Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Luglio 2024

Siamo come fogli di carta

 

2024, Avvenire, 10 luglio

A Hiroshima la sfida delle religioni per la pace

Hiroshima è un luogo profondamente simbolico, perché testimonia le conseguenze di una tecnologia distruttiva e la necessità di una duratura ricerca della pace. Alla tragedia della bomba atomica è associata la figura di Sadako Sasako, una bambina giapponese che quando fu sganciata la bomba atomica su Hiroshima, il 6 agosto 1945, aveva solo due anni. Dopo l’esplosione, Sadako non riportò ferite visibili immediate ma dieci anni dopo, nel 1954, le fu diagnosticata una forma di leucemia causata dalle radiazioni. Durante il suo ricovero in ospedale, Sadako iniziò a realizzare gru di carta secondo la tecnica dell’origami. Si ispirava, in questo suo gesto, a una leggenda giapponese secondo la quale chi piega mille gru vedrà esaudito il proprio desiderio. Nonostante la malattia e i dolori costanti, Sadako riuscì a piegare 1.300 gru prima di morire, il 25 ottobre 1955.
Il suo desiderio non venne esaudito, ma la sua determinazione e la sua speranza sono da allora state di ispirazione per innumerevoli persone in tutto il mondo. Dopo la sua morte, gli amici e i compagni di scuola avviarono una raccolta fondi per costruire un monumento che commemorasse sia Sadako che tutti i bambini vittime della bomba atomica.
Nel 1958 fu inaugurato il Monumento alla Pace dei Bambini nel Peace Memorial Park di Hiroshima: raffigura Sadako che tende una gru d’oro verso il cielo. Il gesto di piegare gru di carta è diventato un simbolo internazionale di pace.
Ogni anno, milioni di gru di carta vengono inviate al monumento da tutto il mondo come tributo e preghiera per la pace. Nessun’altra città incarna in modo così vivido l’urgenza di garantire che la tecnologia sia una forza per il bene. Questo è un messaggio centrale nella “Rome Call for AI Ethics”. Ciascuno di noi conosce la propria fragilità e debolezza di fronte ai grandi mali che oggi sconvolgono il mondo: siamo come fogli di carta, piegati dalla storia e dagli eventi delle guerre che ancora oggi sconvolgono il mondo. Tecnologie come le intelligenze artificiali non fondono né riducono in cenere le strutture in cemento e mattoni in cui abitiamo, ma hanno potenzialmente la capacità di distruggere il collante stesso del nostro convivere. Le intelligenze artificiali generative possono fondere la nostra capacità di convivenza, possono erodere la fiducia nell’altro e trasformarci in nemici: fuori da ogni controllo etico, le IA generative hanno il potere di hackerare il nostro sistema operativo culturale.
Abbiamo quindi bisogno di guardrail etici: abbiamo bisogno di algoretica. Ma questo deve essere fatto con il contributo concorrente della grande tradizione di sapienza umana che le religioni raccolgono e trasmettono. L’evento “AI Ethics for Peace” ad Hiroshima ha riunito i leader della maggior parte delle religioni del mondo per firmare la “Rome Call for AI Ethics”. Questo evento è stato promosso dalla Pontificia Accademia per la Vita, da Religions for Peace Japan, dall’Abu Dhabi Forum for Peace e dalla Commissione per le relazioni interreligiose del Gran Rabbinato di Israele. L’evento ha visto la partecipazione di figure di spicco come il reverendo Yoshiharu Tomatsu, presidente di Religions for Peace Japan, monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, Sheikh Abdallah Bin Bayyah, presidente del Forum per la Pace di Abu Dhabi, e Rabbi Eliezer Simha Weisz, membro della Commissione per le Relazioni interreligiose del Gran rabbinato di Israele. Oltre ai leader religiosi, erano presenti anche rappresentanti di importanti aziende tecnologiche come Microsoft, Ibm e Cisco. Anche Amandeep Singh Gill, inviato del segretario generale delle Nazioni Unite per la tecnologia, ed Eriko Hibi, direttrice dell’ufficio di collegamento Fao in Giappone, hanno partecipato all’evento. Firmando la Rome Call in questo storico evento multireligioso, i leader religiosi hanno riaffermato l’impegno a garantire che l’intelligenza artificiale sia utilizzata per il bene dell’umanità. Questo evento sottolinea l’idea che affrontare le sfide poste dall’IA richiede uno sforzo collettivo e un lavoro continuo da parte di tutte le parti interessate, comprese le organizzazioni, i governi, le aziende tecnologiche e le istituzioni religiose. Da oggi, dopo la firma dei leader delle principali religioni del mondo, la “Rome Call for AI Ethics” rappresenta semplicemente la maggioranza delle persone del pianeta. La Call si basa su sei principi fondamentali: trasparenza, inclusione, responsabilità, imparzialità, affidabilità, sicurezza e privacy. Questi principi sono particolarmente rilevanti nel contesto dell’IA generativa, un campo in rapido sviluppo con il potenziale per rivoluzionare molti aspetti della vita. L’Addendum di Hiroshima, presentato durante l’evento, evidenzia l’importanza di applicare i principi della Rome Call all’IA generativa per garantirne un utilizzo responsabile ed etico. Tra i vari aspetti, l’Addendum sottolinea la necessità di trasparenza, affermando che ciò che viene generato dalla macchina deve essere immediatamente riconoscibile come tale. Enfatizza l’inclusione, sottolineando che gli strumenti di intelligenza artificiale devono rispettare la diversità delle culture, delle tradizioni e delle lingue umane. L’impegno dei firmatari della Call va oltre la semplice enunciazione di principi etici; si estende alla responsabilità per lo sviluppo e l’implementazione dell’IA. Ciò include la considerazione dell’impatto a lungo termine di queste tecnologie sull’ambiente e sulla società. Hiroshima ha chiamato a raccolta uomini di buona volontà provenienti da ogni parte del mondo per realizzare una effettiva algoretica. Ora spetta a ciascuno di noi rispondere a questo impegno globale portando il proprio contributo.

 
 
 

Vivere o sopravvivere

Post n°4036 pubblicato il 11 Luglio 2024 da namy0000
 

2024, Avvenire, 10 luglio

Manuel, malato di Sla, benedice il suo amico vescovo

Dall’altare di piazza Unità il vescovo di Trieste, monsignor Enrico Trevisi, domenica ha invocato la benedizione di papa Francesco «su Manuel, un giovane malato di Sla, e su tutti i malati di Sla e di altre gravi patologie».

Ma chi è Manuel Riccio Bergamas? Ha 37 anni ed è ammalato di Sla da quando ne aveva ventuno. È a letto, immobilizzato, muove soltanto gli occhi. Per comunicare usa un puntatore ottico, un computer che tiene sopra la testa, in grado di leggere il movimento delle pupille. «Io voglio vivere, non sopravvivere», ha spesso scritto. Il vescovo lo ha chiamato per nome davanti al Papa e alla folla di piazza Unità. «Sì, lo conosco – confida Trevisi –. La patologia era stata diagnostica addirittura nel 2008 e Manuel era ventunenne quando i primi sintomi avevano iniziato a manifestarsi. La sua vita è cambiata radicalmente, ora è immobilizzato in un letto, non ha potuto proseguire l’università. Ma ha lottato e continua a lottare, tant’è che vive in un appartamento che gli è stato dato con un’assistenza 24 ore su 24. Le condizioni del suo fisico sono peggiorate gradualmente, non può respirare, mangiare o bere da solo, eppure Manuel ha un grande cuore ed è attentissimo a quello che succede nel mondo».

Sono stati un prete e un amico di Trieste che dopo il suo arrivo in città hanno accompagnato monsignor Trevisi a conoscerlo. «Ho cominciato qualche volta, in loro compagnia, ad andare a trovarlo la sera. Manuel talvolta mi stupisce perché prende lui l’iniziativa mandandomi un messaggio via whatsapp attraverso il puntatore ottico con il quale mi invia la sua benedizione e l’augurio di una buona giornata, e devo dire che la cosa non solo mi sorprende ma è una carica di grazia per l’intera giornata. Lui adesso continua a studiare, continua a impegnarsi, continua a essere interessato a quello che avviene».

Un suo messaggio prima della visita del Papa invocava la pace, da una città iconica come Trieste per lingua, culture, fede, opportunità, talvolta contraddizioni, fatiche, ma anche tante speranze. «Manuel – aggiunge il vescovo – chiedeva al Papa di continuare a impegnarsi e a lottare per la pace, a chiedere ai potenti di mettere al bando le armi nucleari e mettere al bando la guerra. Ecco, Manuel è questo. Lui, immobilizzato, non può parlare se non tramite gli occhi, eppure continua a essere attento al mondo intero e alle sofferenze delle persone – racconta Trevisi –. Penso che ci insegni a non essere ripiegati soltanto su sé stessi ma ad avere uno sguardo rivolto al mondo intero. Io ringrazio Manuel, ma ho rivolto la benedizione del Papa su Manuel e su tutti gli ammalati di patologie gravi perché nelle vita talvolta ci possono essere fasi che diventano particolarmente pesanti. E allora ecco l’augurio, il bisogno di una benedizione, perché Manuel e tutte le altre persone possano sentirsi sempre nel cuore di Dio ma anche nel nostro cuore, della Chiesa e di tanti amici, vicini di casa, persone che magari occorre rallentino un poco per stargli vicino. Ma farlo è una grazia».

È una grazia, spiega ancora il vescovo, avere il suo cuore capace di attenzione verso tutto quello che sta succedendo nel mondo, con una responsabilità, una chiamata di Dio a non starsene rinchiusi: «Il Papa ha parlato del cancro dell’indifferenza e di essere invece capaci, nel nome di Dio, di assumerci la responsabilità di costruire un mondo diverso di giustizia e di pace».

 
 
 

Storia di una donna

Post n°4035 pubblicato il 10 Luglio 2024 da namy0000
 

2024, Avvenire, 9 luglio

Filomena Pennacchio, la brigantessa che passò dalla selva al rosario

Valentino Romano ricostruisce la vicenda delle donne che, in Lucania a fine '800,si unirono alle bande guidate dai loro uomini. Furono tutte arrestate, ma non giustiziate

 

Filomena Pennacchio (1841-1915) (74 anni)

 

Finalmente un libro su Filomena Pennacchio, una delle brigantesse più fascinose delle lotte postunitarie italiane, prova a raccontare la vita della brigantessa lucana liberandola delle notizie romantiche e fantasiose tramandateci dalla narrativa e dalla saggistica di fine Ottocento. Il libro è curato da Valentino Romano, esperto di brigantaggio e di biografie banditesche, Filomena Pennacchio la regina delle selve. Storia e storie delle donne del brigantaggio, (Carocci, pagine 216, euro 22,00).

Consultando l’Archivio storico della Camera dei deputati e l’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito alla voce “Brigantaggio”, il Romano ha modo di ricostruire l’effettiva vicenda biografica di Filomena Pennacchio e quella di molte altre donne cadute nelle mani di briganti postunitari, dalle sorelle Ciminelli di Francavilla sul Sinni a Cherubina Di Pierro di Ferrandina a Concetta Di Muro di Melfi e al numero infinito di donne che “abitarono la selva” e poi le galere, ognuna legata alla banda di un brigante più o meno famoso.

Filomena nacque a San Sossio da famiglia povera ed è lei stessa a raccontare davanti al Tribunale militare il suo destino di donna costretta alla macchia. Sostiene di avere 20 anni (ma è una furbata per godere della clemenza riservata ai minorenni) di essere orfana e di essere stata costretta a lavorare in campagna per vivere. «Nell’agosto del 1863, mi trovava a lavorare nella masseria Collamisso, di proprietà di Nicola Misso, in un giorno che più non ricordo, si presentò colà Schiavone colla sua banda. A quella vista mi nascosi impaurita sotto un mucchio di paglia; ma avvedutosene quel brigante venne a trarmi fuori dal mio nascondiglio. E afferratami per un braccio, mi costrinse a montare in groppa al suo cavallo. Non valsero le preghiere e i pianti perché mi lasciasse libera, ma volle condurmi al bosco dopo aver percosso il padrone e il curatolo di quella masseria perché intercedevano per me».

In realtà, questa fu una dichiarazione fatta sotto interrogatorio dalla ragazza che era allora di ventitrè anni e non di venti. Non le servì a molto, perché la condanna fu pesante. Sappiamo che Filomena incontrò la prima volta Schiavone il 7 aprile 1862. La scelta della costrizione, spiega Romano, fu adottata da quasi tutte le donne che si accompagnarono a bande brigantesche. Così deposero Maria Giovanna Tito, donna di Crocco, Giuseppina Vitale, donna di Sacchitiello, Filomena Di Poto, donna di Tranchella, Giocondina Marino, rapita da Alessandro Pace e Filomena Cianciarulo, amante di Nicola Masini.

L’analisi del Romano è puntuale nel descrivere le scorrerie di Filomena Pennacchio in compagnia di Schiavone. Nell’ottobre del 1862 è a Trevico attiva in un’estorsione, il 7 aprile 1863 è a Vallata dove ruba dei cappotti e un capretto, in luglio è a Orsara nel furto di una mula, il 4 luglio è a Sferracavallo con una banda di settanta uomini che attaccano un drappello del 45° reggimento di linea. Un soldato depose che «Filomena aveva in mano un grosso pistolo di cavalleria e nel tirare i colpi gridava “uccideteli tutti”... era la più franca ad assalire col cavallo che inforcava la forza e ad offenderla con continue esplosioni di una grossa pistola... con due colpi di quell’arma ridusse cadaveri due di quei prodi... si batteva con un coraggio sorprendente e sparava come un uomo, anzi era più spietata».

Nel descrivere l’epilogo della vicenda banditesca dei due amanti, Romano smentisce categoricamente l’episodio romantico della visita di Schiavone a Filomena narrata da De Witt e dal medico militare Basilide Del Zio. Lo Sparviero, catturato in tenimento di Candela fu tradotto nelle carceri di Melfi. Qui, nella speranza di un addolcimento di pena il bandito dettò una lista di nomi di compagni sparsi nei territori lucani. Tra questi fece il nome di Filomena che venne arrestata in casa di una levatrice, Angela Battista Prato. Filomena venne rinchiusa nel carcere di Melfi e contribuì con le sue deposizioni alla cattura della Tito e della Vitale. Insieme a Concetta Di Muro e a Luisa Gisi, riconosciute colpevoli di brigantaggio furono condannate a venti anni di lavori forzati. Altre trentacinque donne furono condannate a cinque o dieci anni di carcere semplice o di lavori forzati, altre ventisei popolane furono assolte. Il registro delle pene racconta che per buona condotta o per indulto dovuto ad eventi come il matrimonio del principe Umberto con Margherita gli anni vennero dimezzati. I tribunali non comminarono mai condanne a morte alle donne, se non nell’unico caso di Maria Oliverio, detta Ciccilla. Condanna che fu tramutata in carcere a vita.

Il 30 giugno 1865 Filomena Pennacchio venne condannata a vent’anni di lavori forzati, nonostante lo stesso colonnello Pallavicini scrivesse ai giudici che la donna aveva aiutato alcuni soldati e aveva dato notizie sui nascondigli di altre bande. Valentino Romano attacca i De Witt e i Del Zio, tuttavia non va sottaciuto che senza costoro non avremmo focalizzato la sua e nostra attenzione su figure come la Pennacchio. Così continua col discutere intorno alle condanne di genere, ovvero la clemenza che i tribunali mostrarono verso l’universo femminile e scopre la traduzione delle condannate verso carceri del Nord Italia. Filomena, come la Oliverio furono tradotte all’Ergastolo femminile di San Salvario di Torino, dove furono affidate alle suore di San Vincenzo. Nel 1872 Filomena si vide ridurre la pena a sette anni e dai lavori forzati passò a un carcere meno duro e poi liberata. Forse visse a servizio presso qualche famiglia e il 19 aprile 1883 sposò il commerciante di olio Antonio Valperga, con il quale condusse una vita borghese ma tranquilla. Nel carcere Filomena aveva imparato a leggere e scrivere, grazie alle suore vincenziane. Lo comprendiamo dalla firma in calce al documento di matrimonio e che sostituisce un eventuale segno di croce. La regina delle selve si era redenta ed era passata dalle pistole al rosario. Su di lei è in corso di realizzazione un docufilm, Io sono la briganta, e la ricerca dei luoghi ha permesso di individuare la data di morte, impressa sulla tomba, fossa 594, nel cimitero di Torino: il 17 febbraio 1915.

 
 
 

Un incontro ti salva la vita

Post n°4034 pubblicato il 10 Luglio 2024 da namy0000
 

2024, don Maurizio Praticiello, 9 luglio

La «bella» morte di maestra Sofia

Un incontro ti salva la vita, un incontro ti rovina la vita. Occhio, dunque. Quel che siamo oggi - nel bene e nel male- è il risultato di persone conosciute, insegnamenti ricevuti, esperienze fatte. Non si smette mai di imparare. Davvero “gli esami non finiscono mai”. Notte in bianco, quella tra sabato e domenica, accanto a una donna che si va spegnendo. Non è una persona qualsiasi, e anche se non mi legano ad essa vincoli di sangue, ha avuto nella mia vita una importanza fondamentale. È stata lei, infatti, che mi ha insegnato a leggere e a scrivere. Come per tutti i bambini del mio paese, in casa e tra noi si parlava in napoletano, cosa, questa che ci penalizzava non poco a scuola. Ed ecco, che lei, la cara signora Sofia, scendere in campo, e per insegnarci la storia, prima ci racconta il fatterello come se fosse accaduto ieri; poi, dopo essersi convinta che avessimo davvero compreso, si faceva seria, e passava a insegnare che cosa, dove, perché, quando erano accaduti quegli eventi. E come ridirli in italiano. Nessun nostro genitore si sarebbe sognato di contraddire la maestra. Guai a noi se a casa provavamo a lamentarci di lei. La complicità tra loro era totale. Un ottimo connubio tra genitori e maestri che ha dato buoni frutti. Insegnare non è ripetere stancamente cose imparate prima. È passione, convinzione, amore per il proprio lavoro, e, soprattutto, per chi ti sta davanti. È intravedere in ognuno di quei volti di bambini, l’uomo che sarà domani. È capire che una parola - una sola parola - detta con garbo, magari accompagnata da una carezza, può ridare a chi è convinto di dover mollare la forza di sperare ancora. Alla maestra Sofia, debbo tanto. Figlio di genitori analfabeti, ma intelligenti e onesti fino a farsi male, da lei ho ereditato il gusto per lo studio. Ormai anziana e malata, ma sempre lucida, ironica, buona e disponibile con tutti. Ho avuto la grazia di rimanerle accanto, insieme alla famiglia, durante l’agonia. Avevo compreso che era per lei l’ultima notte in questo mondo, la più terribile, la più importante, la più misteriosa. La più vera. E la maestra, grande come sempre, ha fatto il suo dovere fino in fondo. Se negli anni passati ha insegnato con la parola, con le opere, con l’esempio, stavolta sapeva di dover fare un passo in più. E non si è tirata indietro. Doveva insegnare con la sua stessa vita. Ed eccola, mentre esercita per noi il suo altissimo magistero. Eccola salire sulla cattedra più alta. Eccola strappare come una guerriera gli ultimi respiri a una vita dedicata alla famiglia, agli amici, alla scuola, alla fede. Per i figli è terribilmente doloroso assistere impotenti all’agonia della propria mamma. I corti circuiti, però, non sono ammessi. Il calice deve essere bevuto fino in fondo. Sono momenti di una importanza estrema. Nulla deve andare perduto di quei lunghissimi, interminabili, estenuanti momenti. Il chicco deve marcire per produrre la spiga. Nulla deve essere sprecato. Occorre raccogliere i pezzi avanzati. Come sono piccole le cose, come stupidamente inutili i risentimenti. Odi, gelosie, invidie, guerre, orgogli, avarizie, prepotenze? Ma di che parlate? Che dite? In discorso vi imbarcate? Lentamente si ritorna neonati, privati finanche della parola e della volontà. Occorre bagnare le labbra screpolate, asciugare il sudore, sistemare la testa sul cuscino. Occorrono mani pietose e cuori grandi. Lacrime sincere e amici veri. Davide le sussurra all’orecchio: «Nessuna paura, nonna… Siamo tutti qui… tranquilla, lo sai, ti vogliamo tutti bene…». Caro, caro Davide non sa, non può sapere che la nonna gli sta, ci sta, facendo l’ultimo regalo. Sta dicendo a tutti: «E adesso, ragazzi, se davvero avete imparato la lezione, mettetela in pratica… vi siete accorti che solo dell’amore hanno bisogno gli uomini? E che solo dall’amore di un Dio folle, potevano essere salvati? Promettetemi di non dimenticarlo mai…». Alle prime luci dell’alba di domenica scorsa, Sofia ha restituito a Dio il respiro che le riempi i polmoni al momento della nascita. Emozione fortissima. Commozione. Lacrime. Poi: «Ora lascia, Signore, che la tua serva vada in pace secondo la tua parola... Venite santi di Dio, accorrete angeli del Signore…». Funerali. Mi ritorna in mente “La morte del cardellino” di Guido Gozzano. Tita, un bambino, in giardino, piange mentre sotterra il suo cardellino. Dalla finestra il poeta lo vede, e commosso, canta: «Ben io vorrei sentire sulla fossa della mia pace il pianto di un bimbo. Piccolo morto, la tua morte è bella». Maestra Sofia, la tua morte è bella perché bella è stata la tua vita.

 
 
 

Lettera a una ragazza del futuro

Post n°4033 pubblicato il 08 Luglio 2024 da namy0000
 

LETTERA A UNA RAGAZZA DEL FUTURO

Questa lettera è quella che Concita (De Gregorio) vorrebbe indirizzare a te, ragazza del futuro, ma saggiamente intuisce che non vorresti leggerla ora: forse non ti va di ascoltare i consigli degli adulti, vuoi solo correre o restare ferma a guardare proprio loro che si affannano senza un perché.

È una lettera di quelle che si scrivono con una calligrafia obliqua e si mettono in una busta di carta, una cosa strana, che non si vede più.

Sarà bello riscoprirla, un giorno, magari in un libro o in una scatola. Un dono inaspettato, parole che scorrono al ritmo dolce del pensiero per te, ragazza del futuro, ma soprattutto per la ragazza che ciascuna di noi è stata o vuole ancora essere. Oggi e per sempre”.

 

alcuni consigli, parole dolci, amare, crude che l'autrice dedica alle generazioni di donne di domani e alla sé stessa del passato. Sii gentile, scrive. Appassionata e gentile. Poi ribellati, ma scegli tu a che cosa, ignora le convenzioni e l’arroganza, resta intatta, non avere paura ma se dovessi averla ricorda che ti serve per avere coraggio: soprattutto, diventa tu stessa il mondo che vorresti”.

Pubblichiamo qui alcuni estratti e illustrazioni tra quelle di Mariachiara Di Giorgio che arricchiscono le parole della scrittrice e giornalista di immagini, così che possano iniziare a sedimentarsi nei ricordi delle ragazze e delle donne, da qualche parte.

Sii gentile, ragazza del futuro.

Appassionata e gentile.

Lo so che i consigli non servono, che nessuno impara

da nessuno se non dai propri errori.

Lo so che le raccomandazioni degli adulti

sono insopportabili. Soprattutto sono inutili.

(…)

Sii gentile, ti dico e mi dico.

Se una sola cosa dovessi scegliere sarebbe questa.

Non demordere, insisti, non lasciarti ingannare da chi

ti racconterà che essere gentili è una debolezza,

che è quello che ci si aspetta dalle femmine.

Non è così

(…)

La gentilezza non ha sesso, è la qualità fondamentale

degli umani: alcuni la conservano, altri – sfortunati –

la smarriscono.

Ribellati, sempre, a chi ti dice come essere:

scegli tu a cosa ribellarti, non farti condizionare mai.

Tutto il resto verrà di conseguenza.

(…)

Potrai essere irregolare, indecente, imprevedibile.

Potrai essere infelice a volte, e scontare la solitudine.

Se resti quello che sei, anche quando qualcuno

proverà a farti sentire in colpa e in errore, non sarai

mai in errore. Non è una gara, non è una lotta, non è

una guerra, la vita.

(...)

Tutti abbiamo segreti.

Tutti sbagliamo, e sbagliamo ancora.

Tutti abbiamo paura.

(…)

Incarna il mondo che vorresti. Diventalo.

 
 
 

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