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L’Odissea è un’invenzione moderna.

Post n°193 pubblicato il 17 Gennaio 2010 da Terpetrus
Foto di Terpetrus

Intermezzo letterario: parliamo dell’Odissea.

Oggi dire Odissea è sinonimo di avventura favolosa, di vicenda complessa in vari luoghi, incontrando diversi personaggi fuori del comune.

Odissea è qualsiasi viaggio in paesi favolosi, dai confini dell’oceano alle montagne della luna.

Da bambini leggevamo le riduzioni dei miti greci e immaginavamo il poema omerico come una sequela di vicende favolose a base di giganti, maghi, divinità, terre incantate.

Magari avremo anche visto una delle trasposizioni cinematografiche o televisive dell’Odissea, di cui la migliore rimane sempre lo sceneggiato italiano con protagonisti lo jugoslavo Bekim Femiuh e la grande Irene Papas, nei ruoli di Ulisse e Penelope.

Credo che sia stato guardando quello sceneggiato da bambino, che ho cominciato a fare sogni di omoni barbuti, virili e seminudi che vivevano favolose avventure in epoche remote, primi segni di una omosessualità “ursina” che avrebbe dovuto manifestarsi e raggiungere la piena autoconsapevolezza e maturità solo negli anni Novanta, con la nascita del movimento degli Orsi Italiani.

Fu appunto negli anni Novanta che mi decisi a leggere l’Odissea per intero, prendendola in prestito dalla biblioteca comunale.

Rimasi sconcertato e sorpreso dalla lettura.

Tutto il viaggio attraverso mari, isole e coste favolose si riduceva ai primi due o tre capitoli, mentre la massima parte della vicenda riguardava il ritorno di Ulisse a Itaca e le sue fatiche per riconquistare il suo posto di re dell’isola, il talamo nuziale e rimettere al sicuro la sua famiglia e il suo regno dalle angerìe degli usurpatori, i Proci.

L’Odissea, in realtà, non è la storia di un uomo che esplora i mari, ma semplicemente la storia di un uomo che cerca di tornare a casa e riconquistare il suo posto nella vita.

Le avventure di Ulisse con mostri favolosi come Polifemo, Scilla e Cariddi, le sue avventure amorose con Circe e Calipso, i suoi incontri con popoli mitici come i Lotofagi, i Lestrigoni e i Feaci, la sua ascesa nel mondo degli Dei con l’arrivo nella città galleggiante di Eolo, il Dio dei Venti, o la discesa negli Inferi per parlare con gli spiriti di amici e parenti defunti, tutte queste incredibili vicende che tanto hanno suggestionato milioni e milioni di persone per tante generazioni, che hanno ispirato schiere di poeti occidentali, dall’antichità fino ai nostri giorni, fino alle trasposizioni fantascientifiche contemporanee, in cui Ulisse diventa un astronauta in viaggio fra pianeti favolosi, tutte queste avventure dicevo, sono solo il preludio fantastico di una vicenda che non ha alcun senso fantastico, ma profondamente realista, e per niente avventuroso: il ritorno di un soldato a casa sua, e lo scoprire di dover combattere un’altra guerra: quella della riconquista di casa propria.

Una situazione che probabilmente colpiva molti reduci dalle guerre antiche, che tornavano a casa e scoprivano l’usurpatore in casa propria. A quel tempo ognuno doveva tutelarsi da solo o quasi. Senz’altro era molto più facile a quel tempo che un reduce venisse creduto morto e tornasse a sorpresa dopo molti anni, trovando magari la moglie, la famiglia e le proprietà in mano ad un altro, con ovvi problemi conseguenti.

In origine il senso dell’Odissea doveva essere stato questo: così come l’Iliade mostra la tragedia della guerra e la sua potenza distruttiva, così l’Odissea parla delle conseguenze della guerra stessa, gli strascichi che si porta negli anni.

E infatti la maggior parte del poema è decidato a questo, non a favolose avventure.

Anche perché nell’antichità più lontana, il viaggio non era considerato come qualcosa di positivo come adesso. Non c’era ancora il senso dell’esplorazione, del travalicare i limiti della conoscenza umana. Non era ancora un valore acquisito, perché la civiltà occidentale, con il suo atteggiamento aggressivo nei confronti dell’universo, non era ancora nata.

I valori del tempo riguardavano di più invece il mantenimento dello status quo, della prosperità e della progenie numerosa, in pratica i valori della casa, della famiglia e di una vita lunga e felice.

Quindi le favolose avventure dell’inizio dell’Odissea sono di fatto solo degli ostacoli frapposti dal capriccioso destino, identificato con il volere degli Dei, al ritorno di Ulisse.

È il ritorno ad Itaca il senso del poema, e non il viaggio.

Non per niente poi c’è stato chi, nell’antichità tardo-classica, ha interpretato l’Odissea secondo i simbolismi dell’Orfismo, la religione misterica ellenica che predicava la reincarnazione e la finale liberazione dalla catena delle rinascite in corpi umani o animali.

Secondo questa interpretazione, Ulisse rappresenta l’anima caduta nel mondo della materia. Per l’Orfismo, tutte le anime umane e animali erano daimones nel Regno degli Dei, oltre il cielo stellato. Tali daimones commisero una colpa non ben definita, e precipitarono tutti quanti nel mondo fisico, dove rimasero condannati a reincarnarsi all’infinito, subendo le conseguenze ogni volta delle azioni nella vita precedente.

Solo attraverso il culto misterico insegnato da Orfeo, che aveva potuto contemplare i misteri dell’Ade, il regno dell’oltretomba, quando tentò di riportare alla vita la sposa defunta Euridice, è possibile liberarsi della catena delle rinascite e tornare nel Regno degli Dei, dove ritrovare l’eterna beatitudine.

Così anche la storia di Ulisse sarebbe da identificare con la storia dell’anima, e così Itaca sarebbe in realtà la patria ultraterrena dell’anima, mentre la guerra di Troia e le avventure in giro per i mari, sarebbero le lunghe reincarnazioni e traversie ultraterrene fra una vita terrena e l’altra che l’anima deve attraversare, per tornare nel suo regno eterno, che deve riconquistare con fatica.

In pratica, l’Odissea così come viene descritta e interpretata adesso, non è un poema omerica, un’invenzione moderna.

È stato lo spirito occidentale post-classico, da Dante in poi, a far vedere l’Odissea come un racconto avventuroso, a tal punto che Dante ne stravolge il personaggio, pensando che in vecchiaia Ulisse possa essere stato preso dal desiderio di viaggiare, desiderio che in realtà non ha mai avuto, per andare ad inabissarsi all’Antartide presso il monte del Purgatorio.

Il fin troppo noto verso di Dante “fatti non foste per vivere come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza” è il segno di tale stravolgimento, è il segno dei tempi nuovi, dell’uomo faustiano, come lo chiamava Oswald Spengler, l’era delle cattedrali gotiche che si avventavano come missili verso il cielo, come a volerlo conquistare, l’era di Marco Polo e poi di tutti i grandi esploratori, che credevano di potersi identificare in Ulisse, come se egli fosse stato il capostipite di tutti loro.

Ho parlato di tutto questo, per far capire quanto grande sia la forza del fraintendimento, e di come addirittura un’intera cultura, o un filone culturale, possa fondarsi su di un fraintendimento.

E conseguentemente, ho scritto questo breve articolo semplicemente per far capire come non bisogna dare assolutamente niente di scontato, neanche riguardo le cose che si crede di conoscere bene. Sono in genere proprio quelle che ci danno le maggiori sorprese, proprio perché abbiamo sempre creduto di conoscerle fin da piccoli.

 

 
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