Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Giugno 2024

Il Gandhi italiano

Post n°4031 pubblicato il 30 Giugno 2024 da namy0000
 

Annachiara Valle, FC, da un articolo, n. 26 del 30 giugno

Danilo dolci

Il Gandhi italiano sempre dalla parte dei deboli

 

Nato a Sesana (oggi Slovenia e all’epoca provincia di Trieste) il 28 giugno 1924

Morto il 30 dicembre 1997 (73 anni), 12 figli

 

Sembra di sentirlo parlare oggi, Danilo Dolci. Lui, nel novembre 1955, aveva digiunato per 9 giorni prima che la Cassa per il Mezzogiorno autorizzasse la costruzione della diga sul fiume Jato, sapeva quanto l’acqua contenesse vita, riscatto, futuro. Quell’opera voluta da Dolci continua ad abbeverare Terrasini, Cinisi e la zona occidentale di Palermo.

Se n’è andato troppo presto il sociologo, il poeta, l’intellettuale che sognava un mondo nuovo e si batteva, con la gente comune e con gli intellettuali più in vista italiani e stranieri, per costruirlo. Uomo di confine per la sua capacità di attraversare l’anima, di interpretare i territori, di scendere fin nelle viscere del dolore per aprire brecce di luce, aveva scelto di diventare siciliano e si era immerso nelle contraddizioni di una terra magnifica e terribile. Antifascista convinto, studi di architettura che interrompe per seguire don Zeno a Nomadelfia, appassionato di musica classica, in particolare di Bach, studioso di filosofi come Socrate, approda in Sicilia nel 1952 e da subito comincia a promuovere azioni non violente contro la povertà, l’analfabetismo, la mafia. La sua azione è talmente incisiva che viene soprannominato (come anche il suo amico Aldo Capitini) il “Gandhi d’Italia“.

«Credo che uno sciopero debba essere sempre, oltre che scienza, un’opera d’arte», scriveva Dolci. E lo fu l’idea di portare, a fine gennaio del 1956, decine di piccoli pescatori a digiunare sulla spiaggia contro chi, pescando di frodo, li lasciava senza mezzi di sussistenza. «Voi non avete da mangiare: non avete d vostro altro che la fame. L’unica protesta che vi rimane è questa: la vostra fame. Siete abituati a digiunare, andiamo tutti insieme a digiunare sulla spiaggia del mare. Stiamo a guardare, digiunando, i contrabbandieri protetti dalle autorità, che continuano a far rapina del pesce che la legge vorrebbe riservato a voi». Intanto centinaia di disoccupati asfaltavano una strada comunale abbandonata a Partinico, tra Palermo e Trapani. Furono chiamati “scioperi alla rovescia”, gli unici che potevano permettersi persone che, senza lavoro, non erano certo in grado di protestare astenendosi dalle proprie mansioni.

«Mio padre ci ha insegnato soprattutto questo: a cercare insieme le soluzioni, ad ascoltare tutti», spiega Amico Dolci, uno dei figli di Danilo che oggi continua la sua opera. Il metodo “maieutico”, fatto proprio anche dal Centro psicopedagogico per la pace di Daniele Novara, che lavorò a lungo con lui: «È quello socratico del “tirare fuori”, come fa la levatrice. Piuttosto che riempire gli altri di nozioni, lui cercava di educare. A differenza di Socrate, però, papà sperimentava una maietica reciproca. Lui, cioè, non ha mai pensato di insegnare a qualcuno senza apprendere lui stesso. Il rapporto con i contadini, con i pescatori è pieno di questa reciprocità, per cui ciascuno arricchisce l’altro e si arricchisce dell’altro». Il 2 febbraio quella rivolta pacifica viene fermata dalle forze dell’ordine che arrestano anche Dolci. A difendere i disoccupati, che vengono tutti assolti, e lo stesso Dolci, che sarà condannato a 50 giorni di detenzione, arriva anche il giurista Pietro Calamandrei. E gli imputati diventano i più pesanti accusatori verso uno Stato che non è capace di garantire il diritto al lavoro. Un’esperienza che diventa libro, Processo all’articolo 4 (Einaudi, 1956), scritto quasi interamente in carcere. Tra i testimoni a favore sfilano Giorgio La Pira, Aldo Capitini, Eric Fromm, Jean Paul Sartre, Carlo Levi, Ignazio Silone, Renato Guttuso…

Per spiegare la bellezza e la complessità della famiglia, Amico parte proprio dai nomi dei suoi 11 fratelli e sorelle. «Cinque mamma li aveva avuti da un precedente matrimonio. Era poi rimasta vedova e, quando era andata a dare una mano al Borgo di Dio facendo la volontaria per i bambini poveri, aveva incontrato papà e si erano subito innamorati». E così ai suoi figli, che portavano nomi «biblici, come Salvatore, Giuseppe, Matteo, Giacomo e Paolo, ci siamo aggiunti anche noi». Sposati nel 1953, decidono di chiamare la prima bambina «Libera, perché si usciva dalla guerra e quel nome voleva essere un augurio per tutta la comunità». Poi arriva Cielo, «come omaggio al poeta vicino a casa nostra, D’Alcamo. E poi io, che in realtà ho 5 nomi: oltre ad Amico, Enrico, come il nonno, Aldo, come Capitini, Norberto, come Bobbio, Lucio come Lombardo Radice, il matematico geniale che era di casa. Infine Chiara e Daniela che, in realtà, se non si fosse messa di mezzo la segretaria dell’anagrafe, doveva essere Danila per il grande amore di mamma verso papà. Lui poi si risposò ed ebbe altri 2 figli: Sereno, che vive a Stoccolma, e Ein, a simboleggiare non solo l’unità, ma anche, in svedese, il profumo di ginepro. Questo per dire della poesia e della complessità che aveva».

Una casa sempre aperta - «erano tutti cuginetti, soprattutto chi era senza famiglia o era in difficoltà – in una zona povera dove Dolci insegna i diritti e chiede interventi delle istituzioni. Resta celebre il suo sciopero della fame disteso sul giaciglio dove era morto di denutrizione un bambino di Trappeto, Benedetto Barretta. Chiede che vengano costruite fogne e create opportunità di lavoro. Mobilita il quartiere Spini Santi, uno dei più degradati di Partinico. Marcia con Peppino Impastato contro il potere mafioso. Fa nascere, a Mirto, la prima scuola in cui si sperimenta il suo metodo. Dà vita, nel 1970, alla prima radio libera d’Italia per far sentire a tutti la voce dei poveri cristi delle valli del Belice, dello Jato e del Carboi», come annunciava dai microfoni.

«Fu la prima volta che lo vidi», racconta uno dei suoi amici, Salvo Vitale, professore in pensione di Filosofia. «Eravamo andati a vedere cosa succedeva perché sapevamo che due suoi collaboratori, Franco Alasia e Pino Lombardo, si erano chiusi in una stanza con due bidoni da 50 litri di benzina. Pensavamo fosse una minaccia e che se i carabinieri avessero fatto irruzione avrebbero dato fuoco a tutto. Invece servivano per alimentare il generatore di corrente. Danilo si era messo fuori con un tavolino per lanciare l’appello per la ricostruzione del Belice terremotato». La sua, continua Vitale, era una «vera azione non violenta che traeva forza, sicuramente, dalla formazione cattolica. Ed era capace di andare sempre avanti». Anche quando il cardinale di Palermo Ruffini, nella lettera pastorale del 1964, lo indica, con la mafia e l’opera Il Gattopardo, come una delle piaghe della Sicilia perché contribuisce a darne all’esterno una brutta immagine, «lui non si scoraggia né indietreggia. Scrollava le spalle e andava avanti».

«Anche questo», concorda Amico, «è una delle cose che mi porto come eredità paterna. Lasciar andare le cose negative e pensare al futuro. A quello che si può costruire facendo crescere le nuove generazioni perché, come amava ripetere, “chi guarda avanti di qualche anno pianta alberi, chi guarda avanti di cento anni pianta uomini”».

 
 
 

Dittatura del denaro

Post n°4030 pubblicato il 28 Giugno 2024 da namy0000
 

Scarp de’ tenis, Estratto da una Intervista a Vittorino Andreoli, aprile 2024

La dittatura del denaro. Contro le menzogne dell’economia

Saggio scritto dallo psichiatra e saggista Vittorino Andreoli. Svela come nella società attuale si sia giunti al paradosso in cui il denaro, non più inteso come strumento per dare risposta alle necessità primarie – cibo e sopravvivenza -, e più tardi come misura della qualità della vita, sia diventato un bisogno di per sé.

È l’accumulo della ricchezza, dunque, il desiderio. Un desiderio senza limite, inappagabile. Da qui la dittatura del denaro.

“Tutto parte dall’esaltazione dell’Io e questo è un aspetto psichico che si intravede sempre dove c’è una ricchezza esasperata. Ovvero tutto è centrato su Io Io Io, c’è una progressione del proprio ego che sfocia nella dimensione del narciso, della persona che si innamora di se stessa. Un’eccessiva attenzione all’Io porta naturalmente all’uso del mio, e mie sono le cose che si acquistano con il denaro. Oggi è diventato simbolo di tutte le cose perché per esaudire i desideri dell’Io bisogna avere il denaro, che però non è mai abbastanza…”.

Il denaro ha anche un valore positivo?

“Il denaro nasce nella Grecia antica e aveva una funzione per i commerci. E questa funzione serve anche oggi, da questo punto di vista il denaro è senz’altro uno strumento utile. Non ho niente contro la ricchezza, a condizione che il denaro rimanga uno strumento, non un valore su cui si misurano tutte le cose e, più grave, si misura anche lo stesso uomo… Non è accettabile: legare il valore di un uomo a quanto denaro accumula”.

Nel suo libro dice che è dimostrato che ricchezza e povertà siano collegati, e più concretamente che la povertà è generata dalla ricchezza.

“… L’inutile accumulo dei ricchi potrebbe sanare la lotta per la sopravvivenza dei poveri… I ricchi spendono sempre più denaro proprio per difendere le loro proprietà“.

Passare dalla dittatura del denaro all’economia del bene. È un passo lunghissimo, oggi.

“Dall’Io nasce il mio, allora oggi è tempo di passare da questa economia del mio, a una economia del bene che non riguarda il singolo, ma il noi. Va fatta crescere un’economia della cooperazione – che è già presente nella società – e non del potere: noi guardiamo ancora l’Io nell’accezione del potere, della forza, affermo che la grandezza dell’Io è invece la fragilità”.

Infatti nel libro esalta la fragilità.

“… All’interno di un’economia del bene è diverso il punto di vista, il rapporto non è di forza – Io Io Io – con l’altro inesistente, ma è un rapporto dove c’è il noi. In quel noi ritroviamo la fragilità dell’uomo: è la sua condizione umana…Uno deve tenere conto dell’altro, in questa reciprocità c’è un dono di sé. Quando parlo di fragilità non intendo debolezza… La fragilità è la condizione umana, e non va curata, perché essa permette l’economia del bene… L’uomo che ha interiorizzato la dittatura del denaro e del mio, va in paranoia. Il suo è un vero e proprio delirio di onnipotenza”.

 
 
 

Formati e informati

da Avvenire del 27 giugno 2024

STUPEFACENTI. Piaga per 292 milioni

Aumentati del 20% in 10 anni, con pericoli per salute, ambiente e sicurezza

Il narcomarket. Tenendo conto che stime e dati vanno considerati spesso per difetto, visto che da alcune nazioni non arrivano statistiche aggiornate, per l’Unodc la cannabis resta lo stupefacente più usato (228 milioni di consumatori), poi vengono oppioidi (60 milioni), anfetamine (30 milioni), cocaina (23 milioni), ecstasy (20 milioni). Cresce l’attenzione per i “nitazeni”, gruppo di oppioidi sintetici micidiali, che miete 60.000 morti l’anno negli Usa. Pare che arrivino dalla Cina e sono comparsi in Canada e Stati Uniti, Belgio e Gran Bretagna. Il ritorno dei nitazeni sarebbe correlato al fermo imposto dai Talebani in Afghanistan, ma fatto crescere quella in Myanmar. Si stima che 64 milioni di persone in tutto il mondo soffrano di disturbi da uso di droghe. In alcune aree del Pianeta, come il Triangolo d’Oro (zona montuosa fra Myanmar, Laos e Thailandia), i narcos diversificano, praticando pure l’estrazione illegale di risorse. La coltivazione di foglie di coca aumenta sempre più. L’aumento prolungato di domanda e offerta fa crescerela violenza negli Stati lungo catena di approvvigionamento, in particolare in Ecuador e nei Caraibi. La legalizzazione in certe parti del mondo ha accelerato l’uso dannoso della droga. È meglio investire di più nella prevenzione.

Uno tsunami, peggio che negli anni 1980

“La dipendenza è il sintomo del malessere, non la causa. In comunità abbiamo 3 14enni, non capitava nemmeno degli anni 1980, durante la tremenda stagione dell’eroina. Uno scenario drammatico, quasi disperato, popolato da giovani che cercano di riempire con la droga il vuoto esistenziale. 40 anni fa era un disastro, ma attenzione: non esisteva la rete di servizi che c’è adesso. Eppure, nonostante gli strumenti di cui disponiamo ora, siamo travolti da uno tsunami identico se non peggiore. Ai ragazzi fa male soprattutto una cosa: sentirsi soli anche se stanno in mezzo agli altri. Mancano di sostegni che li aiutino a crescere rettamente. Papà e mamme che si sottraggono alle loro responsabilità, delegando l’educazione agli specialisti. Troppi adulti non hanno lasciato tracce nel vissuto dei loro figli, cresciuti a patatine e smartphone. Così non sorprende la massiccia rincorsa di questi anni agli psicologi. E l’aspetto più sorprendente è che gli stessi ragazzi gradiscono questo approccio. Perché quando vengono da te ti dicono: i miei mi danno sempre ragione, invece parlare con lo specialista mi aiuta a mettere in fila i pensieri e a mettermi in discussione. Non basta più descrivere la realtà, occorre risalire alle cause di una spirale sempre più perversa. Il tema è perché si usa quella sostanza. I ragazzi faticano sempre più spesso a dare un significato alle loro giornate, basate su una routine anestetizzante. Non a caso aumentano gli atti di autolesionismo, bulimia e anoressia. Così come crescono a dismisura rabbia, ansia e attacchi di panico. La solitudine non fa che amplificare il disagio. Ecco perché bisogna esserci, semplicemente. Bisogna cercare i ragazzi e tirarli fuori dal tunnel. Senza prediche né costrizioni, solo con pazienza e voglia di proporre alternative. Ci sono utenti che di fatto sono ancora dei bambini: banalmente, giocare con loro li fa sentire meglio. Così come svolgere insieme alcune attività: sono attenzioni gli aveva mai dato. Con gli educatori invece nascono relazioni vere, che producono impatti positivi. La nostra comunità tiene i cancelli aperti, eppure i nostri ospiti non tentano di scappare. Credono nel percorso che si sta facendo al punto che, quando ne escono, molti si fermano a dare una mano a chi ha le stesse fatiche. E per chi cade in una dipendenza vale tantissimo potersi confrontare con chi è riuscito a superarla”. Relazioni dunque, dunque. Sincere e generose. “Abbiamo una cinquantina di giovani che vengono a darci una mano d’estate e in inverno, con le zanzare e con il gelo. C’è anche chi non ha voluto mancare nemmeno il giorno dell’esame di maturità, a sottolineare quanto credono nel loro impegno”. Sono gesti che servono come antidoto al contagio del materialismo dilagante. “C’è in giro un pensiero fisso: fare soldi, avere soldi. Si spaccia per averne sempre di più, per vestirsi bene. Alcuni non chiedono nemmeno più la paghetta settimanale, e i genitori non si chiedono il perché…”.

 
 
 

Didattica interattiva

2024, Giovanna Sciacchitano, Avvenire, 26 giugno

Educazione. Un videogame per salvare i giovani hikikomori

Gabriola Chetta, mamma e biologa, Cooperativa Ippocampo, ha presentato un videogioco che sollecita gli adolescenti "ritirati" a uscire dalla propria stanza grazie alla sfida proposta da un avatar

La realtà lasciata fuori dalla porta può rientrare dalla finestra di uno schermo grazie a un videogioco. È il progetto “Avatar School” per agganciare i ragazzi hikikomori, giovani che si chiudono in camera senza uscire di casa e che in Italia sono ormai circa 60mila. L’intuizione si deve a Gabriola Chetta, biologa e responsabile della cooperativa sociale Ippocampo di Vimercate, che ha presentato l’iniziativa nei giorni scorsi a Bologna nel corso della convention del Gruppo cooperativo Cgm sulle direzioni dell’economia sociale.

«L’idea è nata durante il convegno Mal-Essere Digitale del gennaio scorso in cui si rifletteva su un sistema per limitare l’abbandono scolastico a seguito di malessere e reclusione sociale in casa – spiega Chetta -. Ascoltando gli interventi di Riccardo Scognamiglio, psicologo dell’Associazione Dipendenze Tecnologiche Gap, Cyber bullismo e di Marco Crepaldi, psicologo e fondatore del progetto Hikikomori Italia, ho pensato che occorresse fare qualcosa e con il tempo ho pensato di partire proprio dai videogiochi. L’intento è quello di utilizzare un gioco con un avatar (alter ego, ndr) che proponga sfide a vari livelli fino ad arrivare ad alcune prove che si trasferiscono fuori dalle mura domestiche».

Ippocampo è una cooperativa nata dall’Associazione MamySostenibile, un gruppo di mamme e professioniste che hanno deciso di iniziare a cambiare qualcosa nel mondo in cui viviamo invece di lamentarsi. Uno dei progetti è DSApp, dedicato alle Diverse Strategie di Apprendimento, con una visione alternativa rispetto ai Disturbi Specifici di Apprendimento (Dsa). «Prendiamo la dislessia – chiarisce Chetta -. Essere dislessici comporta avere un modo di ragionare fuori dagli schemi, una mente visiva, senza per questo essere meno intelligenti. La persona con Dsa elabora le informazioni in maniera olistica, cioè riesce subito a vedere il quadro generale della situazione. Questo porta ad avere grandi potenzialità e grande creatività, ma grosse difficoltà a livello scolastico dove la didattica è tutta strutturata in maniera sequenziale e basata su parole scritte».

Dal suo osservatorio Chetta è convinta che una gran parte dei ragazzi ritirati abbia un disturbo dell’apprendimento (“se vado male a scuola mi rinchiudo” è il pensiero di molti) e racconta: «Tre anni fa abbiamo realizzato Ipposchooling, una didattica interattiva che prevede un percorso con il digitale e il cartaceo e in parallelo un percorso di crescita di intelligenza emotiva. I ragazzi di oggi stanno creando nuove connessioni cerebrali, tutte visive. Per questo pensiamo che ciò che va bene per chi ha disturbi dell’apprendimento oggi possa andare bene per tutti». Ippocampo propone strategie e tecnologie digitali per aiutare i ragazzi a scoprire le proprie potenzialità e diventare autonomi nello studio e nella vita, strategie che da ottobre si applicheranno anche agli hikikomori.

«Partiremo con un progetto pilota con dieci ragazzi vicini alla nostra sede – spiega -. I primi due mesi faremo conoscenza e, una volta che li avremo agganciati, proporremo delle uscite fuori dal perimetro della stanza. Il nostro compito è trovare un “pensiero felice” che spinga i giovani a esplorare il mondo. Stiamo cercando sponsor per costruire un metaverso ad hoc. In alternativa utilizzeremo “Minecraft”. Questo progetto sarà replicabile presso altre cooperative sociali, in modo che si riesca a coinvolgere il territorio, la scuola e gli assistenti sociali». Così, i tanto vituperati videogiochi possono diventare uno strumento per aprirsi al mondo.

 
 
 

Uno scempio

Post n°4027 pubblicato il 27 Giugno 2024 da namy0000
 

2024, Avvenire, 26 giugno

Conversione. Se il Papa dice di pregare per i criminali che danno la droga ai giovani

Se la parola del Papa è rivolta al mondo intero, in modo del tutto particolare, è indirizzata ai cristiani cattolici. Bene faremmo, quindi, noi che diciamo di esserlo, a prestare ascolto, i suoi non sono semplici consigli, ma molto di più. Nell’ Udienza Generale di mercoledì 26 giugno, Francesco, parlando delle droghe, tra l’altro, ha detto: «Preghiamo per questi criminali che danno la droga ai giovani. Sono assassini, criminali, preghiamo per la loro conversione».

Il pensiero è corso subito alla mia parrocchia, definita, in questi anni, «una delle più grandi piazze di spaccio d'Europa». Droga a fiumi, via vai di giovanissimi alle prime esperienze, di consumatori abituali, di "veterani" in crisi di astinenza. Morti di overdose - quanti! - rimasti appoggiati a un albero di noci, con ancora la siringa nella vena, a volte per intere settimane. Ambulanze che arrivavano con il personale medico per tentare di afferrare per i capelli all'ultimo minuto il malcapitato. E bambini e ragazzini di ogni età che assistevano incuriositi e inorriditi a scene del genere. Tra i curiosi accorsi, non di rado, c'era anche chi, un'ora o un giorno prima aveva venduto alla vittima quella dose di veleno. Genitori che, avvertiti dalle forze dell'ordine, arrivavano piangendo, amici e conoscenti che, tra le erbe alte, continuavano a chiamare il nome dello scomparso. E pensare che chi a questi sciagurati vendeva la dose di morte giornaliera erano anche i miei parrocchiani o quelli di tanti miei confratelli. Verso di loro abbiamo un dovere da assolvere. Gente che chiede di battezzare i figli e di benedire i loro morti. E che - non poche volte - a bassa o ad alta voce, dice, chiaro e tondo, che il parroco non deve entrare in questi discorsi. Non è suo compito. Deve farsi i fatti suoi; a lui spetta pregare e celebrare; parlare di Gesù e della Madonna; programmare la festa patronale e le processioni.

La fede, per loro, è questa e solo questa. Una fede inutile, di più, ipocrita e dannosa, dalla quale i giovani rifuggono. Spero che delle parole di Francesco, ciascuno, per la sua parte, ne sappia far tesoro. Il Papa parla ai grandi produttori, ai trafficanti internazionali, ai commercianti, e ai piccoli spacciatori. Si rivolge a chi con la droga ha costruito un impero e a chi con lo spaccio di quartiere nutre la famiglia. Tutti - a vari livelli -sono responsabili di questo scempio che vede marcire e morire sotto i nostri occhi il fior fiore della gioventù. Ho avvertito le parole di Francesco alla stregua di quelle che rivolse agli ‘ndranghetisti in Calabria: «I Mafiosi sono scomunicati, non sono in comunione con Dio». O al grido di Giovanni Paolo Il nella Valle dei Templi ad Agrigento, il 9 maggio 1993: «Dio ha detto una volta: non uccidere... lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!» Francesco, mercoledì, lo ha gridato da San Pietro: «Preghiamo per questi criminali che danno la droga ai giovani. Sono criminali, assassini, preghiamo per loro».

E se ve lo dice il Papa, cari fedeli, che volete continuare a camminare con due piedi in una scarpa, ci potete credere. Nessuno più di lui vi ama e vi dice la verità. Pentitevi, allora, fate marcia indietro, cambiate vita. Smettetela di scimmiottare la fede, illudendo voi stessi e i vostri figli. Abbiate il coraggio delle vostre azioni. Siamo tutti peccatori, è vero. Tutti bisognosi della misericordia di Dio, è vero. Ma tutti siamo chiamati almeno a non fare male al prossimo. La droga è un pozzo senza fondo. Un abisso fetido e buio. Di questa maledizione si nutrono le mafie e il malaffare. Dalla droga nascono contese, invidie, gelosie, litigi, omicidi. Iniziamo noi, altri si accoderanno. Nessuno creda che per quanto limitato il suo pentimento e la sua conversione non possono giovare al mondo. Niente è piccolo di ciò che è fatto per amore. Iniziamo noi cristiani cattolici a mettere in pratica le parole di papa Francesco che, a ben guardare, sono le stesse di nostro Signore Gesù Cristo: «Ama il prossimo tuo come te stesso».

 
 
 

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