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Della solitudine

Post n°19 pubblicato il 27 Gennaio 2015 da bellicapellidgl3


Sono cresciuta a latte e domande.

E non mi riferisco a domande invasive, ma a quelle che ti insegnano a raccontare le emozioni. Quello che gli psicologi chiamano “l’alfabetizzazione delle emozioni”. 

Mi hanno insegnato a decodificare gli stati d’animo e quindi a raccontarli, senza troppo pudore o diffidenza o paura di essere derisa.
Riconosco sempre questa caratteristica nelle persone con cui mi relaziono e la ritengo una risorsa. Trovo che chi sa raccontarsi e denudarsi, pur rischiando di offrire il fianco agli altri, sia dotato di un fascino che merita di essere esplorato.

Tutto questo però ha avuto un rovescio della medaglia, una sorta di scotto da pagare, credo.
Mi ha reso affetta da quella che chiamo “empatia allo stadio terminale” e cioè la difficoltà di gestire il dolore delle persone a cui tengo.
Questa non è affatto una risorsa, non per chi ne è affetto. 
Tendo a instaurare relazioni profonde, non so mantenere a lungo rapporti che restano in superficie, di cordialità amicale. Io devo andare a fondo, devo specillare.
Ma poi accade a volte di lasciare pezzi, rimanere in parte mutilati e certi organi impiegano anni a ricrescere e non sono mai uguali agli originali.

Ecco, ci sono relazioni che scorticano, detto molto brutalmente.

Allora giorni fa ho ripreso delle pagine in cui mi ero imbattuta nella mia adolescenza. Ricordavo l’impatto emotivo che allora ebbero su di me ed ero curiosa di osservare cosa avrebbero suscitato oggi.
Oggi che sono molto simile ad allora, ma anche molto diversa.

I Saggi di Montaigne e in particolare “Della solitudine”.

Vi pregherei di leggere bene, specie se siete affetti dal mio stesso male, perché queste parole, allora come adesso, mi hanno regalato una nuova prospettiva da cui affacciarmi:

“Bisogna riservarsi un retrobottega tutto nostro, del tutto indipendente, nel quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine. Là noi dobbiamo intrattenerci con noi stessi  e, tanto privatamente, che nessuna conversazione o comunicazione con altri vi trovi luogo; ivi discorrere e ridere come se fossimo senza moglie, senza figli, senza beni e senza servitori, affinché, quando verrà il momento di perderli, non sia cosa nuova farne a meno. Noi abbiamo un’anima capace di ripiegarsi su se stessa; essa può farsi compagnia; ha di che assalire e di che difendersi; di che riceve.re e di che donare. Non c’è cosa migliore al mondo che saper stare con se stessi”.
 (Montaigne, Essais, Libro I, capitolo XXXIX)

Quanta libertà si respira in questi versi.
L’interdipendenza con gli altri che è molto diverso dalla dipendenza. Viviamo in mezzo agli altri, è sano scambiare e darsi e ricevere. Ma “quando verrà il momento, non sia cosa nuova farne a meno”.

 

Ci sono libri che possono insegnare a stare al mondo

 
 
 
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