolare.

 

Alcuni oggetti possono parlare, ma possiamo capirli solo noi.

 

 
 
 
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