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Messaggi del 03/08/2024

Se ho ripreso a camminare io anche la Terra può farcela

Post n°4050 pubblicato il 03 Agosto 2024 da namy0000
 

2024, 3 agosto

«Se ho ripreso a camminare io anche la Terra può farcela»

Giovanni Ludovico Montagnani ha 34 anni, è un ingegnere elettronico e un attivista per il clima. Con alcuni amici ha fondato il collettivo “Ci sarà un bel clima”, un’associazione che anima il dibattito sull’ambiente in Italia e che nel 2023 ha riunito 100 rappresentanti di movimenti verdi intorno a un tavolo di progettazione politica a lungo termine chiamato “Stati generali per il clima”.

Esattamente due estati fa, il 3 luglio 2022, Giovanni è caduto da quaranta metri sul Mittelruck, una parete di roccia inclinata sul Lago Maggiore sulla quale stava arrampicando. Un volo equivalente all’altezza di un palazzo di 9 piani arrestatosi grazie alle corde a cui era assicurato e a un friend, un chiodo giallo che è rimasto puntato nella pietra e che oggi è appeso all’ingresso della casa a impatto zero di un paesino non lontano da Arona dove Giovanni abita con la moglie Francesca e le figlie Nora e Zelda.
Già, perché Giovanni a casa è tornato: si è salvato la vita ma si è rotto la tibia e lo zigomo, ha crepato una vertebra e ne ha fratturata un’altra, la prima lombare. «È come se un bicchiere di una pila fosse scoppiato in dieci pezzi» semplifica lui. La neurochirurga che lo opera fa un ottimo lavoro ma dice subito alla moglie Francesca: «Suo marito non camminerà più». E invece eccolo Giovanni due anni dopo: fa 50 km al giorno in bicicletta e macina sempre più metri sulle sue gambe, senza supporti.

Piano, però, a urlare al miracolo. Tra il punto zero e l’attuale di questa storia c’è in mezzo senz’altro un po’ di fortuna inspiegabile ma anche tanta abilità medica, capacità di studio e soprattutto forza di volontà che Giovanni racconta in un libro appena pubblicato per MonteRosa Edizioni intitolato “Dopo l’incidente. E se andasse tutto molto meglio del previsto?”. «Dopo che sono caduto – riavvolge il nastro l’autore – sapevo che si era rotto qualcosa nella schiena. Ero appeso all’imbrago, il compagno con cui arrampicavo (rimasto illeso, ndr) si è calato verso il punto in cui ero caduto, ha fatto alcune manovre di sicurezza e poi si è messo come una seggiola umana per cercare di scaricare da me il peso finché non è arrivato l’elicottero che mi ha portato all’ospedale di Novara».

Da quel giorno inizia il lungo e difficile iter del decorso di chi è rimasto coinvolto in un incidente simile. «Non muovevo niente dall’ombelico in giù. Paraplegia completa dal punto di vista dei movimenti. Solo dopo tre settimane ho cominciato a sentire qualcosa» e da allora i miglioramenti motori sono continuati sia durante i 4 mesi di degenza sia con il rientro a casa in un percorso di ripresa che, rispetto a come si prospettava – rileva Giovanni – «è abbastanza incredibile. Anche se, devo ammettere, io ci ho messo del mio».

Fin dall’inizio in effetti quell’entusiasmo che chiunque conoscesse Giovanni prima dell’incidente gli leggeva sempre nella voce, sembrava – al netto di normali momenti di sconforto – non averlo abbandonato nemmeno in quegli attimi drammatici. «Facendo alpinismo di un certo tipo (Montagnani ha collezionato arrampicate e imprese sportive notevoli compresa una traversata sulle Alpi con gli sci alla volta del World Economic Forum di Davos per protestare contro gli investimenti nel fossile, ndr) ero ben conscio che quello che facevo era pericoloso. Così quando sono sopravvissuto ho relativizzato l’evento e sono riuscito a tenere l’umore alto».

Non facile: all’inizio Giovanni non riusciva a stare in equilibrio nemmeno da seduto, poi ha cominciato a muoversi con la sedia a rotelle, poi – grazie a interi pomeriggi passati piscina – è riuscito a scorrazzare su una handbike e persino a partecipare a tornei di paracanoa, vincendo il titolo italiano nella sua categoria. Infine rafforzando bacino, glutei, muscoli adduttori e quadricipiti si è rimesso in piedi. Ha mosso i primi passi.

Sempre più numerosi. Con le stampelle e poi anche senza. «Adesso per esempio – dice – sono in ufficio: ci vado in bici elettrica; impiego tre ore tra andata e ritorno. Per camminare uso dei calzari che mi alleviano la fatica, intanto alleno piedi e cosce».

Anche se i progressi sono tantissimi, oggi Giovanni sa che non avrà indietro il corpo di prima ma anche che non si troverà nella condizione che gli avevano prospettato due anni fa. E ha adattato questa lezione dalla sua storia particolare a quella, universale, del pianeta. Parlando di ondate di calore, prezzi dell’energia e pannelli solari fin dal letto d’ospedale, Giovanni si è convinto che quel miracolo che stava succedendo a lui poteva capitare tale e quale anche alla Terra. Se studia e si impegna con ogni fibra, l’umanità non può far rivivere il pianeta del passato ma può sperare in un destino diverso dallo scenario peggiore. «Io credo – spiega Giovanni – di aver onorato una possibilità datami dalla fortuna ma ho anche studiato con spirito critico le pratiche di riabilitazione con maggiori evidenze scientifiche. Lo so che non tutti hanno gli strumenti intellettuali e culturali per farlo ed è anche per questo che bisognerebbe investire nella formazione dei giovani. Allenare il cervello, studiare e informarsi è un elemento chiave sia per cavarsela nei casi della vita sia per avere una società più resiliente. Quello che voglio dire è che per superare una crisi – personale o universale – serve volontà e impegno; è poco utile piangersi addosso. Anche io provo malinconia a vedere le vecchie foto dei ghiacciai alpini. Ma ormai quello che è perso è perso. Sta a noi tenere alta la speranza su quel che resta, guardare avanti e scrivere il futuro».

 
 
 

La squadra dei rifugiati

Post n°4049 pubblicato il 03 Agosto 2024 da namy0000
 

 

2024, FC 4 agosto

OLIMPIADI PARIGI 2024. LA SQUADRA DEI RIFUGIATI

Nella cerimonia di apertura di Parigi li abbiamo visti sfilare subito dopo la Grecia, culla delle Olimpiadi. Una delegazione senza la bandiera di una nazione, ma solo quella olimpica, bianca con i cinque cerchi. «Se si guarda la nostra bandiera, i colori degli anelli mostrano come siamo collegati tra noi. Siamo un’intera squadra, ma ogni colore dell’anello è diverso. Veniamo tutti da ambienti diversi, storie diverse, lingue diverse, sport diversi, ma questo ci unisce tutti insieme». Sono le parole di Cindy Ngamba, la pugile originaria del Camerun che, insieme all’atleta di taekwondo Yahya Al Ghotany, nato in Siria, ha portato la bandiera della Squadra olimpica dei rifugiati.

I 37 atleti della squadra di Parigi rappresentano gli oltre 100 milioni di rifugiati nel mondo. Secondo l’ultimo Rapporto Global Trends dell’UNHCR, l’Agenzia ONU per i rifugiati, sono 117,3 milioni le persone che nel mondo alla fine del 2023 sono state costrette a fuggire dal proprio Paese a causa di persecuzioni, conflitti, violenze e violazioni dei diritti umani, 1 persona su 69 a livello globale.

I 37 atleti che stanno gareggiando a Parigi provengono da 11 Paesi (Afghanistan, Camerun, Congo, Cuba, Eritrea, Etiopia, Iran, Sudan, Sud Sudan, Siria, Venezuela) e sono ospitati da 15 Comitati nazionali olimpici (Austria, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna, Israele, Italia, Giordania, Kenya, Messico, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Svizzera e Stati Uniti). Gareggiano in 12 discipline: atletica, badminton, pugilato, breaking, canoa, ciclismo, judo, tiro a segno, nuoto, taekwondo, sollevamento pesi e lotta.

Nella squadra sono presenti anche 2 atleti iraniani che vivono e gareggiano in Italia: Iman Mahdavi (lotta) e Hadi Tiranvalipour (taekwondo). Iman, 28 anni, è arrivato in Italia nel 2020 lungo la rotta balcanica e ora vive a Pioltello, nell’hinterland di Milano. Hadi, 26 anni, ha fatto parte della squadra nazionale iraniana di taekwondo per 8 anni, durante i quali ha vinto diverse competizioni nazionali e internazionali. Nel 2022, Hadi è stato costretto a lasciare l’Iran, è andato prima in Turchia e poi è diventato un rifugiato in Italia. Si allena con la squadra nazionale italiana di taekwondo a Roma.

Capo delegazione della squadra è la ciclista afghana Masomah Ali Zaia Masomah, 28 anni, ha trascorso i suoi primi anni in esilio in Iran. Dopo il suo ritorno a Kabul, ha frequentato il liceo e l’università per studiare sport. Ha anche lavorato come insegnante di sport e ha iniziato a pedalare con un gruppo di altre giovani donne, nonostante la disapprovazione delle parti conservatrici della società. Essere parte della minoranza Hazara, ha reso le cose ancora più difficili per Masomah, ma il suo gruppo è diventato famoso e si è unita alla squadra nazionale di ciclismo. Nel 2016 la sua famiglia ha lasciato l’Afghanistan e ha chiesto asilo in Francia. Ora studia ingegneria civile al secondo anno di università a Lille. Masomah era nella squadra dei rifugiati che partecipò alle Olimpiadi di Tokyo 2020 (in realtà svolte nel 2021 a causa dell’epidemia di Covid).

Fu in occasione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite dell’ottobre 2015 che il presidente del Comitato olimpico internazionale, Thomas Bach, annunciò la creazione della Squadra olimpica dei rifugiati, la prima del suo genere… L’impegno del Comitato olimpico internazionale e dell’intero movimento olimpico a sostegno dei rifugiati si basa sulla convinzione fondamentale del potere dello sport nel rendere il mondo un posto migliore… La Squadra olimpica dei rifugiati è un simbolo di speranza e ispirazione per i rifugiati di tutto il mondo.

 

 
 
 

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