Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Novembre 2019

Quanto dolore

Post n°3191 pubblicato il 30 Novembre 2019 da namy0000
 

Giovanni Paolo II diceva che la nuova evangelizzazione non consiste in un “nuovo Vangelo”. La novità dell’azione evangelizzatrice riguarda lo stile, l’ardore il metodo, il linguaggio.

Ogni anno, con Nuovi Orizzonti, viviamo esperienze di primo annuncio fondate principalmente su una pastorale dell’incontro e dell’ascolto. Quelle che chiamiamo “missioni di strada e di spiaggia” sono settimane formative basate su un concreto annuncio evangelico nei luoghi di aggregazione, che cercano di creare un ponte tra il mondo e la Chiesa.

Le diverse metodologie pastorali non sono nate a tavolino, ma dall’esperienza diretta di Chiara Amirante, che negli anni ’90 andava in strada a evangelizzare da sola e che ha strutturato una proposta specifica di missione che ha fatto scuola in Italia e all’estero. Oggi abbiamo équipe di servizio che tutto l’anno vanno nelle scuole, nelle vie, nei centri commerciali, nei pub, nelle discoteche e proponiamo vere e proprie “scuole di evangelizzazione”, alternando catechesi, workshop, evangelizzazione in strada e tempo di rilettura.

Esistono le missioni di spiaggia, come quelle vissute a Riccione e Rimini, Gallipoli e Bari, Massa Marittima e all’Isola d’Elba, Marsala e Ragusa, Jesolo e Vasto. Ma anche quelle urbane, che hanno una fisionomia diversa. La prossima sarà dall’1 al 10 maggio 2020 a Roma e nel sito www.nuoviorizzonti.org si trovano le informazioni.

Abbiamo appena concluso un’esperienza fortissima nella Cittadella Cielo a Frosinone, con 200 giovani che hanno dedicato il loro tempo libero per partecipare alla missione con uno slogan scritto da Chiara: ‹‹Hai una vita sola. Vivila per qualcosa di grande!››. Alcuni di questi ragazzi hanno provato sulla propria pelle l’inferno delle dipendenze e ora vogliono essere missionari verso i propri coetanei, per testimoniare cosa Dio ha operato nelle loro vite, ma anche per metterli in guardia rispetto ai tanti veleni e inganni della società odierna.

Altri provengono da vite normali e sentono di non poter tenere per sé questo tesoro prezioso. Vivo queste esperienze ormai da anni e vi assicuro che non è facile mettersi in gioco per andare di notte in strada ad avvicinare giovani seduti su un muretto o fuori dalla discoteca. E non è semplice andare nelle scuole. Solo l’Amore e un autentico incontro con Cristo Risorto può dare la forza di metterci la faccia.

Dopo un tempo di formazione e preghiera, il sabato sera abbiamo vissuto “La Luce nella notte”. Si sceglie una chiesa dove ci sia davanti il passaggio di ragazzi che vanno nei vicini locali o giardinetti frequentati dai giovani; i missionari vanno a due a due in strada e invitano i giovani a entrare in chiesa, dove trovano un clima di preghiera accogliente e un percorso. I ragazzi scrivono a Gesù, in un biglietto, le loro richieste o i loro sentimenti e pescano poi un altro biglietto con una parola del Vangelo; al termine del tragitto gli si propone la Confessione.

Ogni volta assistiamo a miracoli inauditi. Anche questa volta più di 250 ragazzi sono entrati in chiesa e tutti hanno scritto il loro biglietto. Spesso sono scoppiati in pianto davanti all’Eucaristia, stupiti dalla precisa risposta della Parola di Dio pescata. Tanti si sono confessati dopo anni che non entravano in chiesa e hanno iniziato a seguire gli appuntamenti proposti durante la settimana di missione.

Ogni mattina siamo andati nelle scuole a incontrare i ragazzi, classe per classe, condividendo le storie e rispondendo alle loro domande, ma soprattutto raccogliendo tante lacrime e confidenze profonde. È incredibile il carico di dolore che c’è tra i ragazzi. Il disagio è aumentato a dismisura. Forse proprio per questo abbiamo trovato tanta accoglienza: è come se ci aspettassero da sempre, come se attendessero qualcuno che gli chiedesse davvero ‹‹come stai?››. Ovunque abbiamo vissuto momenti unici e diversi. In carcere e in ospedale si è riproposta “La Luce nella notte” in formule riadattate passando cella per cella o camera per camera. Quanto dolore raccolto, ma anche lacrime che lasciavano poi spazio a un sorriso di speranza e consolazione. Nelle strade, di notte, in particolare alla stazione ferroviaria, abbiamo vissuto l’esperienza che chiamiamo Angeli nella notte, dedicando tempo e ascolto ai fratelli che vivono in strada e rompendo così il muro dell’indifferenza. Spesso, grazie a questi incontri, alcuni giovani decidono di cambiare vita e di entrare in comunità. In altre vie più luccicanti, invece, sono nati dialoghi profondi tra vetrine e cocktail.

Alla proposta finale hanno partecipato 500 giovani in un weekend dedicato a loro, tra momenti di festa, divertimento, testimonianze, condivisioni. Tutto si è concluso con una giornata guidata da Chiara Amirante, che ha tenuto un incontro di Arte di Amare, il percorso di Spiritherapy da lei ideato, sul tema: “Hai una vita sola. Vivila per qualcosa di grande!”. Siamo certi che tanti giovani non saranno più gli stessi. Quando il Vangelo torna là dove è nato sprigiona maggiormente la sua forza. Gesù evangelizzava nelle case, nelle strade, lungo il lago di Tiberiade, incontrando le persone, ascoltandole e permettendo a loro di fare esperienza della misericordia del Padre (FC n. 47 del 24 novembre 2019)

 
 
 

"No!" all'intolleranza

‹‹Insieme diciamo basta a chi umilia i nostri figli››

L’Associazione “Mamme per la pelle”

‹‹È scioccante per loro sentirsi sgraditi o vittime di odio razziale››, dice la fondatrice Gabriella N.. ‹‹Abbiamo unito le forze. Purtroppo, però, non passa giorno che non si riceva una segnalazione››.

Il pallone scagliato in curva da Mario Balotelli lo scorso 3 novembre a Verona è bastato a far ripuntare i riflettori sui guasti dell’intolleranza. Ma non tutti i figli adottivi sono così celebri da riuscire a smuovere le coscienze, intorpidite davanti alle crescenti discriminazioni nei confronti di chi ha solo il “torto” di avere la pelle di colore diverso.

Ecco perché, giusto un anno fa, un gruppo di madri adottive, o comunque con i figli di altre etnie, hanno detto “basta” e si sono messe insieme per fondare l’Associazione “Mamme per la pelle” per sostenere le famiglie, contribuire a innalzare e custodire il patrimonio culturale della società multietnica, vigilare attivamente affinché le ‹‹conquiste dell’uguaglianza multiculturale non siano annullate né affievolite››, come recita lo scopo dell’associazione…

Gabriella N., imprenditrice milanese, madre adottiva di Fabien, 13 anni e di Amelie, che di anni ne ha otto, entrambi africani…

Oggi gli associati sono 500 e quasi 15.000 sostenitori, sparsi in ogni angolo della penisola. ‹‹Mio figlio anche quest’estate è stato vittima di un altro paio di episodi incresciosi di intolleranza mentre giocava in spiaggia e dove eravamo in vacanza››.

Poco si sa delle ferite che queste storie di violenza e odiosa discriminazione causano sull’esistenza di questi ragazzi adottati. ‹‹L’ignoranza e la cattiveria di alcuni riescono con i loro gesti a colpire dei vissuti che già hanno conosciuto un trauma fortissimo come quello dell’abbandono. Pensiamo a quanto possa essere scioccante, per un minore che magari abbia appena ritrovato equilibrio e serenità in una famiglia e in un Paese che lo aveva accolto, sentirsi nuovamente “sgradito”, un “nemico”. So di un ragazzo che ha tentato il suicidio. Di altri che si sono ammalati. Un quattordicenne, di recente,per lo stress ha contratto la vitiligine: era stato spogliato in una stazione di un piccolo paese dal controllore che voleva perquisirlo, convinto si trattasse di uno spacciatore. Conosco madri che hanno dovuto cambiare scuole e addirittura città per tutelare i figli››.

‹‹Gli africani stasera non entrano››, così si è sentito rispondere Pietro dalla security di un lido veneto, lo scorso agosto. Claudia N., 53 anni, è la mamma di due adolescenti di origini etiopi adottati 10 anni fa. Il più grande, Pietro B., diciottenne, è stato respinto all’ingresso dello stabilimento balneare; il locale è stato poi sanzionato dal questore con 15 giorni di chiusura. ‹‹Pensi all’umiliazione subita da mio figlio che si era presentato all’ingresso, insieme a 7 suoi amici, per partecipare a un evento musicale. Doveva essere una serata di festa. A quell’alt, gli amici, solidali con lui, pensavano addirittura a uno scherzo di cattivo gusto. Invece era tutto assurdamente vero. Una volta contattata da mio figlio, mi sono precipitata sul posto ma non c’è stato nulla da fare, se non recarmi dai carabinieri per denunciare il fatto. Per parecchie notti, dopo l’episodio, Pietro non è più riuscito a dormire››, spiega la madre. ‹‹Mio figlio ha 18 anni e si è sentito profondamente umiliato. Certo, in passato, qualche offesa inerente alla sua pelle scura, specie in campo quando gioca a calcio, l’aveva pur ricevuta, ma lo avevamo preparato a incassarle con ironia, di cui per fortuna non manca. Mai, prima d’ora, però, gli era capitato un fatto del genere. Questo clima montante di intolleranza fa paura. L’immigrato è diventato il capro espiatorio di qualsiasi problema esista in Italia: dalla disoccupazione alla delinquenza. Allora abbiamo deciso di dire “No!” a voce alta››…(FC n. 47 del 24 novembre 2019)

 
 
 

Io posso

Post n°3189 pubblicato il 28 Novembre 2019 da namy0000
 

2019, Avvenire 27 novembre. L'incontro. A Roma 2500 giovani per il Children's global summit

L'evento promosso da Fidae(Federazione degli Istituti di Attività Educative – scuole cattoliche italiane), Cec(Congregazione per l’Educazione Cattolica del Vaticano) e Oiec(Organizzazione delle scuole cattoliche nel mondo) e vede come partner Intesa Sanpaolo Formazione, mira a far incontrare i ragazzi di 43 Paesi per collaborare a ricostruire la casa comune.

Oltre 2500 “supereroi”, ragazzi fra i 5 e i 18 anni, provenienti da 43 Paesi, riuniti a Roma per illustrare i risultati dell’iniziativa internazionale “I Can”, avviata già nel 2017, nell’ambito del primo Children’s global summit. Il progetto, che in Italia ha preso il nome di IO POSSO! e che si svolgerà nella Capitale fino a sabato 30 novembre 2019.

Lo scopo è sensibilizzare le giovani generazioni e dare loro in mano gli strumenti per sentirsi protagonisti del cambiamento - dichiara la presidente della FidaeVirginia Kaladich - tenendo presenti gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell'Agenda 2030 e accogliendo la sfida che Papa Francesco ci ha lanciato nell’Enciclica Laudato si’: collaborare per costruire la nostra casa comune». Il Children’s global summit è patrocinato da Roma Capitale. «Roma è orgogliosa di essere stata scelta per il Children’s Global Summit 2019. Oltre 2500 ragazze e ragazzi da tutto il mondo si incontrano nella nostra città per proporre idee per il futuro e soprattutto soluzioni per il presente - le parole di benvenuto della sindaca Virginia Raggi…

 
 
 

Che senso ha

Post n°3188 pubblicato il 27 Novembre 2019 da namy0000
 

Paolo S., 13 anni, arrivato dalla Cambogia quando aveva poco più di un anno, ha ricevuto un premio dai Lions per il seguente tema: La sicurezza è libertà

Le persone che arrivano in Italia da Paesi che vivono in difficoltà, i cosiddetti migranti, spesso vengono criticati perché portano insicurezza al popolo italiano. Io credo che queste siano talvolta delle dicerie perché se ci pensiamo accuratamente sono persone che cercano aiuto e spesso sfuggono dalla guerra e cercano quella libertà che nel loro Paese non possono trovare.

Se tutti imparassimo a rispettarci per ciò che siamo e non per come siamo, il mondo sarebbe migliore; non ci dovrebbero più essere pregiudizi riguardanti l’etnia o la lingua o il colore della pelle.

Io sono un ragazzo adottato e, anche se sono diverso nei miei tratti dai miei coetanei, mi sento italiano e ben accolto dalla mia comunità. Alle volte però mi domando cosa sarebbe successo se fossi stato un immigrato. Potrei essere sicuro allo stesso modo oppure sarei più insicuro e fragile emotivamente. Mi sentirei lo stesso a mio agio?

Paolo è un ragazzino, timido e introverso, profondo e riflessivo. La sua cameretta racconta tanto di lui. ‹‹Il poster di Taizé alle pareti rappresenta per me la possibilità di andare sempre avanti››, commenta. ‹‹Noè ha lasciato libera la colomba perché scoprisse una nuova terra e lei è tornata con un ramo di ulivo per dire che c’era vita e speranza››. Gli scaffali della libreria pieni di letture fantascientifiche, il soffitto e il pavimento della stanza in stile baita di montagna, ‹‹l’ambiente in cui mi sento meglio››, e la frase di Martin Luther King sopra alla scrivania, I have a dream (Io ho un sogno): ‹‹Perché mi sento fortunato a essere qui. Libero, ma sempre sapendo dove andare e con i piedi per terra››.

Paolo ha una passione per Baden-Powell, ‹‹il suo motto è dare sempre il meglio e far vedere quanto vali››. Ha a cuore la vita e il benessere degli altri e per questo studia per diventare psicologo. La sua esperienza di figlio adottivo è positiva su tutta la linea, tanto che quasi si stupisce delle domande: ‹‹Mi sono trovato bene da sempre››. Una vita, la sua, perfettamente integrata, la fortuna, certo, di essere inserito in un gruppo eterogeneo di coetanei, alcuni a loro volta adottati. ‹‹E poi un clima di maggior accoglienza››, aggiunge mamma Monica che, invece, non ha vissuto la stessa cosa con Francesco, il secondo figlio, adottato quattro anni dopo dalla Cina. ‹‹Con lui è stato tutto diverso, prese in giro e commenti sin da piccolo quando gli tiravano giù i pantaloni per vedere un sedere “cinese”››. Per Paolo, invece, la vita è stata facile. Il gruppo scout, ‹‹lì ho legato particolarmente con Collin, amico di colore, adottato dal Congo. Ma mi sono sempre trovato bene anche a basket e a scuola: quest’anno ho stretto amicizia con Edoardo. Per me è stato sempre tutto normale››.

Non è, però, così per tutti e questo è innegabile anche per lui. ‹‹Ho in mente due fratellini etiopi››, racconta, ‹‹che per la festa del papà volevano andare a comprare in un negozio un regalo e la negoziante gli ha risposto che era chiuso. Tornati a casa l’hanno riferito alla nonna che immediatamente è andata a chiedere spiegazioni: non ce n’erano. Davanti a questi episodi mi chiedo perché farlo, che senso ha e che soddisfazione si provi a discriminare qualcuno solo per il colore della pelle››. Un pensiero che non lo abbandona quando si confronta con la situazione dei migranti, lo stesso che ha ispirato il tema premiato: ‹‹Vedendo trattare così uomini, donne e bambini innocenti che vengono qui solo perché hanno bisogno di aiuto, mi chiedo perché non ci relazioniamo con il prossimo come se fosse nostro fratello. E, poi, pensando a me mi dico: e se fossi arrivato io con un barcone invece che in aereo, cosa mi sarebbe successo? Se mi avesse adottato un’altra famiglia invece della mia, dove sarei, cosa starei facendo ora?››. Una famiglia che ama definire ‹‹multietnica, che è meglio di “tradizionale”››, specifica. Paolo aveva 6 anni e stava iniziando la prima elementare quando, con mamma e papà, è andato in Cina a prendere Francesco. ‹‹La sua presenza è stata fondamentale››, ricorda papà Marco. ‹‹All’inizio Francesco era diffidente e triste, poi piano piano nelle settimane successive si è lasciato andare grazie alla vicinanza con lui››. Che di quel viaggio ricorda: ‹‹Quando ci siamo messi a giocare con una macchinina… All’inizio non mi ero accorto che fosse diverso, poi ho iniziato a notare. Ma era mio fratello e questo mi bastava››. (FC n. 47 del 24 novembre 2019)

 
 
 

L'Intervista

Post n°3187 pubblicato il 25 Novembre 2019 da namy0000
 

Don Antonio Mazzi (90 anni) e don Gino Rigoldi (80 anni): ‹‹Siamo due caratteri diversi, ma con un obiettivo comune: salvare persone. Siamo un po’ borderline, ma responsabili nel dire questo sì, questo no. Oggi si rischia di crescere sacerdoti che leggono il Vangelo in greco o in aramaico, ma poi non sanno chi c’è in chiesa ad ascoltarli›› dice don Mazzi,quasi 90 anni. ‹‹A questa età, con tutta l’esperienza, possiamo permetterci la franchezza senza paura. Il mio alibi è l’ambiente: si sa che uno che fa il cappellano del carcere dice cose un po’ così (ride ndr). Riferivano in Curia che ero un prete strambo, ma intanto mi hanno mandato per 3 anni a rappresentare la Santa Sede a Strasburgo››, dice don Gino.

 Molti giovani sacerdoti sono più legati di voi alle insegne del ruolo e alla liturgia, perché secondo voi?

‹‹Cerco di capirli, vivono in una Chiesa in crisi: le chiese si svuotano, i seminari anche, è normale sentirsi fragili. Logica vorrebbe che un’istituzione in crisi si fermasse un attimo, a partire dai capi, a domandarsi: “Che cosa succede?”. Il Papa ci ripete che il clericalismo è un dramma per la Chiesa. Bisogna uscire dalle parrocchie e fare le battaglie con la gente: la casa, il lavoro. Vedo tanti incontri di sacerdoti: sono gruppi di lavoro, in cui conoscersi è irrilevante, ma relazione è sinonimo di amore: una comunità cristiana senza amore all’interno non predica il Vangelo. Ma è anche un fatto di cultura e competenza, non si nasce “imparati”: ci sono cattedre universitarie in cui si studia come fare gruppo. Vale per il prete, per il dirigente scolastico, per il direttore del carcere. Io sono andato a imparare da don Aldo Ellena, salesiano bravissimo››, dice don Gino.  ‹‹La Chiesa non può accontentarsi di essere una grande organizzazione: o è profezia o non è Chiesa, o meglio, non è Vangelo. Per questa via rischiamo di ridurre i preti a funzionari. Il cardinale Martini lo diceva: fare il prete non è un “lavoro” normale, perché non è normale dare tutto sé stesso senza aspettarsi niente. Noi dobbiamo farlo, se arriva la gratitudine bene, ma non possiamo metterla come condizione, anche se poi i ragazzi ti vogliono bene››, dice don Mazzi.

Di cosa sentite il bisogno?

‹‹Di vescovi pastori››, don Mazzi.

‹‹Di un governo che favorisca la vita comunitaria di preti e laici insieme. A me dicono che sono bravo perché ho creato Comunità Nuova con ragazzi usciti dal carcere Beccaria: avere la casa piena è forse una fatica, ma senza una comunità io non potrei stare. La solitudine non scelta non va bene neanche per il prete. Penso a tanti giovani sacerdoti, spesso molto bravi, già stressati perché devono imparare, che rimbalzano tra 2 parrocchie e 3 oratori. Quando vanno a casa la sera con chi si confrontano, con la tv? Eppure avverto che il bisogno di vita comunitaria trova ostacoli››, don Gino.

Anche in una Chiesa in cui il Papa ha scelto di vivere a Santa Marta?

‹‹Il Papa dice cose meravigliose, ma dove cadono? Se cadono su tante individualità evaporano››, don Gino.

‹‹Quando l’ostacolo maggiore è l’organizzazione che sta intorno al Papa, è difficile cambiare a pensarci bene è successo anche a Cristo: ha dovuto “saltare” i 12››, don Mazzi.

Operate da sempre a Milano: com’è cambiata la città?

‹‹Ho in mente un’indagine condotta su mille milanesi over 18 da cui emerge che per l’85% gli altri sono un territorio inesplorato da avvicinare con cautela. Questo è il contrario del Vangelo, dove gli altri sono fratelli e sorelle e i poveri sono al primo posto››, don Gino.

‹‹È cambiata in peggio. Dio è Dio di tutti. È il grande tema del Papa. Perché nessun collega cardinale ha replicato al cardinale Ruini? Ho detto due parole solo io››, don Mazzi.

‹‹Io ho provato a spiegare che quando un cardinale dice che bisogna dialogare con tutti, io devo fare una premessa: sono cristiano e come tale penso che tutti gli esseri umani hanno pari dignità e i poveri sono quelli da curare di più, non posso mettere a confronto l’idea di Salvini con quella di Gesù Cristo. Questa premessa non la posso tralasciare, perché è la mia fede. Da lì partiamo e poi ragioniamo su come dialogare››, don Gino.

Arrivati a 80 e 90 anni quali motivazioni vi spingono?

‹‹Ogni mattina mi alzo sapendo che, anche se ho vissuto 90 anni, mi può arrivare una nuova sfida e questo è straordinario. Una delle frasi più belle di Giovanni è: “Ci ha dato il nome di amici”, in quella riconosco il mio rapporto con Dio››, don Mazzi.

‹‹Quando mi sveglio, per la prima ora leggo il Vangelo della giornata, chiacchiero con il Capo. Sono a Gerusalemme, ascolto Gesù Cristo, cerco di capire che cosa fa, annuso che persona era e mi piace tantissimo. Mi chiedono: ami Gesù Cristo? Ne ho una grande stima, vorrei conoscerlo meglio. La retorica sull’amore del “Ti amo sopra ogni cosa” dell’Oh Gesù d’amore acceso non mi appartiene tanto. È un percorso di presenza, di simpatia, di voglia di conoscere, Gesù è una gran persona che vale la pena di seguire. È il mio riferimento principale. Se questo si chiama amore, sì, lo amo››, dice don Gino.

Mai avuto momenti di dubbio?

‹‹Di lontananza magari sì. Mi succede quando ho troppo da fare e prego meno. Mi dico: non starò facendo delle cose per conto mio? Celebro per le persone della comunità con cui vivo, per scelta, non tutti i giorni: la Messa non è devozione, è la cena della comunità. La cosa che dico più spesso a Gesù è: “Perché sono sempre io al centro del mondo? Continuo a ripeterti che sei Tu il mio centro, ma non è vero”. Però ho anche tanti momenti di vicinanza››, dice don Gino.

‹‹Col tempo ho sempre meno fede e sempre più speranza: io spero tanto che domani l’incontro con Dio sia meraviglioso, ma faccio sempre più fatica a immaginarmelo››, dice don Mazzi.

Mai provato senso di solitudine, essendo riferimenti per tanta gente?

‹‹Ho vissuto un paio di tradimenti, mi hanno fatto male. Rispetto alla fede no, ma ho una fede strana. Non mi sento in dovere di credere ai libri di quelli che paiono saper tutto di Dio, della Madonna, dei santi››, dice don Mazzi.

‹‹Avverto, ma sempre meno, l’ansia delle grandi responsabilità da prendere. Quando fai il portabandiera ogni tanto hai paura di voltarti e scoprire di non avere dietro nessuno. Ma sono convinto che i problemi esistano per essere risolti. La prima cosa che mi chiedo sempre è: “Come se ne esce?”››, dice don Gino.

Ne valeva la pena?

‹‹Urca!››, risponde don Gino.

‹‹Non saprei immaginare per me una vita diversa››, risponde don Mazzi

(FC n. 47 del 24 novembre 2019)

 
 
 

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