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Messaggi del 10/07/2024

Storia di una donna

Post n°4035 pubblicato il 10 Luglio 2024 da namy0000
 

2024, Avvenire, 9 luglio

Filomena Pennacchio, la brigantessa che passò dalla selva al rosario

Valentino Romano ricostruisce la vicenda delle donne che, in Lucania a fine '800,si unirono alle bande guidate dai loro uomini. Furono tutte arrestate, ma non giustiziate

 

Filomena Pennacchio (1841-1915) (74 anni)

 

Finalmente un libro su Filomena Pennacchio, una delle brigantesse più fascinose delle lotte postunitarie italiane, prova a raccontare la vita della brigantessa lucana liberandola delle notizie romantiche e fantasiose tramandateci dalla narrativa e dalla saggistica di fine Ottocento. Il libro è curato da Valentino Romano, esperto di brigantaggio e di biografie banditesche, Filomena Pennacchio la regina delle selve. Storia e storie delle donne del brigantaggio, (Carocci, pagine 216, euro 22,00).

Consultando l’Archivio storico della Camera dei deputati e l’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito alla voce “Brigantaggio”, il Romano ha modo di ricostruire l’effettiva vicenda biografica di Filomena Pennacchio e quella di molte altre donne cadute nelle mani di briganti postunitari, dalle sorelle Ciminelli di Francavilla sul Sinni a Cherubina Di Pierro di Ferrandina a Concetta Di Muro di Melfi e al numero infinito di donne che “abitarono la selva” e poi le galere, ognuna legata alla banda di un brigante più o meno famoso.

Filomena nacque a San Sossio da famiglia povera ed è lei stessa a raccontare davanti al Tribunale militare il suo destino di donna costretta alla macchia. Sostiene di avere 20 anni (ma è una furbata per godere della clemenza riservata ai minorenni) di essere orfana e di essere stata costretta a lavorare in campagna per vivere. «Nell’agosto del 1863, mi trovava a lavorare nella masseria Collamisso, di proprietà di Nicola Misso, in un giorno che più non ricordo, si presentò colà Schiavone colla sua banda. A quella vista mi nascosi impaurita sotto un mucchio di paglia; ma avvedutosene quel brigante venne a trarmi fuori dal mio nascondiglio. E afferratami per un braccio, mi costrinse a montare in groppa al suo cavallo. Non valsero le preghiere e i pianti perché mi lasciasse libera, ma volle condurmi al bosco dopo aver percosso il padrone e il curatolo di quella masseria perché intercedevano per me».

In realtà, questa fu una dichiarazione fatta sotto interrogatorio dalla ragazza che era allora di ventitrè anni e non di venti. Non le servì a molto, perché la condanna fu pesante. Sappiamo che Filomena incontrò la prima volta Schiavone il 7 aprile 1862. La scelta della costrizione, spiega Romano, fu adottata da quasi tutte le donne che si accompagnarono a bande brigantesche. Così deposero Maria Giovanna Tito, donna di Crocco, Giuseppina Vitale, donna di Sacchitiello, Filomena Di Poto, donna di Tranchella, Giocondina Marino, rapita da Alessandro Pace e Filomena Cianciarulo, amante di Nicola Masini.

L’analisi del Romano è puntuale nel descrivere le scorrerie di Filomena Pennacchio in compagnia di Schiavone. Nell’ottobre del 1862 è a Trevico attiva in un’estorsione, il 7 aprile 1863 è a Vallata dove ruba dei cappotti e un capretto, in luglio è a Orsara nel furto di una mula, il 4 luglio è a Sferracavallo con una banda di settanta uomini che attaccano un drappello del 45° reggimento di linea. Un soldato depose che «Filomena aveva in mano un grosso pistolo di cavalleria e nel tirare i colpi gridava “uccideteli tutti”... era la più franca ad assalire col cavallo che inforcava la forza e ad offenderla con continue esplosioni di una grossa pistola... con due colpi di quell’arma ridusse cadaveri due di quei prodi... si batteva con un coraggio sorprendente e sparava come un uomo, anzi era più spietata».

Nel descrivere l’epilogo della vicenda banditesca dei due amanti, Romano smentisce categoricamente l’episodio romantico della visita di Schiavone a Filomena narrata da De Witt e dal medico militare Basilide Del Zio. Lo Sparviero, catturato in tenimento di Candela fu tradotto nelle carceri di Melfi. Qui, nella speranza di un addolcimento di pena il bandito dettò una lista di nomi di compagni sparsi nei territori lucani. Tra questi fece il nome di Filomena che venne arrestata in casa di una levatrice, Angela Battista Prato. Filomena venne rinchiusa nel carcere di Melfi e contribuì con le sue deposizioni alla cattura della Tito e della Vitale. Insieme a Concetta Di Muro e a Luisa Gisi, riconosciute colpevoli di brigantaggio furono condannate a venti anni di lavori forzati. Altre trentacinque donne furono condannate a cinque o dieci anni di carcere semplice o di lavori forzati, altre ventisei popolane furono assolte. Il registro delle pene racconta che per buona condotta o per indulto dovuto ad eventi come il matrimonio del principe Umberto con Margherita gli anni vennero dimezzati. I tribunali non comminarono mai condanne a morte alle donne, se non nell’unico caso di Maria Oliverio, detta Ciccilla. Condanna che fu tramutata in carcere a vita.

Il 30 giugno 1865 Filomena Pennacchio venne condannata a vent’anni di lavori forzati, nonostante lo stesso colonnello Pallavicini scrivesse ai giudici che la donna aveva aiutato alcuni soldati e aveva dato notizie sui nascondigli di altre bande. Valentino Romano attacca i De Witt e i Del Zio, tuttavia non va sottaciuto che senza costoro non avremmo focalizzato la sua e nostra attenzione su figure come la Pennacchio. Così continua col discutere intorno alle condanne di genere, ovvero la clemenza che i tribunali mostrarono verso l’universo femminile e scopre la traduzione delle condannate verso carceri del Nord Italia. Filomena, come la Oliverio furono tradotte all’Ergastolo femminile di San Salvario di Torino, dove furono affidate alle suore di San Vincenzo. Nel 1872 Filomena si vide ridurre la pena a sette anni e dai lavori forzati passò a un carcere meno duro e poi liberata. Forse visse a servizio presso qualche famiglia e il 19 aprile 1883 sposò il commerciante di olio Antonio Valperga, con il quale condusse una vita borghese ma tranquilla. Nel carcere Filomena aveva imparato a leggere e scrivere, grazie alle suore vincenziane. Lo comprendiamo dalla firma in calce al documento di matrimonio e che sostituisce un eventuale segno di croce. La regina delle selve si era redenta ed era passata dalle pistole al rosario. Su di lei è in corso di realizzazione un docufilm, Io sono la briganta, e la ricerca dei luoghi ha permesso di individuare la data di morte, impressa sulla tomba, fossa 594, nel cimitero di Torino: il 17 febbraio 1915.

 
 
 

Un incontro ti salva la vita

Post n°4034 pubblicato il 10 Luglio 2024 da namy0000
 

2024, don Maurizio Praticiello, 9 luglio

La «bella» morte di maestra Sofia

Un incontro ti salva la vita, un incontro ti rovina la vita. Occhio, dunque. Quel che siamo oggi - nel bene e nel male- è il risultato di persone conosciute, insegnamenti ricevuti, esperienze fatte. Non si smette mai di imparare. Davvero “gli esami non finiscono mai”. Notte in bianco, quella tra sabato e domenica, accanto a una donna che si va spegnendo. Non è una persona qualsiasi, e anche se non mi legano ad essa vincoli di sangue, ha avuto nella mia vita una importanza fondamentale. È stata lei, infatti, che mi ha insegnato a leggere e a scrivere. Come per tutti i bambini del mio paese, in casa e tra noi si parlava in napoletano, cosa, questa che ci penalizzava non poco a scuola. Ed ecco, che lei, la cara signora Sofia, scendere in campo, e per insegnarci la storia, prima ci racconta il fatterello come se fosse accaduto ieri; poi, dopo essersi convinta che avessimo davvero compreso, si faceva seria, e passava a insegnare che cosa, dove, perché, quando erano accaduti quegli eventi. E come ridirli in italiano. Nessun nostro genitore si sarebbe sognato di contraddire la maestra. Guai a noi se a casa provavamo a lamentarci di lei. La complicità tra loro era totale. Un ottimo connubio tra genitori e maestri che ha dato buoni frutti. Insegnare non è ripetere stancamente cose imparate prima. È passione, convinzione, amore per il proprio lavoro, e, soprattutto, per chi ti sta davanti. È intravedere in ognuno di quei volti di bambini, l’uomo che sarà domani. È capire che una parola - una sola parola - detta con garbo, magari accompagnata da una carezza, può ridare a chi è convinto di dover mollare la forza di sperare ancora. Alla maestra Sofia, debbo tanto. Figlio di genitori analfabeti, ma intelligenti e onesti fino a farsi male, da lei ho ereditato il gusto per lo studio. Ormai anziana e malata, ma sempre lucida, ironica, buona e disponibile con tutti. Ho avuto la grazia di rimanerle accanto, insieme alla famiglia, durante l’agonia. Avevo compreso che era per lei l’ultima notte in questo mondo, la più terribile, la più importante, la più misteriosa. La più vera. E la maestra, grande come sempre, ha fatto il suo dovere fino in fondo. Se negli anni passati ha insegnato con la parola, con le opere, con l’esempio, stavolta sapeva di dover fare un passo in più. E non si è tirata indietro. Doveva insegnare con la sua stessa vita. Ed eccola, mentre esercita per noi il suo altissimo magistero. Eccola salire sulla cattedra più alta. Eccola strappare come una guerriera gli ultimi respiri a una vita dedicata alla famiglia, agli amici, alla scuola, alla fede. Per i figli è terribilmente doloroso assistere impotenti all’agonia della propria mamma. I corti circuiti, però, non sono ammessi. Il calice deve essere bevuto fino in fondo. Sono momenti di una importanza estrema. Nulla deve andare perduto di quei lunghissimi, interminabili, estenuanti momenti. Il chicco deve marcire per produrre la spiga. Nulla deve essere sprecato. Occorre raccogliere i pezzi avanzati. Come sono piccole le cose, come stupidamente inutili i risentimenti. Odi, gelosie, invidie, guerre, orgogli, avarizie, prepotenze? Ma di che parlate? Che dite? In discorso vi imbarcate? Lentamente si ritorna neonati, privati finanche della parola e della volontà. Occorre bagnare le labbra screpolate, asciugare il sudore, sistemare la testa sul cuscino. Occorrono mani pietose e cuori grandi. Lacrime sincere e amici veri. Davide le sussurra all’orecchio: «Nessuna paura, nonna… Siamo tutti qui… tranquilla, lo sai, ti vogliamo tutti bene…». Caro, caro Davide non sa, non può sapere che la nonna gli sta, ci sta, facendo l’ultimo regalo. Sta dicendo a tutti: «E adesso, ragazzi, se davvero avete imparato la lezione, mettetela in pratica… vi siete accorti che solo dell’amore hanno bisogno gli uomini? E che solo dall’amore di un Dio folle, potevano essere salvati? Promettetemi di non dimenticarlo mai…». Alle prime luci dell’alba di domenica scorsa, Sofia ha restituito a Dio il respiro che le riempi i polmoni al momento della nascita. Emozione fortissima. Commozione. Lacrime. Poi: «Ora lascia, Signore, che la tua serva vada in pace secondo la tua parola... Venite santi di Dio, accorrete angeli del Signore…». Funerali. Mi ritorna in mente “La morte del cardellino” di Guido Gozzano. Tita, un bambino, in giardino, piange mentre sotterra il suo cardellino. Dalla finestra il poeta lo vede, e commosso, canta: «Ben io vorrei sentire sulla fossa della mia pace il pianto di un bimbo. Piccolo morto, la tua morte è bella». Maestra Sofia, la tua morte è bella perché bella è stata la tua vita.

 
 
 

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