Creato da uomosenzaqualita il 04/11/2012

L'uomo senza qualità

Un comune caso di personalità multipla

 

« Tempus fugitPerchè io »

Camera oscura - I

Post n°27 pubblicato il 19 Ottobre 2013 da uomosenzaqualita

 

 

              Lo strappo fu deciso, da un lato della foto restò una riga trasversale bianca piuttosto frastagliata, con cime e gole come un profilo di montagne innevate, la stessa forma, a rovescio, che si formò sull'altra, più slanciata (una lunga lama contorta e scheggiata come un'arma di tortura), tuttavia il risultato non sembrò sufficiente. Quella foto in cornice (da tempo là, sul piano della scrivania), l'uomo che tornava l'aveva afferrata in un attimo di rabbia. Infatti non gli era successo niente, niente di mai successo, nessun avviso, nessun particolare che non fosse un particolare snaturato che si ripeteva ormai da anni: un ritorno ad un'ora indefinita della sera o della notte (perché, con il tempo, l'ora era diventata sia la penombra che l'oscurità). L'uomo aveva persino riso tra sé nell'atto di girare la chiave. Ripensava a quel grosso cane, disteso sul sedile posteriore di un'auto, che aveva abbaiato ad un ciclista (fermo lì vicino in una sosta nel traffico) con estrema lentezza, come se gli stesse parlando; e dalla mandibola spalancata come lo sportello di una stufa doveva essergli nata certamente una parola enorme, mai ascoltata, forse addirittura insonora come una bolla di sapone (tant'è che il ciclista non si era neppure voltato). Solo questo, ed era durato un attimo. La chiave risultò infatti quella giusta del mazzo, la porta tirata solo nello scatto, un intermezzo. Non così l'attimo successivo, che ora sospendeva interminabile (o anche interrotto), una folata che si sperde superata la soglia (infatti la porta caracollò dopo il passaggio come una fenditura dopo il salto). L'uomo che tornava quella sera o quella notte si ritrovò poi seduto al computer con quel paio d'ali lisce e quasi satinate nella mano, e la mano abbandonata sul righello, sbiancata (quella luce viva in vetta al tavolo inclinato), di una amarezza disperante. Da quel momento restò lungamente a fissare l'immobilità di un gigantesco fotogramma dai bordi dissolti (con la coscienza di doverlo strappare assolutamente in qualche modo): il tavolo bianco rifulgeva, il monitor spento (in posizione del tutto casuale) mimava le lancette dell'orologio fermo da tempo, nella vaschetta (laddove l'acme del cono luminoso sembrava fondersi in pura materia) le puntine smaltate, le poche matite e una biglia verde, screziata di nero come un occhio di gatto, erano sovraesposte e sfocavano in un riflesso abbagliante. Oscurità dintorno, il fitto di un sottobosco, una pineta forse.

I-continua

 

 
 
 
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