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Storia di Jenny

Questa è la storia di Jenny. E del Senio, del Sillaro e del Santerno. Questi ultimi sono tre dei fiumi che sono esondati tra Conselice e Castel Bolognese lo scorso maggio, i cui argini si sono rotti distruggendo e allagando il territorio circostante. «A Castello non sono più di dieci le case che si sono salvate dall’alluvione, ci vorranno anni prima che si ricostruisca tutto – racconta Gabriele, classe 1996, una laurea in belle arti alle spalle, oggi tra i volontari che stanno ripulendo la biblioteca comunale di Castel Bolognese -. È stato tutto molto veloce. L’acqua è arrivata verso mezzanotte. Nell’arco di tre ore ha invaso tutto. Poi, per due giorni, il fiume è fluito in mezzo alle strade e ha travolto il centro storico distruggendolo. Ha rotto le vetrine, si è insinuato nei magazzini dei negozi e nelle cantine medievali al di sotto del Paese».

Lo scenario sembra quello di un film. Ci sono furgoni della Protezione Civile che vanno in giro con i megafoni: esortano a stare in casa, a salire ai piani alti, a non uscire, per nessun motivo, dalle abitazioni. Abitazioni che per giorni sono state senza gas, uso dei bagni, ed elettricità e quindi prive della possibilità di cucinare cibi caldi, asciugare i vestiti fradici, ricaricare i telefoni per avvisare di star bene. Anche se il problema più grave è stat l’assenza di acqua potabile perché quella che è uscita dai rubinetti è stata acqua fangosa, contaminata a causa della pressione che ha danneggiato le tubature. Queste sono le immagini che per giorni sono passate ai telegiornali.

E sono le immagini che ha visto Jenny dal suo salotto di casa, a Torino che, con gelida cortesia, le hanno presentato la devastazione del Senio, del Sillaro e del Santerno.

«Un giorno, mentre ripulivo la biblioteca di Castello completamente sommersa dall’acqua, è arrivata una signora mai vista prima, con due grossi stivali e una scopa consumata in mano – racconta Gabriele -. Ho scoperto poi chiamarsi Jenny».

Jenny ha 57 anni, parla un italiano un po’ sgangherato, essendo giunta da poco in Italia, e nella vita pulisce le case delle persone.

«Quando è arrivata ha detto che aveva visto le immagini dell’alluvione e che le era venuto male qui, indicandosi il cuore. E che aveva deciso di partire da Torino perché lei questo sapeva fare nella vita: pulire. E sai cosa? – mi ha detto – qua c’è da pulire un’intera città. Per arrivare ci ha messo dodici ore, ha preso un treno fin dove ha potuto, poi alcuni autobus. In più, non sapeva usare Internet, per cui è arrivata grazie alle indicazioni della figlia al telefono che triangolava la sua posizione in base alla descrizione che lei le faceva dei luoghi e le spiegava dove andare».

«È stata un’eroina – conclude Gabriele – lo è stata per tutti coloro che in quei giorni l’hanno incontrata per le strade di Castel Bolognese». Così Jenny, che nella vita è solita pulire le case delle persone, con un paio di stivali in gomma e una scopa consumata è partita da Torino pronta a ripulire un’intera città e ha dimostrato, con ordinario eroismo, come spazzare via quella distanza che ancora esiste tra le persone.

Storie di ragazzi che hanno saputo e voluto rompere i pregiudizi

«C’è una cosa che ricorderò per sempre. Ero appena arrivato a Faenza, davanti ad una casa ricoperta di fango. Un uomo ha gridato. Serviva che qualcuno si calasse nella cantina per togliere delle mattonelle incastrate nel fango che ostruivano i lavori di sgombero. Mi sono offerto. Mi hanno calato in questa cantina buia, senza elettricità, avevamo solo i frontalini. Come ho appoggiato i piedi, sono sprofondato di quaranta centimetri nel fango – racconta Lorenzo, 27 anni, giunto da Monza, dopo aver letto l’appello d’aiuto postato da un’amica sui social -. È stato in quel momento lì, al buio, nel fango e senza aria che ho capito davvero quanta distruzione avesse portato l’alluvione. La cosa surreale è che già il giorno dopo sembrava la normalità: andare in una cantina piena di fango e pensare che sia normale, guardarla e stimare quanto tempo ci voglia per liberarla – continua – sembra normalità perché la tua normalità, in quel momento, è trovare e spalare il fango. Perché di oggetti non ne vengono trovati. Ironicamente, l’unico è stato un cassetto con dentro degli astucci vuoti, triste metonimia della sorte di chi si è visto la propria vita svuotata e portata via. Sono partito perché volevo capire quello che queste persone stavano provando, al di là delle immagini in televisione. Ogni volta che sono entrato in una cantina, ho pensato: e se questa fosse la mia? Ho immaginato di dover buttare tutte le mie cose, i ricordi infangati della mia famiglia. Per questo, nonostante quelle case non fossero la mia, è come se lo fossero state».

Lorenzo è giunto da lontano, ma c’è anche chi, la distruzione, l’ha vista scatenarsi nella propria città e non è stato a guardare. Questa è la storia di Davide, 19 anni, nato e cresciuto a Forlì. «In città l’acqua è salita fino a cinque metri d’altezza – esordisce -. Sui muri delle case ci sono ancora gli aloni di fango lasciati dall’acqua. Segni che, fluttuando, ricordano in maniera indelebile la tragedia appena consumatasi. Quando è finita l’allerta, il Comune ha invitato a formare dei gruppi di volontari per portare soccorsi ai quartieri più colpiti – racconta Davide -. Io ho fatto parte di un gruppo creatosi grazie ad una serata organizzata da un locale di Forlì proprio per questo scopo: far incontrare persone che volevano aiutare. La città ha chiamato, e noi ci siamo messi al servizio. Abbiamo spalato fango all’interno di case e cantine, raccolto dalle strade oggetti ormai irriconoscibili». Pausa. Poi riprende, perché qualcosa di bello, in tutto questo, è riuscito comunque a trovarlo. «C’è stata collaborazione da parte di tutti. C’erano persone che fino a qualche settimana prima non conoscevano neanche i propri vicini e che, nei giorni successivi all’alluvione, sono andati ad aiutarli. È bello vedere che nonostante la fatica e la disperazione, nonostante non ci si parli, ci si aiuta».

Come le loro, esistono tante altre storie di ragazzi che stanno aitando nella ricostruzione. Di loro si è parlato come degli angeli del fango, cercando forse un fil rouge con la cronaca del 1966, all’alluvione di Firenze. Ma forse sarebbe meglio vederli per quello che sono, senza tanta retorica: ragazzi sporchi di fango, le vesciche sulle mani, le spalle curve dopo ore di lavoro. Ma con la forza negli occhi di chi ha saputo rompere un pregiudizio d’inerzia generazionale, mettendosi finalmente in prima linea.

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