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Rime di Celio Magno (241-250)

Post n°1087 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

241

Deh non cessar, Amor, deh torna al canto,
né mi lasciar cader da tanta gioia;
e saetta in me pur, che non m'annoia,
da l'atto dolce del bel viso santo.

Movi la voce pur, soave tanto,
ch'altro non bramo, anzi ho tutt'altro a noia;
consenti, ohimè, ch'in tale stato i' moia,
mentre il cor si distilla in dolce pianto.

Benché seguendo il suon da me diviso,
lo spirto, e giunto in ciel, torna e mi dice
che questo avanza il ben del paradiso

e ch'un solo sospir di quei ch'elice
dal mio cor l'armonia che m'ha conquiso,
ogni uom potria qua giù render felice.

242

Finser le favolose antiche carte
Giove, dal cielo in bianco tauro sceso,
su per l'onde portar l'amato peso;
né ciò ben so con che misterio od arte.

Così, s'a falsi dèi lice agguagliarte,
verace Giove, e tu già fosti acceso
de la nostr'alma e al su' acquisto inteso
in puro agnello il ciel vide cangiarte;

e fatto a lei di te guida e sostegno,
varcando questo mal crudele infido,
fuor la traesti, qual più caro pegno;

ma quei la preda sua misera in lido
terren condusse, e tu 'l beato regno
del ciel festi a la tua perpetuo nido.

243

Falso piacer, che con sì lento passo
movi, e fuggi com'ombra a pena vista;
o di troppo aspro fel dolcezza mista,
che rende l'uom del proprio gusto casso!

O più ch'altro selvaggio, orrido sasso,
ancor che piano e dilettoso in vista,
di cui quanto più 'l fral montando acquista,
l'alma più scende in precipizio al basso!

Quante per te fatiche al vento ho sparte,
che digiun lungo ha la ragion sofferto,
dal senso esclusa in perigliosa parte!

Or, che tu' inganno io pur conosco aperto,
torno, e spero saldar tuoi danni in parte
al poggio di virtù, sublime ed erto.

244

Questa di vari fior mensa dipinta,
ove lieta la copia ha sparso il corno
sacro a te, Bacco; e questa lira intorno
de l'amata tua fronde avolta e cinta;

che dal mio voto e dal tuo pregio spinta
tornando a noi questo gradito giorno,
suonerà sempre il tuo bel nome adorno,
né in me fia mai la tua memoria estinta.

Tu venir degna: e mentre il tuo licore
meco a la mensa la mia Cinzia mesce,
scalda con tua virtute il freddo core:

sì che, come a dolc'esca incauto pesce,
ebra sia vinta; e me ne scusi Amore,
ch'ogni fren romper suol quando in noi cresce.

245

Primo

Quell'alato fanciul, quel picciol dio,
cui per nome Cupido il mondo chiama,
a me non noto pria, se non per fama;
con quest'occhi, signor, pur ier vid'io.

Mentre di bella donna, umano e pio
volto io stava a mirar con nova brama,
qual chi mostrar sua pompa e gloria brama
fuor de' bei lumi ne la fronte uscìo;

quindi volto ver me lieto sorrise,
e lusingando in atto dolce, amico,
alto diletto al mio desir promise.

Or, perché 'l grida ognun crudo e nemico
e tal che rado altrui gran tempo arrise,
di cader temo al suo fallace intrico.

246

Secondo

Splende de la mia dea nel vago viso
di cortese pietate un vivo raggio,
che sicuro mi fa d'onta e d'oltraggio,
anzi mi scopre il ben del paradiso.

Ma troppo alte impromesse e dolce riso
fan che d'occulto inganno ha tema uom saggio:
che qual pesce torcendo il suo viaggio
ingordo a l'esca trae, resta deriso.

Dunque voi, cui d'amor l'arte e gli inganni
per prova aperti son, fatemi accorto,
sì ch'io gli ami suoi fugga e i suoi gran danni.

Ma se, com'odo, ogni rimedio è corto
e pur convien che 'l suo piacer ne 'nganni,
mi date almeno ond'io non resti morto.

247

Ahi perché de' begli occhi, ond'io sol vivo
e senza i quali a morte omai son corso,
e d'ogni usato mio dolce soccorso
per voi son, donna, a sì gran torto privo?

Ben crederò che possa e fiume e rivo
volger indietro il natural suo corso,
poich'a preso empio stil di tigre e d'orso
quel cor che non fu mai sdegnoso e schivo.

Se mai dal vostro il mio voler disgiunto
non ebbi, lasso, è pur tropp'aspra sorte
ch'io pianga, a tale indegno strazio giunto.

Felici quei ch'in nodo lieto e forte
stringe Amor sempre, a sperar dolce aggiunto
che né sciorlo ancor possa invida morte.

248

Pastorale

— Perché, lassa, non m'è concesso tale
pianto trovar, che la mia pena adegui?
Onde questo meschin cor si dilegui,
ch'a tanto duol più contrastar non vale?

Ma per qual aspra mia colpa mortale
inimico destin sì mi presegui?
E tu, Clori, a che tardi? A che non segui
lui, ch'al ciel se ne va con spedit'ale?

Aspetta, gloriosa anima e bella,
me, ch'esser voglio in vita e 'n morte, quanto
esser si può, fida compagna e ancella. —

Ciò detto cadde al suo Damone a canto
Clori: e, congiunte, a la par loro stella
ambe l'alme n'andar tra gioia e canto.

249

Con lento passo e con la faccia tinta
de la doglia onde 'l cor sentia ferirsi,
là 've da Filli sua dovea partirsi
pervenne al fin l'innamorato Aminta.

E perché l'alma, dal desio sospinta,
ne l'amata beltà sentia rapirsi,
mosse la bocca per, baciando, unirsi
con l'alma sua, non meno afflitta e vinta.

Ma rimaner la fe' soverchio affanno,
qual leve augel da grave rete colto,
in questo ancor provando avara sorte.

Sol gli occhi lagrimosi in quel bel volto
tenea dicendo: — Ahi, che men duolo e danno
mi fora il gir lontan da te per morte. —

250

Vive nel tuo bel sen l'anima mia,
o di lei pietoso unico oggetto;
vive la tua non men dentro al mio petto,
né qua già questa e quella altro desia.

Ambe han tra lor sì dolce compagnia
che vinto cade ogni altro uman diletto;
ambe d'un sol voler, d'un solo affetto:
l'una per l'altra se medesma oblia.

Tu di bellezza e cortesia fenice,
io di fede e d'amor; tu fortunata
per me ti chiami, ed io per te felice.

Così non porti mai fortuna ingrata
ai nostri lieti giorni ora infelice;
ma sia Filli con Tirsi a pien beata.

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