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Le rondini di Marghera

Post n°28 pubblicato il 13 Marzo 2012 da stefano.caldiron
 

 

Quella primavera andavo sempre a guardare le rondini.

Ci andavo dopo mangiato, avevo venti o trenta minuti nella pausa del lavoro. Ero da solo, non avevo stretto ancora legami con nessuno, e allora prendevo una stradina, subito vicino al grande piazzale di cemento, che mi portava in un lembo di campagna ancora intatto, miracolosamente. Trovavo filari di altissimi pioppi, salici, ontani, e un grande prato in fondo al quale, ma distante, si scorgevano nuovi capannoni, e vecchie case.

Lì osservavo le rondini.  Erano un gruppo, saranno state cinque o sei.

Volavano spesso basse, a pochi metri dal suolo, con tratti di volo radente.  Così facendo, dividevano lo spazio coi loro lontani cugini, i rondoni, che garrivano altissimi, nell’azzurro chiaro.

Ogni rondine si sceglie un percorso, molto ampio, e lo ripete, innumerevoli volte. Io ne sceglievo una, ne individuavo esattamente il tragitto, quindi mi avvicinavo piano, e fermandomi a qualche metro attendevo il nuovo passaggio. La osservavo avvicinarsi, non intimidita dalla mia discreta presenza; riuscivo allora a vedere, vicino, il guizzo emozionante e imprevisto per cogliere la preda; oppure, il puntare dritto e deciso verso un punto; ancora, gli eleganti movimenti delle ali, della coda, il suo stringersi e aprirsi; tutte le imprevedibili variazioni attorno al percorso di base, l’imprendibile e spirituale indaco del dorso.

Man mano che frequentavo il prato, mi avvicinavo sempre più; e avevo la sensazione precisa e certa di stabilire, lentamente, un rapporto con tutte loro. Anzi, seguendo le mie sensazioni, posso dire che, dopo un breve periodo di studio, di alcuni giorni, mi avevano accettato, e catalogato come non pericoloso: e poi, col tempo, questo rapporto si trasformava in amicizia. Sapevo che mi conoscevano, e il mio andare da loro era visto sempre più come una visita.

Alla fine, potevo mettermi in posizione adiacente al percorso: il magico essere mi passava vicinissimo, per nulla disturbato dalla mia presenza, che era comunque sempre piena di rispetto e di amore, sempre discreta. Un giorno volli mettermi sul percorso stesso, per una sola volta: accadde che deviò, appena quanto bastava per evitarmi, passandomi a una spanna di distanza.

Il prato cresceva nella primavera, e arrivò piena la gloria dell’estate. Un giorno, da un roveto, colsi le more più grosse e gustose che non abbia mai trovato in vita mia.

Ebbi modo allora di ricontare il gruppo. Erano nove.

L’estate passava; alla fine di agosto l’uomo e il progresso cominciarono a scavare, vicino alla strada, nuove fondamenta, e le rondini abbandonarono il campo.

Ma io sapevo che c’erano: ogni tanto le vedevo passare ancora, in lontananza.

Poi venne l’autunno. Un altro inverno passò. Arrivò marzo, i primi segni di quella che sarebbe stata un’altra primavera.  Nel frattempo avevo conosciuto un collega, Gianni, come me amante della vita e della natura.

Io pensavo alle mie rondini. Ecco, pensavo, torneranno, mi saluteranno. Ne parlavo a Gianni, gli dicevo che tornando sarebbero passate a salutarmi. E così avvenne. Una mattina prestissimo di un giorno ai primi di aprile, arrivando in macchina, costeggiavo quello che era stato il campo, di cui vicino alla strada era rimasto un pezzo ormai piccolo. All’improvviso mi passarono davanti, sfiorando il parabrezza. La stessa cosa poi avvenne ancora, sempre nello stesso punto, nei due giorni seguenti.

Ma non mi bastava. Dicevo a Gianni che mi conoscevano, che sapevano chi ero, che eravamo amici. Le vidi passare, sul grande parcheggio, e nel cortile interno della grande azienda, altre due o tre volte.

Passò il tempo. Tornò lo splendore di giugno. Il calore. Improvvisamente, venimmo a sapere che il nostro periodo di lavoro nella grande azienda era finito. Dicevo a Gianni che mi avrebbero salutato anche alla partenza.

Arrivò l’ultimo giorno di lavoro. Il pomeriggio.

Gianni ed io andammo a bere il caffè. Per andare al bar della mensa dovevamo uscire dall’edificio principale e attraversare dieci metri di spazio aperto. Così facemmo.

C’era qualcosa nell’aria. Stavamo attraversando quello spazio, dove era un piccolissimo prato.  Istintivamente mi girai. «Guarda!» ebbi il tempo di dire. Due rondini si dirigevano verso di noi. Riuscii a indicarle mentre passavano sopra le nostre teste. Esattamente sopra di noi, prima l’una poi l’altra, emisero quel verso, simile al cinguettio dei passeri, poi scomparvero.

 

 

 

 

 
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