Creato da Avv.FAZZARI il 07/01/2009
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IVA: I CHIARIMENTI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA

Foto di Avv.FAZZARI

Avv. Simone Fazzari 

Simone Fazzari & Barry Smith Law Offices 

Simone Fazzari & Barry Smith Law Group

 

 

 

 

La Corte di Giustizia UE, Terza Sezione, ha emesso l’11 aprile 2013 una importante sentenza in materia di rimborsi dell’imposta sul valore aggiunto, affermando i seguenti due principi di diritto:

1) Il principio di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto, quale concretizzato dalla giurisprudenza relativa all’articolo 203 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, dev’essere interpretato nel senso che esso osta a che, in base ad una disposizione nazionale intesa a recepire detto articolo, l’amministrazione tributaria neghi al fornitore di una prestazione esente il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto fatturata per errore al suo cliente, in quanto tale prestatore non ha rettificato la fattura erroneamente redatta, mentre l’amministrazione ha definitivamente negato a tale cliente il diritto di detrarre detta imposta sul valore aggiunto, comportando tale diniego definitivo che il regime di rettifica previsto dalla legge nazionale non è più applicabile.

2) Il principio di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto, quale concretizzato della giurisprudenza relativa all’articolo 203 della direttiva 2006/112, può essere invocato da un soggetto passivo al fine di opporsi ad una disposizione del diritto nazionale che subordina il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto fatturata per errore alla rettifica della fattura erroneamente redatta, mentre il diritto di detrarre detta imposta sul valore aggiunto è stato definitivamente negato, comportando tale diniego definitivo che il regime di rettifica previsto dalla legge nazionale non è più applicabile.
Per i giudici di Lussemburgo, in tema di rimborsi I.V.A., anche se il contribuente non provvede alla rettifica, la tutela arriva dal principio di neutralità. L’Amministrazione Finanziaria, infatti, non può negare al fornitore di una prestazione esente il rimborso dell’imposta fatturata per errore al proprio cliente. Ciò anche quando il prestatore non abbia provveduto alla rettifica.
Per la Corte di Giustizia, quindi, il diritto bulgaro non ha recepito correttamente talune disposizioni in materia di IVA. Deve, infatti, considerarsi contraria al principio di neutralità fiscale la norma nazionale che subordina la rettifica dell’IVA erroneamente fatturata alla rettifica della stessa fattura, laddove ciò sia divenuto impossibile da soddisfare, a seguito del diniego definitivo della detrazione dell’IVA: questa sorta di “serpente fiscale che si mangia la coda” eccede, infatti, quanto è necessario per raggiungere la finalità dell’art. 203 della direttiva IVA n. 2006/112, consistente nell’eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale.
La sentenza si pone sul solco della sua giurisprudenza consolidata che recentemente aveva bacchettato sempre la Bulgaria e sempre in materia di I.V.A.. In particolare, la Corte Giustizia, Terza Sezione, 31 gennaio 2013, causa C-642/11, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dall’Administrativen sad Varna (Bulgaria), ha dichiarato:
1) L’articolo 203 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, dev’essere interpretato nel senso che:
  • l’imposta sul valore aggiunto indicata in una fattura da un soggetto è da esso dovuta indipendentemente dall’esistenza effettiva di un’operazione imponibile;
  • dal solo fatto che l’amministrazione tributaria non abbia rettificato, in un avviso di accertamento in rettifica indirizzato all’emittente di tale fattura, l’imposta sul valore aggiunto da esso dichiarata, non si può dedurre che tale amministrazione abbia riconosciuto che detta fattura corrispondeva a un’operazione imponibile effettiva.
2) I principi di neutralità fiscale, di proporzionalità e del legittimo affidamento devono essere interpretati nel senso che non ostano a che il destinatario di una fattura si veda negare il diritto a detrarre l’imposta sul valore aggiunto a monte a causa dell’assenza di un’operazione imponibile effettiva, anche se, nell’avviso di accertamento in rettifica indirizzato all’emittente di tale fattura, l’imposta sul valore aggiunto dichiarata da quest’ultimo non è stata rettificata. Se, tuttavia, tenuto conto di evasioni o irregolarità commesse da tale emittente o a monte dell’operazione dedotta a fondamento del diritto alla detrazione, tale operazione è considerata come non effettivamente realizzata, si deve dimostrare, alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal destinatario della fattura verifiche alle quali non è tenuto, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta operazione si inseriva nel quadro di un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
Nella sentenza 12 luglio 2012, n. C-284/11, la Corte di Giustizia, ha tuttavia precisato che
il principio di neutralità fiscale osta a una sanzione consistente nel diniego del diritto alla detrazione in caso di versamento tardivo dell’IVA, ma non osta al versamento di interessi moratori, a condizione che tale sanzione rispetti il principio di proporzionalità, circostanza che spetta al giudice del rinvio accertare”.
In quest’ultimo caso, i giudici di Lussemburgo erano stati chiamati a pronunciarsi in merito a un ricorso proposto da una società di trasporti bulgara avverso un avviso di rettifica fiscale emesso in seguito al diniego, da parte delle autorità tributarie, del diritto di detrarre l’imposta sul valore aggiunto versata a monte. Quindi nessun diniego alla detrazione ma via libera all’applicazione di sanzioni e interessi moratori per ritardato versamento dell’IVA dovuta.
Per concludere, preme ricordare che recentemente, la Suprema Corte italiana ha stabilito che in materia di IVA, la detrazione presuppone l’assolvimento a monte. In particolare, la Corte di Cassazione, con la sentenza 20 marzo 2013, n. 6925 ha precisato come ai sensi degli artt. 18, n. 1, lett. d) e 22 della VI direttiva Ce n. 77/388, come modificata dalla direttiva 2000/17, il principio di neutralità fiscale impone che l’inosservanza da parte di un soggetto passivo delle formalità imposte da uno Stato membro, in applicazioni alle disposizioni comunitarie, non può privarlo del diritto alla detrazione dell’Iva, mediante annotazione a credito nella dichiarazione di imposta, ferma restando l’eventuale sanzione per l’inosservanza degli obblighi imposti. Ai fini del riconoscimento del diritto di detrarre l’IVA corrisposta per l’acquisto del bene o del servizio è, tuttavia, necessario che gli obblighi sostanziali connessi all’imposta siano puntualmente osservati dal contribuente. Il che, con riferimento alla fattispecie concreta, si traduce nella necessità che vi sia comunque, a monte della detrazione, il pagamento dell’imposta dovuta (che nelle operazioni interne deriva dall’applicazione del meccanismo della rivalsa), si che gli obblighi sostanziali di assunzione del debito IVA, imposti sia a livello comunitario che nazionale vengano rispettati dal contribuente.
Avv. Simone Fazzari 
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MEDICO DIPENDENTE INADEMPIENTE: CASA DI CURA RESPONSABILE

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Avv. Simone Fazzari 
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La pronuncia 618/2013 del Tribunale di Reggio Emilia, resa in tema di responsabilità medica, propone interessanti spunti sia dal punto di vista sostanziale, sia da quello processuale.
Il fatto
L’attrice agiva in giudizio nei confronti della casa di cura esponendo quanto segue:
  • era stata sottoposta ad intervento chirurgico;
  • l’intervento, e la successiva fase post operatoria, non erano stati gestiti correttamente;
  • ciò aveva causato seri problemi e la sostanziale impossibilità di deambulazione;
  • con la conseguenza che aveva quindi dovuto sottoporsi a nuovi interventi e cure presso altri ospedali (che tra l’altro avevano potuto solo in parte ovviare agli errori inizialmente commessi).
Pertanto, domanda il risarcimento del danno (danno non patrimoniale, espressamente indicato in una lesione biologica del 10%, in una invalidità temporanea assoluta di tre mesi, in una invalidità temporanea parziale di tre mesi, in un danno estetico ed in un danno alla vita di relazione).
La casa di cura convenuta chiedeva, per quanto qui rileva:
>> il rigetto della domanda;
>> la chiamata in causa del medico autore dell’intervento chirurgico: ciò, in particolare:
a. deducendo il presupposto che “la causa è a lui comune”;
b. senza però svolgere domanda nei suoi confronti; difatti, il medico, ritualmente evocato in giudizio, si costituiva evidenziando che nessuna domanda di garanzia, manleva o regresso, era stata spiegata nei suoi confronti.
La decisione del Giudice
A. Profili sostanziali
In tema di responsabilità medica il Giudice, richiamando la consolidata giurisprudenza di legittimità[1], ricorda che:
a. quanto alla disciplina risarcitoria applicabile:
  • il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura ha natura contrattuale;
  • la disciplina normativa applicabile è dunque quella dettata in tema di inadempimento delle obbligazioni dall’art. 1218 c.c.;
b. quanto al rapporto, con specifico riferimento alla disciplina risarcitoria, tra casa di cura e medico:
  • il sanitario è ausiliario necessario della casa di cura, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato (art. 1228 c.c.);
  • sussiste, infatti, un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e l’organizzazione aziendale della casa di cura;
di conseguenza, la responsabilità della casa di cura nei confronti del paziente può conseguire all’inadempimento [2]:
1. delle obbligazioni direttamente a carico della struttura ospedaliera;
2. della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario; ciò, in particolare, senza che rilevi, in contrario, la circostanza che il sanitario risulti essere anche di fiducia dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto.
Pertanto, in tema di oneri probatori (art. 2697 c.c.), la pronuncia in commento, in linea con la giurisprudenza di legittimità
[3], ricorda che:
>> il paziente deve provare:
a. l’esistenza del contratto;
b. l’aggravamento della situazione patologica;
>> l’ente ospedaliero deve provare che:
a. la prestazione professionale è stata eseguita in modo diligente;
b. gli esiti peggiorativi sono stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.
Ciò considerato, con riferimento alla fattispecie concreta, il Giudice osserva che dalla CTU è emerso che dopo l’intervento chirurgico vi è stata una carenza nella tempestività della diagnosi e terapia e che l’attrice attese fino a 2003 per procedere alla revisione chirurgica che, invece, già dal 1999 doveva ritenersi opportuna e non concretamente evitabile.
Al riguardo, la sentenza in parola osserva che era onere della Casa di Cura provare di avere correttamente adempiuto alla propria obbligazione tramite il tempestivo suggerimento alla paziente di sottoporsi al nuovo intervento chirurgico. Ciò, tuttavia, non è avvenuto, non avendo la struttura ospedaliera convenuta provato di avere diligentemente adempiuto la propria obbligazione tramite la segnalazione della necessità di un immediato intervento chirurgico.
Sussiste pertanto la dedotta responsabilità medica per ritardo diagnostico e, quindi, l’inadempimento della struttura ospedaliera convenuta con riferimento alle obbligazioni assunte nei confronti del paziente.
Alla luce di tali considerazione, il Giudice conferma anche la sussistenza di un danno in capo al paziente-attore riconducibile a detto inadempimento[4].
B. Profili processuali
La sentenza in parola conferma poi il principio secondo cui è inammissibile la domanda di condanna del terzo formulata dall’attore per la prima volta in sede di precisazione di conclusioni. Trattasi, infatti, di domanda da considerarsi tardivanon automaticamente estesa al terzo al momento della sua chiamata e la cui inammissibilità risulta rilevabile d’ufficio.
In tal senso la giurisprudenza di legittimità ha difatti affermato quanto segue:
  • il regime di preclusioni introdotto nel rito civile ordinario deve ritenersi inteso non solo nell’interesse di parte, ma anche nell’interesse pubblico all’ordinato e celere andamento del processo;
  • con la conseguenza che la tardività delle domande, eccezioni, allegazioni e richieste, deve essere rilevata d’ufficio dal giudice (indipendentemente dall’atteggiamento processuale della controparte al riguardo e dall’eventuale accettazione del contraddittorio)[5];
  • l’automatica estensione al terzo della domanda attorea si ha allorquando il convenuto chiami in causa il terzo al fine di ottenere la propria liberazione e l’individuazione del chiamato quale unico e diretto responsabile (sicché la chiamata assolve il compito di supplire al difetto di citazione in giudizio da parte dell’attore del soggetto indicato dal convenuto come obbligato in sua vece)[6].
Da ciò discende, con riferimento al caso in esame, che unico destinatario delle pretese di pagamento dell’attore è la struttura ospedaliera convenuta. Difatti:
  • solo in sede di precisazione delle conclusioni la difesa attorea ha chiesto la condanna, oltre che della Casa di Cura, anche del medico (richiesta dunque mai formulata “prima dello scadere delle preclusioni assertive di cui all’articolo 183 comma 5 ratione temporis vigente”)[7];
  • la domanda non può considerarsi automaticamente estesa al medico in quanto la struttura ospedaliera convenuta lo ha evocato in giudizio semplicemente deducendo che la causa è “a lui comune” (“e quindi non al fine di ottenere la propria liberazione e l’individuazione del chiamato quale unico e diretto responsabile”).
Sul punto, il Giudice osserva che (come correttamente evidenziato dalla difesa del medico),non essendo nei confronti del chirurgo stata spiegata alcuna domanda, nonostante l’istruttoria abbia comprovato la sua responsabilità medica (nella specie per ritardo diagnostico), nessuna statuizione di condanna può essere effettuata nei sui confronti; ciò in quanto, come ricordato:
  • l’attrice ha solo tardivamente proposto domanda di condanna verso di lui;
  • la convenuta non ha mai svolto nei suoi confronti domanda di regresso.


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ANTITRUST CONDANNA 5 ORDINI DEGLI AVVOCATI PER INTESE RESTRITTIVE DELLA CONCORRENZA

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Avv. Simone Fazzari 

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L'Antitrust, con provvedimento del 23/04/2013 ha diffidato e multato cinque ordini forensi (Civitavecchia, Latina, Tempio, Tivoli e Velletri) per aver "posto in essere intese restrittive della concorrenza finalizzate a ostacolare l’accesso degli avvocati comunitari al mercato italiano dei servizi di assistenza legale".
L'Anai risponde con un comunicato stampa nel quale, ricordando per bocca del suo presidente Maurizio De Tilla come sia stata proprio "l'Europa a fissare il principio che i singoli Stati sono liberi di adottare regole più stringenti e addirittura di predeterminare il numero degli iscritti con l'albo chiuso all'interno dei propri ordinamenti giuridici", rivendica il fatto che gli Ordini coinvolti con il loro operato hanno contrastato una cattiva abitudine impedendo "l'iscrizione di coloro che sono "fuggiti" in Spagna ed hanno ivi conseguito l'iscrizione all'albo degli avvocati senza sostenere alcun esame di abilitazione chiedendo successivamente l'iscrizione ad un albo forense italiano".
L'invito che Anai rivolge ai cinque Ordini è quello di impugnare il provvedimento adottato dall'Antitrust ritenendolo in contrasto con il dettato Costituzionale che impone nel nostro paese l'esame di stato.
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Avvocati: sì a comunicazioni al cliente in sedi prive di professionalità

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Avv. Simone Fazzari 

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Il caso esaminato dalla Cassazione riguarda la condotta di un avvocato il quale, assunto l’incarico difensivo a favore di una S.A.S. in merito ad una procedura di sfratto, comunichi in forma orale la notizia dell’esito dell’udienza (concessione del termine di grazia di 90 gg) al socio accomandante, anziché alla socia accomandataria, con l’effetto della successiva convalida dello sfratto.

La ricorrente, chiede la condanna del professionista, deducendo un inadempimento ed una conseguente responsabilità professionale.

Nel caso de quo la Suprema Corte si è dovuta pronunciare sia sulla validità che sulla qualificazione giuridica della condotta di un mandatario con rappresentanza che effettua una comunicazione orale al socio accomandante di una S.A.S., piuttosto che all’amministratrice accomandataria, munita del potere rappresentativo.

A parere dei giudici di legittimità, tale forma di comunicazione posta in essere dal professionista-mandatario, nei confronti del socio accomandante non munito di formale potere rappresentativo, ha piena validità giuridica in quanto il recettore delle informazioni lo si può qualificare giuridicamente come un rappresentante apparente di un organo societario esterno.  

Il tracciato argomentativo del giudicante prende avvio dalla considerazione di essere, con tutta evidenza, di fronte ad un caso di rappresentanza organica, in cui l’amministratrice della s.a.s. sostanzia l’organo esterno che impegna la società in tutti gli atti giuridici compiuti dalla medesima in nome dell’ente.

Sebbene in questa tipologia di rappresentanza, l’organo si immedesimi nella struttura dell’ente (immedesimazione organica) e quindi non si sostituisca allo stesso ma agisca come parte integrante del medesimo (divergenza profonda dal concetto generale di rappresentanza)(1), proprio questa distinzione tra persona fisica ed ente (parte formale-parte sostanziale) consente, a parte della dottrina e della giurisprudenza, di giustificare l’applicazione della disciplina della rappresentanza (1387 c.c. e segg.).

Per l’effetto di questa estensione applicativa della disciplina suddetta, i giudici di legittimità hanno applicato alla fattispecie in oggetto la qualificazione giurisprudenziale della rappresentanza apparente, in relazione all’operato del socio accomandante, destinatario della comunicazione del professionista che ha originato il contenzioso giudiziario.

Nel caso de quo l’apparenza poteva essere costituita dal fatto che la società aveva una dimensione familiare, dal rapporto costante con l’amministratrice, dai pregressi rapporti e comunicazioni con il professionista che non avevano mai generato contestazioni.

La Cassazione, pertanto, applica alla fattispecie sottoposta alla sua attenzione, il principio della rappresentanza apparente di un organo di società, sottolineando però, in prima battuta, come il principio dell’apparenza del diritto e dell’affidamento, scaturendo dall’aspettativa di un terzo circa una situazione attendibile, non lo si possa invocare nei casi in cui la legge predisponga mezzi di pubblicità dai quali è possibile verificare con l’ordinaria diligenza l’esistenza o meno dell’altrui potere, soprattutto nelle società di capitali.

Comunque, precisa subito dopo che precedenti pronunce della stessa giurisprudenza di legittimità ( ex plurimis Cass. civ. n. 10297 del 29 aprile 2010) hanno stabilito come il concetto di affidamento possa avere efficacia quando il potere supposto esista anche a prescindere dalla regolamentazione statutaria e possa essere conferito per specifici atti e senza particolari formalità.

Orbene, muovendo dal concetto di apparenza rappresentativa della società che aveva acquisito il socio accomandante nei rapporti con l’avvocato, i giudici giudicano come liberatoria la comunicazione verbale della concessione del termine di grazia fatta dal professionista a quest’ultimo.  

Aggiunge, altresì, la Cassazione che la comunicazione del mandatario al mandante possiede libertà di forma e può essere effettuata senza il rispetto di forme particolari, dunque anche oralmente senza pregiudicare la natura recettizia delle stessa, salvo il caso in cui la legge o la volontà delle parti imponga forme precise.

Infine, la comunicazione è da intendersi validamente eseguita indipendentemente dal luogo della trasmissione delle informazioni il quale può essere anche un bar o qualsiasi altra sede priva dei requisiti di professionalità.  

 

Avv. Simone Fazzari 

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Società esterovestita rischia il reato di omessa dichiarazione dei redditi

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Quando l'impresa ha sede all'estero, ma la maggior parte dell'attività si svolge in Italia, la dichiarazione dei redditi va fatta nel nostro Paese, altrimenti si configura evasione fiscale. E' quanto emerge dalla sentenza 8 aprile 2013, n. 16001 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, , con la quale i giudici entrano nel tema delle c.d. "società esterovestite", ovvero quelle con fittizia localizzazione all'estero della residenza fiscale, ma che, di fatto, svolgono la loro attività e perseguono il loro oggetto sociale in Italia.

Per principio generale, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ai fini delle imposte sui redditi, sono da considerarsi residenti in Italia le società e gli enti che hanno per la maggior parte del periodo d’imposta la sede legale, la sede amministrativa o l’oggetto principale nel territorio nazionale.

In applicazione della disposizione citata la giurisprudenza dominante afferma che "L'obbligo di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte di società avente residenza fiscale all'estero, la cui omissione integra il reato previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74,art. 5, sussiste se detta società abbia stabile organizzazione in Italia, il che si verifica quando si svolgano in territorio nazionale la gestione amministrativa e la programmazione di tutti gli atti necessari affinchè sia raggiunto il fine sociale, non rilevando il luogo di adempimento degli obblighi contrattuali e dell'espletamento dei servizi".

Tornando al caso di specie, per la società di noleggio di autoveicoli a lungo termine, con sede in Germania, ma operante nel nostro Paese, è obbligatoria la presentazione in Italia della dichiarazione dei redditi, pena l’integrazione, in caso contrario, del reato di omessa dichiarazione previsto dall'art. r del D.Lgs n°74/2000.

 

Avv. Simone Fazzari 

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Praticante avvocato abilitato: Cassazione interviene su limiti di valore e materia

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Nella fattispecie in esame il giudice dell’appello aveva dichiarato la nullità del ricorso introduttivo del giudizio (depositato in data 15 febbraio 2000) e di tutti gli atti conseguenti perché il difensore che lo aveva proposto e sottoscritto non era a ciò abilitato in quanto solo con delibera in data 28.4.2000 era stato iscritto all'Albo degli Avvocati.

La Cassazione, nella decisione in commento, ha condiviso quanto stabilito in secondo grado e a tal fine ha evidenziato che l'inciso "I praticanti avvocati, dopo il conseguimento dell'abilitazione al patrocinio.." contenuto nell’art. 7 ) L. n. 479/1999, cd. L. Carotti, non si rivolge, come sostiene il ricorrente, solo a chi non ha ancora conseguito l’abilitazione, ma ai praticanti avvocati in genere, senza distinzione tra quelli già abilitati e coloro che detta abilitazione non avevano ancora conseguito.

Inoltre, con riguardo alle cause nelle quali l’art. 7 citato prevede, per il praticante avvocato abilitato, la possibilità di esercitare l'attività professionale con riferimento agli "affari civili", tra quelle indicate al n. 1) "cause, anche se relative a beni immobili, di valore non superiore a lire cinquanta milioni" debbono ricomprendersi anche quelle in materia di lavoro e previdenza ed assistenza che, prima della istituzione del giudice unico di primo grado, rientravano nella competenza pretorile.

“Ed infatti, laddove il Legislatore ha inteso far riferimento alla materia della causa lo ha espressamente detto come ai punti 2) e 3) della lettera a) del citato art. 7 co. 1. Peraltro, la distinzione delle cause di lavoro e in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria nell'ambito degli affari civili potrebbe derivare dalla diversità del rito ma il criterio del rito è estraneo all'art. 7 co. 1 lettera a)”.

Pertanto, conclude la Suprema Corte, la sentenza impugnata deve essere confermata in quanto il difensore era carente dello "ius postulandi" rispetto alla causa introdotta con ricorso depositato il 15.2.2000 il cui valore eccedeva sicuramente i cinquanta milioni di lire, essendo stata chiesta la condanna della società convenuta al pagamento della somma di lire 83.312.675.

 

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AUTO IN LEASING E GUIDATORE UBRIACO? NESSUNA CONFISCA

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Automobile in leasing e guidatore ubriaco? Nessuna confisca.

Non è, infatti, confiscabile l’auto condotta in stato di ebbrezza dall’autore del reato e utilizzatore del veicolo con contratto di leasing, se il concedente, proprietario del mezzo, sia estraneo al reato stesso.

Così le sezioni unite della Corte di Cassazione, sezione penale, hanno, con la sentenza 17 aprile 2012, n. 14484, risolto il contrasto giurisprudenziale, da tempo in atto in materia, stabilendo che, in tal caso, è illegittima la confisca dell’automobile per guida in stato di ebbrezza.

Con la decisione in commento i giudici della Corte hanno bocciato il ricorso presentato dalla accusa; la procura aveva chiesto il sequestro ed il Gip aveva confermato la misura; su richiesta della società di leasing, però, poi la confisca era stata annullata.

Con tale “rigetto” la Corte ha adottato un differente principio rispetto a quello sancito in altre (seppur recenti) decisioni giurisprudenziali (con inversione dell’orientamento sul tema).

In tali decisioni si era affermato che il bene detenuto in leasing apparteneva al soggetto cui era stata attribuita la materiale disponibilità dello stesso, ed anche se non di proprietà, il soggetto aveva, di fatto, un diritto al godimento sulla base di un titolo che escludeva terzi soggetti) (per una ricostruzione dell’argomento cfr. Cass., sez. III, 3.2.2011, n. 13118, CED 249928. Contra, nel senso che legittimato è solo l'utilizzatore del bene concesso in leasing, Cass., sez. III, 12.12.2007, n. 4746, CED 238786. Per la tesi secondo cui la società di leasing è legittimata alla restituzione solo se dimostra la cessazione del contratto, v. Cass., sez. IV, Sent. 11/02- 18/03/2010 N°10688 CED 246505).

Nella sentenza de qua, oggetto di commento, invece, la Suprema Corte di Cassazione, a sezioni unite, ha, appunto risolto il contrasto insorto, precisando e stabilendo (con una linea garantista) che, a prescindere dalle esigenze di sicurezza, la confisca sarebbe incompatibile con i principi di legalità, personalità e responsabilità che caratterizzano le sanzioni penali.

 

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Dichiarazione fraudolenta, fatture false, sequestro per equivalente, soglia minima

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Avv. Simone Fazzari 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

Sentenza 20 ottobre 2011 - 27 aprile 2012, n. 16011

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

Con ordinanza del 31 marzo 2011 il Tribunale di Napoli - Sezione per il Riesame - annullava il decreto di sequestro preventivo per equivalente emesso dal G.I.P. del medesimo Tribunale in data 28 febbraio 2011 nei confronti di M.A. indagato per i reati di cui all'art. 416 c.p. e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2.

L'ordinanza, nel fare integrale richiamo ad un precedente similare provvedimento del medesimo organo giudicante, osservava in punto di fatto e con riguardo alla presunta violazione della normativa fiscale di riferimento, che le condotte di frode fiscale oggetto di indagine risultavano commesse mediante la falsa dichiarazione di avere sostenuto spese mediche, per le quali spetta la detrazione IRPEF del 19%, con allegazione di fatture o documenti equipollenti materialmente falsi (apparentemente emessi da cliniche private).

L'ordinanza in esame, nell'affrontare la questione di diritto sottoposta alla sua valutazione, anche alla luce degli ulteriori argomenti addotti dal Procuratore della Repubblica, ha escluso la fattispecie delittuosa di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, ipotizzata dall'Accusa ritenendola possibile solo nel caso di utilizzazione di fatture ideologicamente false.

Ha di contro ritenuto inquadrabile la condotta contestata (utilizzazione di documentazione falsa in senso materiale) o nell'ambito previsionale di cui al cit. D.Lgs., art. 3 (il quale sanziona la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici), o, in alternativa, nel diverso paradigma normativo di cui al successivo art. 4 (che regolamenta i casi delle c.d. "dichiarazioni infedeli"), pervenendo poi alla conclusione che - quale che fosse l'opzione da seguire - poichè nel caso oggetto di indagine non risultava superata la soglia di imposta evasa necessaria perchè la condotta acquistasse rilievo penale, nessuna violazione penalmente rilevante fosse configurabile con conseguente illegittimità del sequestro per equivalente, che veniva, pertanto, revocato. Propone ricorso avverso il detto provvedimento il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione in quanto contraddittoria e/o manifestamente illogica.

Ad avviso del P.M. ricorrente, la dedotta violazione ed errata applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 e art. 322 ter c.p., fa leva sulla opposta tesi della configurabilità della dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti tanto nel caso di una utilizzazione di documenti ideologicamente falsi che in quello di utilizzazione di documenti falsi sotto il profilo materiale: secondo tale prospettazione, quel che rileva ai fini della configurabilità della fattispecie penale ipotizzata è l'inesistenza della operazione economica riportata nella dichiarazione dei redditi (o ai fini IVA): inesistenza che può profilarsi sia mediante la formazione ex novo di un documento falso, sia mediante l'utilizzazione di un documento falso dal punto di vista ideologico, emesso da altri a favore dell'utilizzatore. Il ricorso è fondato.

L'interpretazione data dal Tribunale di Napoli si pone in netta discontinuità con l'orientamento già affermato da questa Corte (Cass. Sez. 3 09/02/2011 n°9673, Chen, Rv 249613) secondo la quale "Integra il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, comma 1, e non già la diversa fattispecie di cui all'art. 3, l'utilizzo, ai fini dell'indicazione di elementi passivi fittizi, di fatture false non solo sotto il profilo ideologico, in riferimento alle operazioni inesistenti ivi indicate, ma anche sotto il profilo materiale, perchè apparentemente emesse da ditta in realtà inesistente".

Si tratta di un indirizzo richiamato dal P.M. ricorrente e non condiviso dal Tribunale per ragioni che questa Corte ritiene inosservanti del testo normativo (oltre che illogiche per quanto si osserverà più avanti).

Peraltro l'indirizzo menzionato si colloca sulla scia di precedenti conformi decisioni ancorchè riferentisi a fattispecie in parte diversa relative alle schede carburanti equiparabili a fatture (Cass. Sez. 3, 07/02/2007 n°12284, Argento, RV 236812), anche queste menzionate sia dal P.M. ricorrente che dal Tribunale.

Quest'ultimo, nell'ordinanza impugnata, pur ritenendo aderente alla fattispecie esaminata quella oggetto della decisione sopra menzionata, ne ha poi disatteso le conclusioni, sostenendo la erroneità della equiparazione tra falsità materiale e falsità ideologica operata in ragione del significato dell'espressione "operazioni inesistenti" ma non in linea con la lettera della legge (art. 1 cit.) e giudicata anche troppo "semplicistica" in relazione alla mancata "valutazione della finalità della disciplina diversificata tra fatture false ed altre frodi" (vds. pag. 6 dell'ordinanza impugnata). Tale ragionamento a giudizio della Corte non può essere condiviso.

Il punto di partenza per una corretta soluzione della questione è dato dal testo del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, intitolato "Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti": detta norma, in particolare, punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni "chiunque, alfine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi passivi fittici".

La definizione di fatture o altri documenti è contenuta nel medesimo D.Lgs., art. 1, comma 1, lett. a), il quale testualmente recita: "per fatture o altri documenti per operazioni inesistenti si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l'imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi". Dal testo normativo risulta con chiarezza che gli elementi che qualificano tale definizione sono rappresentati, da un lato dall'inesistenza della operazione economica (sia essa oggettiva o soggettiva, totale o parziale); dall'altro, dalla natura del documento che la certifica, che deve essere costituito da una fattura o altro documento avente "rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie".

Sicchè è l'efficacia probatoria, in base alle norme tributarie, del documento utilizzato per la dichiarazione fraudolenta l'elemento specializzante ed individualizzante ai fini della qualificazione della fattispecie criminosa: elemento che consente di differenziare tale fattispecie da quella similare contemplata nel cit. D.Lgs., art. 3, relativo alla dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici.

E' dunque indifferente la distinzione (sottolineata invece dal Tribunale) tra falsità materiale e falsità ideologica mutuata dall'art. 476 c.p., e ss., la quale serve ad inquadrare le possibili ipotesi di falsificazione di atti da parte del pubblico ufficiale o del privato in apposite fattispecie criminose.

Come già ritenuto da questa Corte in fattispecie analoghe, le fatture (o altri documenti per operazioni totalmente inesistenti) di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, vanno ricomprese - tranne rari casi - nella nozione di falso materiale piuttosto che in quella di falso ideologico, sulla base della distinzione figurante nel codice penale di rito: infatti remissione di fatture per operazioni inesistenti non si distingue sul piano logico e fattuale dalla formazione da parte del pubblico ufficiale di un atto falso (art. 476 c.p.) o di una scrittura privata falsa da parte del privato (art. 485 c.p.).

Per altro verso il falso materiale, con riferimento alla fattura o altra documentazione contabile, sostanzialmente non fa altro che integrare la doppia ipotesi della falsità cosiddetta ideologica, prevista dalla definizione di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, della inesistenza dell'operazione cui si riferisce la fattura e della inesistenza o diversità del soggetto al quale l'operazione viene riferita.

In conclusione, la distinzione, senz'altro rilevante ove riferita ai reati contro la fede pubblica disciplinati dal codice penale, non appare invece di significativo interesse ai fini della repressione delle violazioni fiscali, per le quali, invece, acquista rilievo il mezzo adoperato per commettere la frode ed il suo carattere più o meno subdolo, che incide sulla possibilità di un rapido e agevole accertamento.

La ratio incriminatrice della norma delineata nel D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 del va quindi individuata nel valore probatorio attribuito, in materia tributaria, alle fatture o agli altri documenti ad esse equiparati, in considerazione della apparente affidabilità della documentazione contabile corrispondente allo schema normativo, cui la legge collega determinate conseguenze in materia fiscale.

E, dunque, la natura dello strumento usato per commettere la frode fiscale, in quanto idoneo a trarre più facilmente in inganno l'amministrazione finanziaria, a determinare la linea di demarcazione tra le ipotesi indicate nell'art. 2 e quelle delineate nell'art. 3.

Pertanto, ai fini della configurabilità della dichiarazione fraudolenta di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, occorre che il documento utilizzato per la dichiarazione di elementi passivi fittizi corrisponda, sia pure apparentemente, ai requisiti precisati dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 2, a proposito del contenuto della fattura, ovvero, se si tratta di altro documento contabile, sia equipollente, in relazione al suo contenuto, alla fattura secondo le norme tributarie, a nulla rilevando che detta fattura o documento sia frutto di falsità cosiddetta ideologica o materiale.

Può dunque affermarsi che è la rispondenza allo schema legale, che caratterizza la fattura o altra documentazione ad essa equiparata dalla legge tributaria, utilizzata a supporto della dichiarazione fraudolenta di elementi passivi fittizi, a consentire di inquadrare la relativa condotta nella fattispecie di cui al più volte richiamato D.Lgs., art. 2.

Quanto poi all'ulteriore argomentazione seguita dal Tribunale, riferita al mancato superamento della soglia di punibilità, la stessa non può essere condivisa, in quanto la ragione della incriminazione della condotta sopra evidenziata risiede non già in entità numeriche quanto nella intrinseca, maggiore pericolosità della condotta, proprio a causa del particolare valore probatorio, sul piano tributario, dello strumento documentale utilizzato per porla in essere: pericolosità che giustifica la mancata fissazione di specifiche soglie di evasione.

In aggiunta a tali osservazioni va detto che l'ipotesi delittuosa prevista dal menzionato art. 3 ("Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici") si distingue anche sotto il profilo oggettivo dalla fattispecie contemplata nell'art. 2 in quanto gli elementi costitutivi che la caratterizzano sono costituiti dalla "falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie" e del fatto di avvalersi "di mezzi fraudolenti idonei a ostacolarne l'accertamento", ne consegue che la fattispecie di cui all'art. 3 prescinde dall'uso di false fatturazioni o documentazione equipollente, come si deduce dalla c.d. "clausola di riserva" contenuta nell'incipit della norma ("fuori dei casi previsti dall'art. 2"), ed è configurabile esclusivamente nei confronti dei soggetti obbligati a tenere le scritture contabili. Al contrario, il reato di cui all'art. 2 può essere commesso da qualsiasi soggetto obbligato alle dichiarazioni dei redditi o IVA. Ai sensi dell'art. 2, comma 2, infatti, il reato "si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti....sono detenuti a fine di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria".

Pertanto, la fattispecie della dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici di cui al D.Lgs., art. 3 è residuale rispetto a quella dell'uso di una falsa fatturazione o documentazione rilevante ai fini tributati ed è configurabile solo nei confronti di determinate categorie di contribuenti, oltre ad essere subordinata ad una soglia dell'imposta evasa e degli elementi attivi sottratti all'imposizione che ne determinano la configurabilità.

A maggior ragione la tesi alternativa proposta dal Tribunale di un possibile inquadramento della fattispecie nello schema delineato dal D.Lgs., art. 4 in parola ("Dichiarazione infedele") non può essere condivisa, in quanto tale fattispecie si colloca in una posizione ancora più residuale rispetto agli artt. 2 e 3, dato che gli elementi costitutivi sono rappresentati dall'omessa dichiarazione di elementi attivi o dalla "mera" indicazione di elementi passivi fittizi. In quest'ultimo caso risalta ancora meglio la minore offensività per l'amministrazione tributaria di detta ipotesi delittuosa, di indubbio più agevole accertamento rispetto a quelle delle dichiarazioni fraudolente: il che giustifica, ai fini dell'assoggettamento a sanzione penale, la necessità del superamento di una soglia tra imposta evasa e redditi sottratti all'imposizione maggiore di quella prevista dall'art. 3.

In nessun caso, pertanto, la dichiarazione fraudolenta mediante l'uso di fatture materialmente false o altra documentazione contabile di analoga efficacia probatoria materialmente falsa può farsi rientrare nella diversa ipotesi della dichiarazione infedele, pena la manifesta illogicità del sistema sanzionatorio penale in materia tributaria.

L'ordinanza impugnata deve essere, pertanto, annullata con rinvio per un nuovo esame che tenga conto degli enunciati principi di diritto.

P.Q.M.

Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Napoli.

 

Avv. Simone Fazzari 

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Transazione fiscale: il ruolo dell’Amministrazione finanziaria

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Avv. Simone Fazzari 

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A distanza di sei anni dall’introduzione dell’istituto della ‘Transazione fiscale’ a mezzo dell’art. 182-terL.F., ancora permangono dubbi sulla sua legittimità costituzionale, legati per lo più all’esistenza del principio ricondotto all’art. 53 cost., dell’ ‘indisponibilità del credito tributario’, che difficilmente sembrerebbe conciliarsi con lo schema della ‘transazione’ sul quale appare prima facie interamente costruito l’istituto.

Pur non avendo fin’ora fatto registrare sul campo un’estesa applicazione, nel prossimo futuro si può ipotizzare un suo maggiore utilizzo a causa della profonda crisi economica in atto; pertanto, potrebbe assumere valenza non solo didattica, un’indagine volta ad individuare eventuali contrasti tra la nuova figura ed i principi supremi dell’ordinamento.

Escludendo in partenza – anche contro qualche diverso parere – che il contrasto derivi dalla stessa rinuncia all’entrata fiscale disposta comunque con legge ordinaria (al pari, d’altronde, di quanto è avvenuto per anni con i condoni fiscali), l’esame va condotto sui criteri di applicazione dell’istituto, poiché è nella interpretazione del ruolo che il legislatore ha inteso attribuire alla P.A., che può insidiarsi il rischio di incostituzionalità.

Più in particolare il momento topico è rappresentato dalla formazione della volontà dell’amministrazione finanziaria, chiamata a dare o negare il consenso alla proposta ‘transattiva’ del privato, perché se si ritiene di ricondurre tale processo decisionale nell’ambito della ordinaria discrezionalità amministrativa, si rischia di riconoscere del ‘potere dispositivo’ sul credito tributario non più soltanto al legislatore, ma anche alla stessa amministrazione finanziaria, il che potrebbe far sorgere sospetti di incostituzionalità dell’istituto sotto vari profili. Questa, infatti, di fronte alla proposta del privato, verrebbe a godere di una libertà decisionale nella quale, come accade in tutte le scelte afferenti la gestione della cosa pubblica, sarebbe guidata, pur nel rispetto dello scopo perseguito dalla legge, solo dal risultato di proprie autonome valutazioni.

Non v’è dubbio che vada proprio in questa direzione l’interpretazione data dalla Direzione Centrale dell’Agenzia delle Entrate nella circolare 18 aprile 2008, n. 40 nella quale si esortano le agenzie territoriali a tener conto nelle decisioni concrete, degli “obiettivi sottesi alla riforma organica delle procedure concorsuali e, di conseguenza, all’istituto della transazione fiscale” (cfr. sub par. 5.5) ed a valutare la proposta del privato anche alla luce“degli altri interessi coinvolti nella gestione della crisi, quali, ad esempio, la difesa dell’occupazione, la continuità dell’attività produttiva, la complessiva esposizione debitoria dell’impresa, oltre alla sua generale situazione finanziaria e patrimoniale (ad esempio, la tipologia dell’attività svolta, le diverse componenti positive di bilancio, la consistenza immobiliare e la presenza di eventuali garanzie)”.

Ma è davvero possibile – bisogna chiedersi – che la decisione finale sulla disposizione del credito tributario, possa essere assunta caso per caso dalla P.A., sulla base di proprie autonome valutazioni su aspetti specifici del singolo caso e, per giunta, tanto complesse e delicate? O non risulta forse eccessivo legare l’applicazione concreta dell’Istituto e, quindi, la decisione sulla rinuncia al credito tributario, che già in astratto suscita in qualcuno qualche sospetto di costituzionalità, ai convincimenti dei vari dirigenti degli uffici tributari?

La prima riserva sulla legittimità di tale impostazione, deriva dalla considerazione che in questo modo certamente non verrà mai rispettato il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, giacché risulta difficile anche solo ipotizzare che in tutti gli uffici dislocati lungo l’intero territorio nazionale, possano essere usati gli stessi parametri di valutazione. Non solo, ma la peculiarità di ciascuna crisi d’impresa, specialmente alla luce dei numerosi aspetti che secondo la circolare devono essere presi in esame, impedirebbe anche la stessa verifica del rispetto della parità di trattamento. Il privato, allora, sarebbe costretto ad abbandonarsi all’insindacabile giudizio dell’Ufficio, la cui decisione risulterebbe incensurabile proprio sotto uno degli aspetti maggiormente sintomatici dell’eccesso di potere, ovvero quello della ‘disparità di trattamento’.

Inoltre, un’applicazione dell’Istituto rimessa in così larga parte alle determinazioni della P.A., difficilmente potrebbe essere conciliata con la riserva di legge che notoriamente regola la materia tributaria, con la conseguenza che i sospetti di incostituzionalità, a questo punto, potrebbero non essere superati.

Di fronte a tali dubbi, allora, si potrebbe tentare una differente lettura della norma, che ci permetta di scongiurare i rischi prospettati, cercando un sistema attuativo dell’Istituto che, nel rispetto innanzitutto del principio della riserva di legge, assegni un ruolo predominante a quella che risulta essere la volontà del legislatore, così come positivizzata nella lettera dell’art. 182-ter.

Questo articolo, in effetti, non sembra che attribuisca particolari poteri decisionali all’amministrazione finanziaria, in quanto non indica i criteri guida per una decisione potenzialmente rimessa alla discrezionalità della P.A., ma contiene scelte che sembrano già compiutamente adottate dallo stesso legislatore e che non abbisognano di ulteriori processi valutativi sui singoli casi concreti.

Il contenuto dell’articolo, in altre parole, già consentirebbe da solo di verificare se una determinata proposta transattiva possa o meno essere accolta, essendo in esso espressamente previsto che il trattamento riservato al credito tributario, nel caso in cui sia assistito da privilegio, non debba essere inferiore, quanto a percentuale, tempi di pagamento e garanzie, a quello previsto per i crediti “che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica ed interesse economici omogenei a quelli delle agenzie e degli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie” e che, nel caso di credito chirografario, “il trattamento non può essere differenziato rispetto a quello degli altri creditori chirografari ovvero, nel caso di suddivisioni in classi, dei creditori rispetto ai quali è previsto un trattamento più favorevole”.

In questa prospettiva, l’amministrazione finanziaria sarebbe chiamata a dare l’assenso alla proposta transattiva, dopo aver semplicemente verificato la sussistenza delle condizioni indicate direttamente dal legislatore. In questo modo, essa verrebbe a svolgere un compito che non sarebbe più di scelta discrezionale, ma di puro accertamento tecnico, con tutte le conseguenze in ordine alla impugnabilità delle sue decisioni, non più coperte dalla insindacabilità delle decisioni discrezionali, ma passibili di censure sotto il profilo dell’errore o travisamento dei fatti, con apprezzabile estensione delle garanzie di tutela del cittadino.

Il voto espresso dalla P.A., apparirebbe così, del tutto svincolato da valutazioni attinenti al merito della proposta, le quali rimarrebbero affidate esclusivamente agli altri creditori. Questo sistema, peraltro, presenterebbe il vantaggio di riservare la decisione sul sostegno dell’impresa in difficoltà, ai creditori privati, ovvero agli stessi operatori del mercato, che, grazie ai rapporti economici e commerciali, meglio conoscono, rispetto ad una pubblica amministrazione spesso così aliena, l’effettiva situazione dell’azienda in crisi, le sue reali potenzialità e le prospettive di superamento delle difficoltà finanziarie.

La norma, infatti, evidenzierebbe l’intento del legislatore di ancorare le sorti del credito tributario a quelle degli altri crediti e ciò non solo per la scelta di abdicare in favore dei privati, alla decisione sulla meritevolezza della proposta, ma anche perché le condizioni di trattamento del credito tributario, vengono fissate con riferimento alle offerte formulate per i crediti privati. Questa linea legislativa, d’altronde, sicuramente si concilia con la tendenza, di ormai lungo corso, ad eliminare le posizioni di privilegio un tempo godute dal ‘pubblico’ ai danni del ‘privato’ e non più sostenibili a causa delle mutate condizioni socio-economiche.

Ulteriore corollario della impostazione qui prospettata, sarebbe quella di ritenere che al privato sia consentita la presentazione della proposta di transazione fiscale, solo nell’ambito di una più ampia domanda di concordato preventivo, risolvendo così un quesito sorto sin dalla prima lettura della norma e mai definitivamente sventato. D’altra parte tale deduzione appare inevitabile già dalla semplice lettura della norma, nella quale l’assenso alla proposta transattiva, come già detto, viene subordinato a delle condizioni che sono espresse non già in maniera assoluta, ma che risultano, caso per caso, da un raffronto con il trattamento previsto per gli altri crediti, mancando i quali, sarebbe evidentemente inibita qualunque verifica sul rispetto delle condizioni medesime. Questa opinione, d’altronde, trova più che una conferma nella lettera dell’art. 182-ter, ove in principio, si afferma che il debitore può avanzare la proposta di transazione fiscale “Con il piano di cui all’articolo 160”, ovvero con la proposta di concordato preventivo.

L’impressione che il legislatore abbia voluto escludere ogni potere decisionale della P.A. nella applicazione dell’Istituto, è ulteriormente rafforzata dal fatto che, a ben vedere, non solo le condizioni per l’assenso sembrano già tutte compiutamente specificate nella norma, ma anche i dati tecnici su cui esse si basano, presentano una loro chiara determinatezza. Infatti, lì dove non è la legge a fornire la loro esatta configurazione (come avviene nel caso dei privilegi), i dati a cui il legislatore fa riferimento nel fissare le condizioni per l’assenso alla proposta (ovvero l’omogeneità di posizioni giuridiche e di interessi economici tra il credito tributario e gli altri crediti, nonché la loro suddivisione in classi), non necessitano di valutazioni tecniche della P.A., poiché sono elementi che già risultano dalla proposta del privato e sui quali, peraltro, al momento dell’intervento dell’amministrazione, vi è già stata una verifica da parte dell’autorità giudiziaria, chiamata alla valutazione preventiva sulla loro correttezza ai fini della stessa ammissione della domanda di concordato preventivo (cfr. art. 163, comma 1).

Di conseguenza, sembrerebbe potersi escludere ogni compito decisionale dell’amministrazione finanziaria che richieda esercizio non solo della discrezionalità propriamente amministrativa, ma che sia esplicazione anche della discrezionalità tecnica, la quale sarebbe richiesta nella valutazione dei dati tecnici che, come visto, il legislatore ha invece riservato all’autorità giudiziaria. In ciò, peraltro, si potrebbe ravvisare una certa evoluzione rispetto alla abrogata figura della ‘Transazione dei tributi iscritti a ruolo’, di cui all’art. 3, comma 3, D.L. 448/1998, la cui applicazione concreta sembrava proprio richiedere un compito della P.A. che necessitasse l’esercizio della sua discrezionalità tecnica. In questo caso, infatti, la decisione sull’accoglimento della proposta, era legata alla valutazione comparativa di due dati tecnici, ovvero quelli della ‘economicità e proficuità’, rispettivamente, della proposta di transazione e della riscossione coattiva. In un’ottica di tutela del cittadino, l’attuale sottrazione alla P.A. (anche) di compiti di valutazione tecnica, potrebbe essere senz’altro guardata con favore alla luce dell’orientamento giurisprudenziale, ancora maggioritario, che continua a negare la sindacabilità giurisdizionale delle scelte compiute dalla P.A. nell’ambito della discrezionalità tecnica.

In conclusione, si può affermare che la lettura sin qui proposta dell’Istituto, potrebbe avere il pregio di far dipendere la decisione sulla disposizione del credito tributario, non solo nella sua astratta previsione normativa, ma anche nella fase della concreta attuazione, esclusivamente dalla volontà del legislatore, recuperando così il pieno rispetto del principio di riserva di legge che regola la materia, con indubbi apprezzabili riflessi sul rispetto del principio costituzionale di uguaglianza.

Inoltre, essa offrirebbe la possibilità di comporre il contrasto tra la figura della transazione e il carattere indisponibile del credito tributario, giacché dalla impostazione qui prospettata tale carattere verrebbe ad assumere un valore relativo che potrebbe sintetizzarsi nella (ri)definizione di ‘INDISPONIBILITÀ DEL CREDITO TRIBUTARIO DA PARTE DELLA P.A.’.

* * * * *

L’indagine potrebbe, ancora, essere estesa all’esame di casi particolari, come, ad esempio, quello di un credito tributario dall’entità sproporzionatamente superiore rispetto alla somma degli altri crediti, per valutare se, in questo o in altri casi simili, dalla interpretazione proposta dell’Istituto, possano discendere conseguenze in qualche modo inaccettabili.

Sarebbe anche interessante, in una chiave prevalentemente didattica, un’analisi comparativa della Transazione fiscale, con altre figure transattive che il nostro ordinamento giuridico conosce, come quelle dell’Accertamento con adesione e della Conciliazione giudiziale di cui al D.Lgs. 218/97, al fine di valutare la compatibilità della complessiva impostazione in questa sede prescelta, con l’esistenza di questi altri istituti, avendo soprattutto riguardo al ruolo della Agenzia delle entrate.

 

Avv. Simone Fazzari

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Accertamento fiscale su immobile a uso promiscuo? Occorre autorizzazione del PM

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La Suprema Corte, con la sentenza n. 4140/13 in tema di "limiti" concernente l’autorizzazione rilasciata dalla Procura della Repubblica per l’accesso ai locali riconducibili al contribuente, art. 52, D.P.R. 633/73, è approdata alla conclusione che"l’esistenza di porte di comunicazione tra locali adibiti ad abitazione e quelli della sede dell’impresa" non legittima i verificatori ad “estendere” discrezionalmente la portata dell’indagine fiscale in loco, in quanto il "controllo" ai suddetti luoghi attigui deve necessariamente essere autorizzato dalle Autorità competenti.

Il thema decidendum del processo

Il contenzioso in parola traeva origine da una verifica fiscale, operata dall’Agenzia delle Entrata di Bari, avente ad oggetto la rettifica della dichiarazione Iva – per l’anno di imposta 1996 – basata su un’indebita detrazione di imposta conseguente alla registrazione di fatture di acquisto per operazioni inesistenti.

Il ricorso presentato dal contribuente veniva accolto sia dalla C.T.P. che dalla C.T.R. sulla preliminare ed assorbente considerazione che l’accesso ai locali (riconducibili direttamente al contribuente/imprenditore) non era stato autorizzato dal Procuratore della Repubblica: per effetto di questa carenza procedimentale (peraltro insanabile) afferente il modus operandidell’attività di indagine, nonché dell’acquisizione degli elementi raccolti, l’avviso di accertamento era da ritenere invalido ed insuscettibile di produrre effetti.

La decisione della Corte di Cassazione

Ebbene, come anticipato in precedenza, l’indagine tributaria in parola (rectius: accesso) era stata promossa sia nei locali “aziendali”, che presso l’abitazione del medesimo imprenditore: detti luoghi erano distinti e “formalmente” indipendenti, ma tuttavia adiacenti, attraverso una porta di comunicazione.

Dunque, laddove siano presenti particolari “forme” di comunicazione tra l’area “imprenditoriale” e quella “familiare”, è necessaria l’autorizzazione all’accesso da parte del Procuratore della Repubblica a mente dell’art. 52, comma 1, D.P.R. 633/72: la suddetta norma sancisce infatti che “gli Uffici […] possono disporre l’accesso […] nei locali destinati all’esercizio d’attività commerciale […] per procedere ad ispezioni documentali. […] Tuttavia per accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione, è necessaria anche dell’autorizzazione del procuratore della Repubblica”.

Proprio sugli effetti della mancata osservanza di tale precetto normativo, la Suprema Corte aveva in passato dichiarato l’illegittimità delle verifiche/accertamenti, nonché l’invalidità dei documenti acquisiti nelle ipotesi di omessa autorizzazione all’accesso, in quanto necessaria al fine di “tutelare l’inviolabilità del domicilio privato, e quindi, indirettamente, lo spazio di libertà del contribuente”.

In altre parole, anche all’interno delle garanzie difensive accordate nel procedimento tributario, opera il principio della c.d. inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite durante un’ispezione fiscale, in linea con l’art. 24 Cost..

Una lettura alla pronuncia n. 4498/13 della Corte di Cassazione

A ben vedere, i giudici di Piazza Cavour (con la pronuncia in esame) hanno ribadito che, al fine di assicurare la validità degli accessi effettuati presso i luoghi riferiti al contribuente (nonché dei dati raccolti all’interno della medesima indagine) è doverosa l’osservanza dei limiti fissati dalla speculare autorizzazione rilasciata dalle Autorità competenti.

Con la Sentenza 22/02/2013 n°4498 la Suprema Corte ha stabilito infatti che la Guardia di Finanza non può estendere la verifica alla casa del convivente del contribuente, laddove la nota autorizzazione aveva limitato l’accesso esclusivamente all’abitazione di quest’ultimo.

In breve, secondo l’orientamento adottato dai giudici, l’autorizzazione rilasciata dalla Procura della Repubblica possiede una natura di c.d. assoluta tassatività, la quale deve essere interpretata come “filtro preventivo” necessario rispetto ad un atto pubblico particolarmente invasivo nei confronti di un bene costituzionalmente riconosciuto ed inviolabile come il domicilio.

Da tale premessa, la Corte di Cassazione è giunta all’enunciazione del seguente principio a tutela del contribuente: “in tema di accessi, ispezioni e verifiche da parte degli uffici finanziari dello Stato (o della Guardia di Finanza) […] l’autorizzazione all’accesso data dal Procuratore della Repubblica, ai sensi dell’art. 52 del D.P.R. 633/72, legittima solo lo specifico accesso in tal senso autorizzato”.

 

Avv. Simone Fazzari 

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