Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Giugno 2023

Corpus domini

Post n°3872 pubblicato il 08 Giugno 2023 da namy0000
 

2023, Ermes Ronchi, Avvenire 8 giugno

Il Corpo di Cristo «lievito di vita»

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. (...) Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno». «Ricordati del cammino», sussurra la prima Lettura. Ricordati! Perché l’oblio è la radice di tutti i mali. Ricorda il deserto e il monte, il vento delle piste, la bellezza dell’anima affaticata dal richiamo di cose lontane. E poi la manna scesa all’improvviso, quando non l’aspettavi più. Ricordati del tuo deserto tra scorpioni e serpenti, ma soprattutto dell’acqua giunta sotto forma di una risposta, un amore bello, un amico, una musica. Improvvisi squarci si sono aperti a dirti che non sei solo, che non sei smarrito tra le dune del deserto.

Che Dio è acqua e pane incamminati verso la tua fame. La mia forza è sapermi cercato, con la mia vita distratta e le risposte che non do; sapermi desiderato è tutta la mia pace. Io vivo di Dio. Ricordati del cammino: dialoga con la storia della tua vita, rimani nella tua sorgente limpida. Il Vangelo oggi ha solo otto versetti, e Gesù a ripetere per otto volte: Chi mangia la mia carne vivrà in eterno. Quasi un ritmo incantatorio, una divina monotonia, nello stile di Giovanni, che avanza per cerchi concentrici e ascendenti, come una spirale; come un sasso che getti nell’acqua e vedi i cerchi delle onde che si allargano sempre più. È il discorso più dirompente di Gesù: mangiate la mia carne e bevete il mio sangue. Un invito che sconcerta amici e avversari, e lui che ostinatamente ne ribadisce, per otto volte, come in otto cerchi, la motivazione, sempre più chiara e diretta: per vivere, semplicemente vivere, per vivere davvero. Altro è vivere, altro è lasciarsi vivere. È l’incalzante convinzione di Gesù di possedere qualcosa che cambia la direzione e la qualità della vita. È il dono di Dio. Il dono di Dio è Dio che si dona: si dona e si perde dentro le sue creature come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo.

«Carne, sangue, pane di cielo» indicano la totalità della sua vicenda umana e divina, le sue mani di carpentiere con il profumo del legno, le sue lacrime, le sue passioni, la polvere delle strade, la casa che si riempie di profumo, la pietra che rotola via. E Dio in ogni fibra. Un pezzo di Dio in me perché io salvi un pezzetto di Dio nel mondo. Il suo invito pressante significa: mangia e bevi ogni goccia e ogni fibra di me. Vivi di me. Prendi la mia vita come misura alta del vivere, come lievito del tuo pane, seme del tuo campo, sangue delle tue vene, allora conoscerai cosa sia vivere davvero. Mangiare e bere Cristo significa più che «fare la comunione» eucaristica, è «farmi comunione con Lui». Il Verbo si è fatto carne perché la carne si faccia Spirito. L’Eterno cerca la nostra setacciata briciola di cielo; per poi ridarcela, luminosa e serena.

 
 
 

La conversione di Banine

Post n°3871 pubblicato il 07 Giugno 2023 da namy0000
 

Incontrare Gesù nel «disgusto di vivere»: la conversione di Banine

Il diario della scrittrice azera-francese, appena riproposto in Italia, racconta il suo cammino di conversione dall’islam e dall’ateismo «nonostante le meschinità della Chiesa»

«Le conversioni dal materialismo sono le più difficili: l’anima deve sollevare, col peso delle ostruzioni spirituali, anche il carico delle cose materiali; e la moneta, se pure è di carta, pesa; e i cibi onerano la coscienza; e i vizi snervano lo spirito». Così, in un libro divenuto celebre – ma oggi pressoché introvabile – intitolato I grandi convertiti, Igino Giordani, anima del movimento dei focolarini, descriveva uno dei processi più intimi che toccano l’anima umana tracciando una sorta di tipologia della conversione e facendo il profilo di numerosi convertiti, fra cui i francesi Péguy, Huysmans e Maritain e gli italiani Pitigrilli e Pasquale Villari. Una disamina che si incentrava principalmente nel mondo della letteratura e della cultura in generale, ma toccava anche i businessman: è a loro infatti che si riferisce la frase riportata all’inizio.

Parlando di conversioni famose, sempre guardando al mondo d’Oltralpe, in tempi recenti si sono registrati i casi di André Frossard, Maurice Clavel, Olivier Clément, Fabrice Hadjadj, Eric-Emmanuel Schmitt, solo per citarne alcuni. Conversioni, anche clamorose, di taglio intellettuale come era accaduto per Agostino, o dopo un lampo, come per Paul Claudel ascoltando il Magnificat nella Messa di Natale a Notre-Dame. Una conversione maturata dopo anni di crisi intima profonda fu invece quella di Banine, scrittrice amica di Ernst Junger e di Nikos Kazantakis, che avvenne negli anni Cinquanta a Parigi e di cui è rimasta traccia nel diario autobiografico Ho scelto l’oppio, edito in Francia nel 1959 e in Italia tradotto dalle edizioni Massimo nel 1966, volume che ora viene riproposto per i tipi di Magog (pagine 178, euro 15,00), per cura di Fabrizio Sabbatini e con un’introduzione di Davide Brullo.

Ecco cosa scrive il 21 agosto 1956: «La mia natura non si è affatto ammorbidita da quando vivo sotto la suggestione del Cristianesimo. Non è avvenuto nessun miracolo. Ma una specie di piccolo miracolo ha avuto luogo lo stesso: la quasi totale sparizione della sinistra e fedele compagna di sempre, la malinconia. La mia vita non è più generosamente condita del sapore di cenere. Non rivango più, tra sussulti, gl’insuccessi e le calamità, ma al contrario rendo grazie al Cielo delle numerose fortune che mi sono capitate. Basterebbe che la mia conversione, per quanto imperfetta, mi avesse fruttato anche solo questo cambiamento, per potermi già considerare soddisfatta. E difatti lo sono». Il 23 dicembre, lei nata in Azerbaigian e cresciuta nella religione islamica, riceverà il battesimo dopo anni di combattimento spirituale. Così, il giorno precedente, descrive nel diario il suo «stravagante destino di musulmana affrancata dalla rivoluzione. Senza mestiere fisso, ne ho esercitati una quantità…! Professoressa di musica e di russo, indossatrice, commessa nella haute couture, segretaria traduttrice, romanziera, giornalista, e anche distinta signora della borghesia di Tolosa! Ho voluto essere libertina».

E poi aggiunge: «Passando sulla Senna rievocavo tutta la mia vita dal giorno in cui, con le mie diciotto primavere come unica ricchezza, sbarcavo a Parigi, estasiata di speranza e di esaltazione; rievocavo la lenta maturazione interiore che, attraverso ostacoli e al di là delle cadute, mi ha condotta a piedi di Cristo. Ero meravigliatissima. Lo sono ancora mentre scrivo queste righe. Mi sento felice, piena di una felicità che solo lui, Cristo, Dio, può dare». Era giovanissima in effetti Umm-El-Banine Assadoulaeff, nata a Baku il 18 dicembre 1905, quando sbarcò a Parigi dopo aver rifiutato un matrimonio combinato. Suo era stato ministro ma la repubblica azera era stata fagocitata dall’Urss. Nella capitale francese entrò in contatto con i tanti intellettuali russi fuggiti dalla rivoluzione bolscevica, fra cui la poetessa Marina Cvetaeva e i filosofi Lev Šestov e Nikolaj Berdjaev. Nel 1942 conobbe Junger, che frequentò in varie occasioni e al quale avrebbe dedicato tre libri, mentre nel 1946 pubblicò da Gallimard il suo libro più famoso, Jours caucasiens, ed ebbe un non scontato successo nel mondo letterario.

«Delusa – annota Brullo - dal rapporto con Junger, astrale, astratto, estraneo alla vita, Banine finisce per votarsi a Dio. Nel suo testo, J’ai choisi l’opium, scrive di questo “amore assurdo, impossibile, che ha preso in me il posto del mito, della religione, della vita”. Il tormento porta Banine ad abiurare l’islam e diventare cattolica». È il noto motto di Marx - “La religione è l’oppio dei popoli” - a essere evocato nel titolo. La sua è stata una conversione lenta ma inesorabile. Schiacciata dal peso dell’esistenza, inizia a entrare in chiesa, quella di Notre-Dame du Saint Sacrament di rue Cortambert, vicino a dove abita, e a sedersi su una panca ad ascoltare. Le preghiere e le omelie dei sacerdoti. Che non sempre le piacciono anzi a volte la deludono, ma non è della perfezione che va in cerca, semmai di una risposta alla sofferenza che le strazia il cuore.

È una vera malattia dell’anima che l’assale e il 19 agosto del 1952 le fa scrivere: «Sono una vecchia frustrata, destinata a morire in solitudine, senza amore. Dovrei uccidermi, ma dove potrei trovare il coraggio di farlo? Anche il coraggio per vivere non so da dove attingerlo. Non ne posso più. Il disgusto di vivere mi avvelena ogni minuto». Alla soglia dei 50 anni, comincia a fare un bilancio e, per quanto abbia ricevuto tante soddisfazioni, capisce che il successo e la ricchezza non bastano. «Benché non creda nell’esistenza di Dio – dice il 26 marzo 1953 – con la ragione, il mio cuore si rivolge a lui a mia insaputa». Le letture spirituali e la frequentazione degli ambienti ecclesiali la indirizzano sempre più verso il cristianesimo.

Nonostante le miserie che riscontra. «Contrariamente a Simone Weil – si legge il 21 aprile 1956 – la meschinità della Chiesa, i suoi errori, le sue banalità, e anche i suoi peccati, invece di preoccuparmi mi rassicurano. Se essa fosse soltanto santa, come potrei entrarci?». Nel libro si incontrano piccoli riferimenti a Péguy e Claudel, Mauriac e Guardini, il cardinale Newman e Teilhard de Chardin, indicativi del clima che respira in questi anni in cui matura l’avvicinamento a Cristo, nonostante «l’espandersi dell’ateismo e la tiepidezza degli stessi cattolici» (6 dicembre 1954).

Difatti due giorni dopo afferma: «La Chiesa mi si rivela sotto un altro aspetto, il miracolo della sua durata. Che cosa sarebbe Parigi, la nostra Sodoma e Gomorra, senza le innumerevoli case di Dio?». E ai primi di gennaio dell’anno seguente: «Ormai non posso più fare a meno, non dico di Dio, ma di cercarlo». Comincia a conoscere Gesù e non le va a genio chi ne vuole fare «un illuminato fondatore di una religione» o chi come Tolstoj vuole solo umanizzarlo o ridurre il cristianesimo a una morale; piuttosto, si ritrova nelle famose parole di Kafka riferite a Cristo: «È un abisso di luce davanti al quale bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi», ma lei stessa specifica di voler «perdersi in quest’abisso».

Sarà il cardinale Daniélou, nell’avvertenza all’edizione francese del libro di Banine (che morrà nel 1992 a Parigi; l’anno precedente aveva scritto un racconto filosofico su Maria), a dichiarare di essere stato avvinto dalla lettura del manoscritto, letto tutto d’un fiato: «Il suo pregio è la sincerità spietata. Credo che proprio per questo possa colpire anche quelle anime che rimangono un po’ disgustate dall’insipidezza e dal tono falsamente commosso di molti racconti analoghi. In questo diario, invece, l’azione della grazia risulta di una chiarezza impressionante».

 
 
 

Il mio capitalismo

Post n°3870 pubblicato il 07 Giugno 2023 da namy0000
 

2023, Avvenire 6 giugno

Cucinelli: «Il mio capitalismo umanistico per dare dignità al lavoro»

A Solomeo splende la luce. Quella reale della primavera che illumina questo borgo umbro sede dell’azienda di Brunello Cucinelli e quella ideale dei tanti progetti. Lui, il “re del cashmere”, mescola il debutto nel mondo dei profumi e un’intesa con Chanel sul Lanificio Cariaggi e amalgama il tutto con il tocco che gli deriva da esperienze che non lo hanno disincantato e da quell’approccio umanistico che è il suo dna d’imprenditore.

 

Cucinelli, lei si è descritto come un giovane che studiava poco e passava lunghe ore al bar. Cosa è stato quel “qualcosa” che è scattato e l’ha fatta diventare un imprenditore noto in tutto il mondo?

Nel mio caso, una certa qual percezione di ingiustizia: vedevo mio padre con gli occhi lucidi, tornava vessato dal lavoro e mi sono detto che, qualsiasi cosa avessi fatto, l’avrei fatta per la dignità dell’essere umano. Credo ci sia una differenza tra l’avere un sogno e il coltivarlo con pazienza e perseveranza. E a farla è anche il poter condividere quel sogno con “anime pensanti” a te simili, come a me è capitato a Solomeo.

Qual è stata la “sliding door” della sua vita?

Fu quando, giovane con entusiasmo e poche certezze, ebbi da un direttore di banca un prestito di 500mila lire per avviare l’attività col cashmere. Non era solo un prestito: era un nobile atto di fiducia nell’essere umano e io ho sempre custodito una grande gratitudine per quel direttore. Proprio per questo ho fiducia nei giovani: oggi in azienda la media d’età è sui 38 anni. E quando li vedo mi emoziono, mi rivedo in loro.

Lei è cresciuto nella miseria, senza luce. Cos’è per lei la ricchezza?

Miseria non direi; la mia era una famiglia che lavorava sodo la terra e aveva tutto l’essenziale. Mio nonno ci ha dato una grande lezione: destinava il primo sacco di grano alla comunità, pensando a chi aveva più bisogno. La civiltà contadina mi ha insegnato il rispetto di chi lavora, senza differenze. Per questo la ricchezza la vedo certo come un notevole aiuto, che rischia però di essere meno bello se non è accompagnato dal senso di giustizia sociale e dalla consapevolezza dei sacrifici.

Qual è il problema principale oggi per il mondo produttivo?

Il nodo del futuro non sarà tanto a chi vendere i nostri prodotti, ma a chi farli produrre e lavorare. Quello dei modi di produzione è un gran tema, di mezzo c’è la questione della dignità. La mia visione del mondo si basa sulla via che chiamo del capitalismo umanistico e della umana sostenibilità. Se vogliamo che le cose che produciamo siano belle, non possiamo ignorare il come vengono fatte, in quali luoghi e in quali condizioni. Ma non sono preoccupato, credo molto che la nostra epoca ci riserverà grandi cose anche sul piano umano e spirituale.

Cosa ne pensa della proposta di un liceo del made in Italy?

A Solomeo già cerchiamo di valorizzare le sapienti mani artigiane, che meritano stipendi leggermente più alti. Abbiamo una Scuola delle arti e mestieri, che stiamo potenziando, per dare il giusto peso alla formazione e trasmissione dei saperi.

Perché un modello come il suo, alla Olivetti, non attecchisce di più?

Non trovo efficace in genere esportare modelli, ma voglio che i miei collaboratori possano lavorare “per bene”. Per questo servono però le condizioni: un certo modo di produrre, un luogo confortevole, l’armonia. L’auspicio più vivo è che altre realtà imprenditoriali, pur diverse da Solomeo, possano fare una loro scelta di custodia della bellezza e di promozione della dignità umana.

E come convincerebbe un collega?

Gli direi quello che mi ripeteva mio padre: «Sii sempre una persona per bene». Se un tale valore divenisse comune, il bene del singolo diverrebbe bene di ognuno.

Dice che non trasferirà mai fuori Italia la sede. Ma cosa vorrebbe vedere di diverso in questo Paese?

La nostra bella Italia ha tanti valori altissimi. E quanto essa può fare ancora di più non ha limiti. Ritengo che coltivare al meglio l’autostima sia fondamentale, ne vedo poca in giro. In generale mi piacerebbe che un po’ tutti si tornasse a credere in una politica amabile e nella condivisione di uno spazio che promuova la cultura della partecipazione.

Parla molto di giovani, a loro ha scritto anche una lettera.

Sì, abbiamo vissuto troppo a lungo con la convinzione che i giovani o studiano o vanno a lavorare. Il lavoro è stato percepito quasi come una punizione e tutti, oggi, siamo chiamati a fare qualcosa perché non sia più così. Anche la politica è bella se lavora per dare fiducia ai giovani e loro, sentendosi gratificati, sono certo che sapranno donare creatività al mondo di domani.

Ha lasciato le redini a due Ad più giovani: gestioni aziendali troppo lunghe sono un danno?

Non mi sono messo da parte, ma ho sempre pensato che, a un certo punto della vita, sia proficuo diradare la presenza, ma stando accanto a chi ha bisogno di sentire che ci sei. Come Riccardo Stefanelli e Luca Lisandroni, pieni di una gran passione.

Avrà fatto anche lei degli sbagli?

Ognuno ne compie e trovo vero quello che fa notare in maniera illuminata Buddha quando dice: «Facile a scorgere è l’errore altrui, difficile è invece il proprio». Però conta quello che ne può derivare quando si ha la forza di apprendere dall’esperienza fatta.

Ci conia una sua frase che possa identificarla?

Ci provo: «L’essere umano è veramente tale se e solo se viene rispettato nella sua dignità, libertà, coscienza morale e spiritualità». Ah, e aggiungo che mi piacerebbe che - un domani - sulla mia lapide si legga: «È stata una brava persona».

Incontra tanti personaggi. Ce ne dice un paio che l'hanno colpita?

Non è facile. Certamente, di recente, l’incontro con re Carlo III d’Inghilterra che mi ha coinvolto nel suo “Progetto per l’Himalaya”, ho visto quanto grande e sincero sia il suo amore per il Creato. E il mio stimatissimo papa Francesco, che sta operando il bene in mille modi.

Cosa le piace di più e di meno dei tempi che stiamo vivendo?

Di meno non ho dubbi: la troppa connessione ad apparati digitali toglie serenità, monopolizza energie, mortifica la creatività e ci distrae da affetti e passioni. Quello che invece mi piace di più è che sento comunque una grande rinascita spirituale in atto, grazie alla quale sono sicuro che i giovani saranno delle sentinelle dell’umanità a venire.

Parla spesso di anima. Ma esiste un qualcosa che le “ruba” l’anima?

Sono fortunato perché riesco, anche grazie alla rilettura dei miei amati classici, a portare avanti quotidianamente un personale “esercizio spirituale”. Ho presente la profonda lezione di sant’Agostino: «L’anima non è tutto l’uomo, ma la sua parte migliore». Senza etica non può esserci sana economia, non può esserci nessuna azione dell’essere umano. Proprio però in quanto siamo portati a una qualche forma di spiritualità, mi piace pensare che i popoli alla lunga possano dialogare tra di loro su alcuni punti fermi. Che cominciano con la pace e proseguono con il rispetto delle scelte più umanamente sostenibili per tutti.

 
 
 

Mostraci il tuo volto

Post n°3869 pubblicato il 05 Giugno 2023 da namy0000
 

Mostraci il tuo volto. Don Fabio Rosini: «Quel Dio distorto che ci vuole infelici»

«Quando il serpente dice a Eva: “sarai come Dio” instilla l’ossessione a essere diversi da come si è. Se penso male di Dio penso male di me»

Il volto di Dio è un volto di padre. E se il padre è colui che ci dà il nome, cioè colui che ci conosce e ci colloca nel mondo, è attraverso la relazione col volto del Padre che possiamo trovare la nostra verità. Insomma è attraverso il volto del Padre che io posso conoscere davvero me stesso e diventare capace di ricevere amore, di amarmi e quindi di amare. Potrebbe essere questo, anche se parziale, il senso di questo lungo  colloquio con don Fabio Rosini  che prende spunto dal suo ultimo libro edito da San Paolo (San Giuseppe. Accogliere, custodire, nutrire), ma che soprattutto guarda a questo nostro tempo in cui la sempre più sfumata figura del padre ha finito per privare i giovani (i figli) di efficaci punti di riferimento in una società via via più confusa.

La figura di san Giuseppe consente di parlare del ruolo del padre, ma in realtà il Gesù dei Vangeli ha due padri...

L’esperienza di Gesù di avere un padre terreno e uno celeste è l’esperienza alla quale siamo chiamati tutti noi in quanto figli di Dio. E più queste due paternità sono sintonizzate, più la nostra umanità e la nostra vita spirituale crescono in bellezza e pienezza.

Quale è il ruolo di Giuseppe nei Vangeli?

Certamente quello di accogliere. Tutte le volte che l’angelo gli parla gli chiede di «prendere con sé» prima Maria in sposa, poi Maria e Gesù per fuggire in Egitto... Accogliere è l’attività fondamentale da fare con Dio: la grazia si accoglie, il perdono si accoglie, la provvidenza si accoglie, il suo volto si accoglie. Allo stesso modo chiede di accogliere il prossimo e di accogliere noi stessi, così come Lui fa con noi: ci accoglie.

Cosa vuol dire accogliere per un padre?

Giuseppe ci viene in aiuto. Per prima cosa dà un nome a Gesù: chi mi accoglie mi fa capire chi sono. Tutti noi abbiamo bisogno di sapere chi siamo e il nostro nome lo conosce solo chi ci ama e ci comprende. Noi sentiamo di essere accolti solo quando ci sentiamo amati. In questo senso solo Dio sa davvero chi siamo e quanto valiamo al punto di dare il figlio per amore nostro. Così il compito di un padre umano è fare in modo che un figlio, una figlia capiscano la loro preziosità, la bellezza profonda del loro volto, chi sono veramente.

Un padre deve anche proteggere.

Questo è il secondo atto di accoglienza che fa Giuseppe: proteggere e custodire. Chi ci ama si cura di noi perché ci conosce anche nelle nostre fragilità. Un padre sa chi è il figlio e conosce i pericoli della vita. Giuseppe conosce Gesù e conosce Erode, che poi è l’essenza del combattimento spirituale: difendere il bene e dribblare il male.

Però Giuseppe è aiutato dai sogni...

Certo, ma in fondo i sogni sono la nostra vita interiore, la nostra profondità di sguardo, la capacità di vedere il volto di Dio nella nostra vita. Questa intensità spirituale consente a Giuseppe di educare e nutrire (il terzo atto di accoglienza) Gesù secondo la logica di una vita scandita dalla spiritualità ebraica.

Una vita regolare?

Sì, e si tratta di un’arte di educazione che ben emerge dal capitolo secondo del Vangelo di Luca: una regolarità di abitudini, un’ordinarietà quotidiana che forma ad accogliere le straordinarietà quando queste arrivano. Mi occupo da tanti anni di giovani e so che quello che manca loro maggiormente è un Giuseppe capace di fornire punti di riferimento nella normalità della vita. I ragazzi sono confusi da troppi padri latitanti e troppe madri arrabbiate.

Questa è la pedagogia di Dio?

Il volto di Dio che appare nella paternità di Giuseppe è un volto di padre. Una pedagogia che apre al mistero divino attraverso l’esercizio della genitorialità umana. In questo senso, anche se può sembrare strano, il volto di Dio in Giuseppe appare splendidamente nel suo diventare invisibile. Il compito del padre non è risolvere i problemi ai figli, ma insegnare ai figli come risolverli da soli. In questo senso la meta del padre è diventare invisibile, privo di ogni forma di possessività.

Un padre costruttore di libertà?

Dio ci dà fiducia, ci vuole liberi. A Dio possiamo dire di no, possiamo insultarlo... lo abbiamo persino crocifisso e lui ci ha amato lo stesso. Dio sa sparire mille volte dalla nostra vita per lasciarci liberi di tornare da soli. Senza libertà non c’è amore, non c’è nulla.

Eppure il desiderio di vedere Dio pervade tutta la Scrittura e prima o poi si fa sentire in ogni uomo...

L’uomo desidera vederlo quando tocca il fondo. Pensiamo al figlio prodigo... solo se sono povero divento capace di cercare Dio veramente. Dio mi stima e mi attende. E se mi capita qualcosa che mi fa tornare da Lui è perché, per dirlo alla romana, 'Dio mena da fermo', nel senso che non mi dà uno schiaffone dall’alto, ma se agisco come se fossi Dio, prima o poi vado a sbattergli contro, perché Lui è sempre al suo posto.

A lei come si è mostrato il volto di Dio?

Certamente nella mia famiglia e poi, poiché crescendo ero diventato ateo, nei cristiani, veri, che ho incontrato e mi hanno rimandato alla bellezza che avevo conosciuto da bambino. Vedendo la loro serenità ho aperto il cuore al Vangelo, a una bellezza fatta di misericordia. L’ho visto anche in tante persone che mi sono state vicine. L’ho visto nella potenza che ha la Parola di liberare il cuore delle persone. E poi mi si è manifestato nelle malattie: come sapienza che mi conduceva alla libertà attraverso il dolore. So che il suo volto conduce la mia vita e mi salva da me stesso.

Com’è il volto di Dio nella sofferenza?

Un volto di misericordia, di tenerezza infinita, come di colui che sta dalla tua parte sempre: un padre. Una volta mi hanno chiesto quale potrebbe essere una frase in grado di salvare l’umanità. Io ho risposto: 'Dio è mio padre'. Ho imparato ad avere tenerezza per me stesso attraverso la sua tenerezza per me. Oggi il disprezzo per se stessi sembra pervadere l’umanità.

Tanti giovani sono cupi, nascondono il volto sotto cappucci, si coprono di tatuaggi dai colori tetri...

Quando il serpente dice a Eva: «sarai come Dio» in sostanza le dice che è sbagliata, instilla l’ossessione a essere diversi da quello che si è. Lo stile di padre che è in Giuseppe è educare per tirare fuori il bene che è in me, il volto di Dio che è in me, cioè quello che sono veramente. In questo senso il disprezzo per se stessi è la vera cifra delle menzogne che ci hanno instillato. Avere disprezzo per me è l’immagine distorta di Dio che mi è stata mostrata: un Dio che pretende, rapace e menzognero. Così il modello per me stesso diventa quello del rapace e vincente a tutti i costi. E questo mi lancia in una visione deteriore e infelice della vita: quando penso male di Dio penso male di me stesso. Invece del volto di Dio inseguo quello di un idolo, e tutte le idolatrie chiedono il sacrificio dei figli: la carriera, la bellezza, il potere, la sicurezza, l’assolutizzazione delle proprie paure...

 
 
 

Battesimo

Post n°3868 pubblicato il 05 Giugno 2023 da namy0000
 

2023, Ermes Ronchi, Avvenire 5 gennaio

Il Battesimo, l’immergersi in un oceano d’amore

Battesimo del Signore Anno A Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare. Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. E una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».

Tramonto a Patmos, l’isola dell’Apocalisse. Stavamo seduti davanti al fondale magico delle isole dell’Egeo, in contemplazione silenziosa del sole che calava nel mare, un monaco sapiente e io. Il monaco ruppe il silenzio e mi disse: lo sai che i padri antichi chiamavano questo mare «il battistero del sole»? Ogni sera il sole scende, si immerge nel grande bacile del mare come in un rito battesimale; poi il mattino riemerge dalle stesse acque, come un bambino che nasce, come un battezzato che esce. Indimenticabile per me quella parabola che dipingeva il significato del verbo battezzare: immergere, sommergere. Io sommerso in Dio e Dio immerso in me; io nella sua vita, Lui nella mia vita. Siamo intrisi di Dio, dentro Dio come dentro l’aria che respiriamo, dentro la luce che bacia gli occhi; immersi in una sorgente che non verrà mai meno, avvolti da una forza di genesi che è Dio. E questo è accaduto non solo nel rito di quel giorno lontano, con le poche gocce d’acqua, ma accade ogni giorno nel nostro battesimo esistenziale, perenne, in-finito: «siamo immersi in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). La scena del battesimo di Gesù al Giordano ha come centro ciò che accade subito dopo: il cielo si apre, si fessura, si strappa sotto l’urgenza di Dio e l’impazienza di Adamo. Quel cielo che non è vuoto né muto. Ne escono parole supreme, tra le più alte che potrai mai ascoltare su di te: tu sei mio figlio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento. Parole che ardono e bruciano: figlio, amore, gioia. Che spiegano tutto il vangelo. Figlio, forse la parola più potente del vocabolario umano, che fa compiere miracoli al cuore. Amato, senza merito, senza se e senza ma. E leggermi nella tenerezza dei suoi occhi, nella eccedenza delle sue parole. Gioia, e puoi intuire l’esultanza dei cieli, un Dio esperto in feste per ogni figlio che vive, che cerca, che parte, che torna. Nella prima lettura Isaia offre una delle pagine più consolanti di tutta la Bibbia: non griderà, non spezzerà il bastone incrinato, non spegnerà lo stoppino dalla fiamma smorta. Non griderà, perché se la voce di Dio suona aspra o impositiva o stridula, non è la sua voce. Alla verità basta un sussurro. Non spezzerà: non finirà di rompere ciò che è sul punto di spezzarsi; la sua mania è prendersi cura, fasciando ogni ferita con bende di luce. Non spegnerà lo stoppino fumigante, a lui basta un po’ di fumo, lo circonda di attenzioni, lo lavora, fino a che ne fa sgorgare di nuovo la fiamma. “La vita xe fiama” (B. Marin) e Dio non la castiga quando è smorta, ma la custodisce e la protegge fra le sue mani di artista della luce e del fuoco

 
 
 

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