Puoi fare il medico e puoi essere un medico.
Le due cose non sono necessariamente coincidenti.
Puoi essere un medico colto, un uomo di scienza appassionato, avere intuito clinico ed essere sempre aggiornato sull’ultimo lavoro pubblicato in letteratura.
Eppure non basta.
Ho imparato che per essere un medico devi saper ascoltare con attenzione il malato che ti parla, dedicargli la tua massima attenzione, a dispetto delle trenta persone fuori che aspettano, perché quello è il suo momento e lui si sta affidando a te, totalmente, e tu hai un potere enorme: puoi cambiare la sua vita.
Non è una missione, è un lavoro.
Ma non venitemi a dire che è un lavoro come un altro, perché hai in mano la qualità della vita di un uomo.
Siamo schiacciati dalla routine, dalle richieste, dalla burocrazia, dalle lamentele di chi sta aspettando fuori dalla porta. Eppure io cerco sempre di ricordarmi che quel signore sdraiato sul lettino, con la sua sciarpa rossa e la cartellina piena di esami ordinati con cura, stamattina si è alzato all’alba, è arrivato qui carico di aspettativa e di ansia, si è seduto paziente in sala d’attesa per aspettare me e vuole risposte, soluzioni. Vuole aiuto. Ed ora mi parla e io devo ascoltarlo, non tralasciare nulla, devo pensare.
Non posso permettermi di sentirmi stanca.
Non posso sentirmi schiacciata dalla mole di lavoro che ho.
Lui sta mettendo il suo dolore nelle mie mani perché io lo annienti. Siamo una squadra con un nemico comune e non posso permettermi di sottovalutare nulla.
Non posso permettermi di emozionarmi per la signora che mi parla di un figlio terminale e schizofrenico lasciato a casa, da solo, chiuso a chiave, perché non ha nessuno ad accudirlo mentre lei viene da me a cercare soluzioni.
Non posso contaminare la mia lucidità con la tenerezza per quest’uomo che mi parla col suo vestito buono e una collana al collo con la foto della moglie che ha perso. Però riesco a “sentirli”. Sentire le loro vite faticose. Questo mi permette di “essere” il medico che sono.
E so che loro sentono me. Sentono che per me, in quel momento dedicato solo a loro, conta più di ogni altra cosa essere di aiuto. Questo mi fa tornare a casa appagata e grata.
A diciotto anni nessuno sa davvero cosa voglia fare da grande. Non puoi saperlo. E non lo sapevo nemmeno io. Non avevo una passione per la medicina, svenivo persino quando mi facevano un prelievo.
Però ricordo che mi posi una domanda:
” Cosa mi renderebbe appagata? Quale aspetto di una professione qualunque mi farebbe sentire soddisfatta?”
E sapevo bene la risposta: sentirmi utile a qualcuno.
Per questo oggi sono qui e quella domanda è sempre attuale, quella risposta sempre la stessa, nonostante io non sia più quella ragazzina di allora, per molti aspetti.
E loro mi restituiscono tutte le notti che ho passato a studiare invece di andare in discoteca, le mie rinunce, le corse in questa vita incastrata dagli orari, le ansie di parlare in una lingua che non è la mia di fronte a un pubblico internazionale.
Il signore che col cellulare mi scatta foto mentre lo visito e mi riempie di tenerezza.
“Che fa? Mi fotografa?”
“Voglio ricordarmi per sempre la sua faccia perché lei mi ha salvato” .
Riescono ancora a destabilizzarmi, ma solo per qualche istante.
“Beh allora facciamocela insieme la foto, che dice?”
E quel ragazzo rumeno ieri, con quello sguardo perso, ormai troppo abituato alla diffidenza altrui.
“Non ho soldi per pagare questo esame”.
Prendo il telefono, chiedo favori, credo che spetti a me fare in modo che anche lui abbia il diritto di curarsi. Poi prendo una busta, la riempio di cose che gli costerebbero una fortuna in farmacia. E’ un po’ come un furto, penso. Ma la sua espressione colma di stupore quando gli porgo la busta, vale più di tutto.
“Ti porto cioccolata dalla Romania”
“Mi basterebbe che ritorni guarito”
Lui ha lo sguardo di chi ha dimenticato come ci si senta quando qualcuno fa qualcosa per te, mi fissa, incredulo.
Poi fa un piccolo inchino.
“Grazie” dice.
E quel grazie mi fa compagnia per tutto il giorno. E mi fa cantare in macchina tornando a casa.
per questo giurai che avrei fatto il dottore
e non per un dio ma nemmeno per gioco
perché i ciliegi tornassero in fiore,
perché i ciliegi tornassero in fiore (...)
"Un medico" - F.De Andrè
[non al denaro, non all'amore nè al cielo]
http://www.angolotesti.it
/F/testi_canzoni_fabrizio_de_andre_1059/testo_canzone_un_medico_33073.html
Come si usa dire a Roma, “è tanta robba!!”..
Alla fine è come dice Lei, niente riempie di più di un sorriso,
o di un semplice grazie …
…