Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Febbraio 2021

Ho continuato a credere

Post n°3533 pubblicato il 16 Febbraio 2021 da namy0000
 

Margaret Karram, classe 1962.

È la nuova presidente del Movimento dei Focolari, racchiude nella sua stessa origine le contraddizioni e le speranze di un mondo che aspira alla pace.

Araba cattolica di Haifa, 58 anni (nel 2021), in Italia dal 2014, cerca da sempre di spezzare le radici dell’odio che pure ha respirato nel suo Paese lacerato.

Cinque lingue imparate già a 6 anni, una laurea in Ebraismo all’Università ebraica di Los Angeles (Usa), impegnata, negli anni di permanenza a Gerusalemme, nella Commissione episcopale per il dialogo interreligioso e nell’Assemblea dei Cattolici Ordinari della Terra Santa e nell’organizzazione Icci (Interreligious Coordinating Council in Israel), si appresta a guidare i Focolarini, dopo la fondatrice Chiara Lubich e dopo Maria Voce, con uno sguardo che è quello della comune appartenenza alla grande famiglia umana.

Quando ha incontrato il Movimento?

«Avevo 14 anni. Alcuni ragazzi di Nazaret, che avevano conosciuto il Movimento attraverso un religioso salesiano italiano, sono venuti a parlare nella nostra scuola e a invitarci a un incontro a Gerusalemme di tre giorni, ma Mariapoli. Non capivamo bene di cosa parlassero, pensavamo che “focolare”» significasse folclore, Gen, cioè Generazione nuova, ci risuonava come la parola araba che, invece, significa “spirito maligno”, avevamo timore che fosse una setta. Ma loro erano così entusiasti nel parlarci e l’idea di andare a Gerusalemme ci attirava così tanto che abbiamo deciso, tutta la classe, di aderire all’iniziativa. Abbiamo pensato che se non ci fosse piaciuto almeno avremmo visto la città.

E invece?

«E invece ho sperimentato subito un’atmosfera di pace, quella che mi mancava. Vengo da una famiglia palestinese. I fratelli e le sorelle di mio padre sono andati via quando, nel 1948, si è costituito lo Stato di Israele. Mio padre è rimasto, ha sposato mia madre. Siamo nati in quattro e i nonni erano con noi.

Ho vissuto in un quartiere interamente ebraico. A scuola, dalle suore carmelitane, i miei compagni erano cristiani delle diverse Chiese e palestinesi musulmani. Per me era naturale convivere con queste persone e costruire amicizie. Ma sentivo anche la sofferenza dei miei nonni e di mio padre che non hanno visto mai più i miei zii e le mie zie, c’era il dispiacere per gli insulti che arrivavano anche dagli altri bambini. La mia famiglia ci ha sempre spronati non solo ad accettare gli altri, ma ad amarli nel senso cristiano-cattolico dell’ama il prossimo tuo. Per me questo era molto forte, ma sentivo anche un senso di ingiustizia e di dolore. E mi dicevo che da grande avrei voluto fare qualcosa per la società, per costruire la pace. Ecco, durante quell’incontro, ho sperimentato questa calma profonda. Non ho parlato con nessuno, ma ho lasciato il mio numero».

Cos’è successo dopo?

«Nel 1977, quando Chiara Lubich ha ricevuto il Premio Templeton per il Progresso della religione, a Londra, assieme a tante personalità di varie religioni c’erano anche ebrei e musulmani che si sono congratulati per la sua testimonianza di fede. E lei ha capito che era arrivato il momento di aprire la prima comunità a Gerusalemme. Sono arrivate le prime due focolarine. Loro hanno chiamato noi ragazzi e ragazze che avevamo lasciato il nostro numero. Ho risposto e da quel giorno non ho più lasciato il Focolare».

Cosa l’ha spinta a impegnarsi sempre di più?

«Il fatto di vedere che la mia sete di giustizia prendeva un’altra direzione. Sentivo dentro di me il dolore dei due popoli, non solo per la questione palestinese, ma anche per le generazioni di famiglie ebree che avevano subito l’Olocausto ed erano arrivate in Israele perché sentivano che era la loro patria. Non capivo più neppure bene quale fosse la mia identità. Nell’incontro con il Movimento ho capito che la rivoluzione che volevo fare per riaffermare la dignità e i diritti umani non era un rispondere all’odio con la violenza, ma che era, ripeto la parola, una rivoluzione evangelica. Era l’Amore che ama il nemico, che ama per primo, che serve gli altri. Ho capito che non devo cambiare le persone ma il mio cuore, e che devo guardare gli altri con lo sguardo di Dio-Amore. Solo così aiutiamo a vivere e a costruire la pace. A 19 anni ho lasciato tutto per seguire questo carisma, che è quello che Chiara Lubich ci ha lasciato: vivere per l’unità, che tutti siamo una cosa sola. La pace viene quando ci vogliamo bene, quando siamo più fratelli e sorelle. Mi sono messa nelle mani di Dio-Amore come un suo strumento per contribuire perché l’unità sia ancora più vera. Non cerco altro».

Cosa ha provato nel leggere la preghiera di san Francesco nell’incontro per la pace dell’8 giugno 2014 promosso in Vaticano dal Papa con il patriarca ortodosso di Costantinopoli Bartolomeo, il presidente israeliano Shimon Peres e quello palestinese Abu Mazen?

«È stata un’esperienza fortissima. Quando ho vissuto a Gerusalemme, ho sentito ancora di più che la divisione nei quartieri, nei pullman, la costruzione del muro. Ho sofferto tanto, ma ho continuato a credere che bisognasse dare la vita per costruire la pace. Sono sempre andata avanti, non da sola, ma con tanti altri che hanno conosciuto il Movimento e la piccola comunità. Poi sono stata trasferita in Italia, nel momento in cui mi sentivo in piena vocazione. Quando sono arrivata a Roma mi sentivo fuori posto e, in più, sentivo il dolore perché si stava preparando la visita del Papa – cosa che io avevo sperato tanto – ma senza che io potessi tornare a Gerusalemme. Due mesi dopo, però, mi viene chiesto, parlando io l’arabo, se potevo partecipare alla preghiera. Ho cercato di capire cosa Dio volesse da me, perché non volevo creare imbarazzi in una situazione tanto delicata. Mi sono lasciata guidare dalle letture del giorno. Si parlava della disputa tra sadducei e farisei e dell’angelo che appare a san Paolo dicendogli: “Non temere, perché come mi hai testimoniato a Gerusalemme adesso mi testimonierai a Roma”. Sentivo che queste parole erano dirette a me. E con questo spirito ho accettato di andare nei Giardini vaticani. Sentivo che dovevo essere lì a dare voce alla pace. E, anche se ci sono ancora tanti nodi, credo che quel momento porterà un seguito, forse tra molti anni. L’albero di olivo che il Papa e il Patriarca hanno piantato sarà il segno per le nuove generazioni. E un giorno lo vedranno portare i frutti della pace».

 

Lei prende in mano il Movimento dei Focolari in un tempo particolare sia per la pandemia sia per i tanti conflitti, «la terza guerra mondiale a pezzi», che ci sono nel mondo. Cosa spera?

«Innanzitutto vorrei dire che non sono sola. Con me c’è un corpo di persone, un governo con il quale insieme guardiamo al presente che non è facile e al futuro che non sappiamo come sarà. Non è un periodo semplice. Sentiamo tante grida dell’umanità: non solo la pandemia, ma ingiustizie, guerre, governi che crollano, conflitti di vario genere ovunque. Il carisma di Chiara, di vivere in un mondo più unito, deve venire ancora più fuori. Sulle sue orme vorrei che il mio mandato fosse caratterizzato da questa frase: “Siate una famiglia”. Se avremo sempre questo spirito, che vuol dire avere il calore, l’attenzione, lo sguardo che si ha tra fratelli e sorelle, ameremo chiunque incontreremo. E sarà carità vera» (FC n. 7 del 14 febbraio 2021).

 
 
 

Un convento su ruote

Dicembre 2020, Laura. G., Scarp de’ tenis

Un convento su ruote che accoglie in fraternità.

A Napoli. Cinque frati e un postulante, cinque vagoni di treno: uno, aperto a tutti per pregare, parlare, confessarsi, messo al centro dell’area foresteria che è un magnifico giardino; gli altri quattro sono le insolite celle dei frati, che ci vivono in preghiera e in comunione, proprio di fronte a Scampia. La regola che osservano è quella di san Francesco, amorevole e spartana, lontana dalla ricchezza eppure profondamente calata nelle bellezze e nei dolori del mondo secolare.

 

La cifra cui tengono è il silenzio: silenziosa è la loro opera e silenziosi sono i loro passi, che pure solcano le strade tutt’intorno dove li conoscono tutti, ma proprio tutti, persino quei ragazzi che, diventati maggiorenni, escono dalle case-famiglia e non hanno più punti di riferimento ma solo un altissimo rischio di perdersi.

 

 

Cosa li guidi fin qui è un mistero. Forse la spiegazione razionale sta nel grande vuoto, legislativo, istituzionale e sociale di un fenomeno che, invece, è fatto di cifre considerevoli e di storie di abbandono che ogni volta rivelano l’assenza di tutti i livelli sociali ed istituzionali.

 

«chi si occupa di questi ragazzi?» si chiede accorato fra’ Giuseppe e lancia attraverso Scarp de’ tenis un appello fraterno e preoccupato. Lui ha 45 anni appena compiuti, è il frate guardiano di questa fraternità, i ragazzi e le ragazze che, concluso il periodo casa-famiglia perché è scoccata la maggiore età, bussano qui, sono suoi fratelli e sorelle minori, nel senso francescano della parola: soli, dimenticati, ignorati.

 

«Chiuso il percorso nella struttura protetta prevista dalla legge che ne è di loro? Chi li accompagna in modo che non prendano una cattiva strada?».

 

Non abbiamo la risposta, ma il dovere di condividere e di dare voce a questo appello ce lo prendiamo in pieno e lo facciamo nostro perché arrivi a quanti sono chiamati a decidere e occuparsi di questi fratelli e sorelle minori che hanno pieno diritto di salire sul treno e di affrontare un viaggio ben accompagnati.

 

Il bello e l’essenziale.

Raccontare la Fraternità dei Frati Minori Rinnovati che vivono la loro missione e vocazione dentro cinque vagoni di treno è un’esperienza personale e narrativa unica.

 

La tentazione di abbellire la scrittura con aggettivi ridondanti è forte, ma è già tutto così bello ed essenziale che aggiungere non serve. Siamo in un’inaspettata campagna napoletana piena dei colori dell’autunno, dove la città non è ancora finita e la periferia non ancora iniziata. All’insolito convento si arriva scendendo una fermata prima del capolinea della Metropolitana dell’Arte, non lontano dalla Facoltà teologica, vicino a Capodimonte e proprio di fronte a Scampia.

 

Punti cardinali dipanati dalla Provvidenza che nel 1976, qui inviò i frati francescani, destinando loro l’uso gratuito di un terreno messo a disposizione da un benefattore del posto.

 

I cinque vagoni

I confratelli si misero all’opera per fondare il convento, e pensarono a due container, ne arrivò uno soltanto. Intento, le Ferrovie dello Stato dismisero i vagoni degli anni Quaranta, il costo non era eccessivo e si decise di prenderne cinque. Sono ancora lì: uno fa da centro d’ascolto e da confessionale, aperto a ricevere chi entra e porta fin qui le cose del mondo e vuole trovare un po’ di pace, il conforto di una parola meditata, l’ascolto dei frati che accolgono, tendono la mano e offrono un sorriso senza giudicare.

 

Gli altri quattro, sono la casa dei cinque frati e del postulante che sta facendo esperienza di vita comunitaria, dalle giornate scandite dalla preghiera, dalla meditazione e dalla condivisione. Qui non si compra nulla, eppure non manca quel che serve, e poiché non c’è il frigorifero, ma le persone generose sono tante, il cibo si divide con le famiglie che bussano alla porta per chiedere sostegno e una parola di conforto. Al netto della poesia del viaggio, i vagoni sono lamiere fredde in inverno e arroventate sotto la calura estiva, ma il sorriso dei frati rende tutto lieve, sopportabile e profondamente vero.

 
 
 

Quando la conoscenza era un bene comune e gratuito

Quando la conoscenza era un ben comune e gratuito

Luigino Bruni, Avvenire, sabato 13 febbraio 2021

Nel Medioevo era molto evidente la capacità generativa del limite. Il divieto di prestare denaro a interesse produsse una grande biodiversità di strumenti finanziari e di contratti, dalla commenda alla lettera di cambio, dalla società in accomandita alla nascita delle assicurazioni. Il commercio marittimo non poteva svilupparsi senza la remunerazione del rischio tramite qualche forma di interesse sui capitali prestati all’armatore. Ecco allora che il divieto teologico di usura portò all’invenzione di un nuovo contratto, quello di assicurazione, sdoppiando il mutuo in due componenti: «Da un lato la restituzione pura e semplice del prestito, dall’altro la promessa di ricompensa in cambio del rischio corso» (Armando Sapori, "Divagazioni sulle assicurazioni", in "Studi di storia economica" III, p. 144). Un limite teologico generò una grande innovazione economica e sociale.
Un altro ambito dove il limite teologico svolse un ruolo decisivo fu la nascita delle università. Lo sviluppo delle comunità di docenti e studenti nelle università è un fenomeno gemello della nascita delle compagnie di mercanti. Il Duecento è stato il secolo dei mercanti e il secolo delle università, che insieme hanno fatto l’Umanesimo. Entrambi luoghi di libertà, entrambe istituzioni del nuovo spirito europeo. Goliardi e mercanti misero in crisi i valori delle istituzioni del primo millennio. Entrambi sostenuti e animati dai nuovi ordini mendicanti, che erano magistri nelle università e amici dei mercanti. I goliardi erano principalmente laici, «per studiare e prima ancora per vivere e spostarsi a seguito dei maestri, ricorrevano ai mezzi più strani come fare il saltimbanco, il giocoliere, il buffone e praticare anche qualche piccola truffa» (Sapori, p. 366).

Pietro Abelardo, riferendosi ai detentori dell’antico sapere, li definiva «i filistei che tengono per sé segreto il loro sapere, impediscono gli altri di approfittarne. Noi invece vogliamo scavare pozzi di acqua viva, e tanti e su tutte le piazze pubbliche, e così ricchi di acqua che essa trabocchi e tutti ne possano dissetare» (citato in Sapori, "L’università nei secoli", p. 368). La democrazia europea è nata nei palazzi del governo delle nuove città, nelle compagnie dei mercanti e nelle università, dove il sapere si creava dialetticamente e poi diventava bene pubblico, se è vero che la democrazia è «governare discutendo» (nelle parole di John Stuart Mill e Amartya Sen). Il ruolo di questo nuovo sapere più popolare fu immenso, infinitamente più grande di quanto noi oggi possiamo immaginare.
Non stupisce allora che questi nuovi intellettuali incontrassero la stessa ostilità incontrata dai mercanti, entrambi gente nova, troppo liberi e diversi per essere capiti: «Oh Parigi, fino a che punto affascini e inganni le anime! Felice scuola al contrario quella nella quale si parla solo di saggezza, e senza bisogno di corsi di lezioni si apprende come giungere alla vita eterna: qui non si comprano libri» (Pierre de Celles, citato in Sapori, p. 369). Questi stessi detrattori delle nuove università e dei goliardi, odiavano anche i liberi Comuni, definiti come "nuova Babilonia", perché Dio non ama le città, essendo Caino il fondatore della prima (Ruperto da Deutz).
Ma l’analogia mercanti-intellettuali non si ferma qui. Nel primo millennio non era solo il tempo ad appartenere a Dio, da cui nasceva la più antica giustificazione del divieto di prestito a interesse. Anche la conoscenzaera considerata dono di Dio e in quanto tale non commerciabile, da donare gratuitamente. Si comprende allora come i dibattiti sul divieto dell’interesse sul denaro fossero simili e paralleli alle dispute sul divieto per i magistri di farsi pagare per le loro lezioni. Anche nella trasmissione della conoscenza la gratuità, il sine-merito, era la norma, e il pagamento, il pro-pretio, l’anomalia.

La più autorevole fonte medioevale di tale divieto era Bernardo di Chiaravalle, che nel suo commento al Cantico dei cantici aveva scritto: «Scientia donum Dei est, unde vendi non potest» (la scienza è dono di Dio, quindi non può essere venduta). Una tesi che era stata fatta propria dal terzo (1179) e poi da quarto (1215) Concilio Lateranense, quindi da papa Gregorio IX del 1234 (nel Liber Extra) - il papato fu un grande difensore delle nuove università, che erano istituzioni pontificie. Un divieto che ebbe un grande peso nella prassi delle istituzioni universitarie e scolastiche medioevali; sebbene spesso la prassi (come con l’usura) si muovesse in direzioni diverse. Scriveva il canonista Roffredo da Benevento: «Ai nostri giorni è di uso comune che gli insegnanti prendano i libri degli studenti in pegno per il pagamento dell’incasso».
Il riferimento all’autorità di san Bernardo in materia di gratuità non era casuale. La gratuità dell’insegnamento era infatti eredità della grande tradizione monastica. Per molti secoli i monasteri erano le principali se non le uniche scuole in Europa. Si insegnava la fede, ma anche grammatica, musica e matematica, a monaci ma anche a laici, soprattutto giovani. Ed è qui che si afferma la prassi della gratuità. In un documento de l’888 si legge riguardo le scuole: «Ut turpi lucro et negotiationibus non inserviant» (affinché non servano il turpe lucro e gli affari). E il Concilio di Londra nel 1138 ribadisce: «Ut scholas suas magistri non locent legendas pro pretio» (i maestri nelle loro scuole non impartiscano lezioni a pagamento, § XVII).

A partire dal XIII secolo, i nuovi maestri, iniziarono a distinguere. Bartolomeo da Brescia sosteneva che il maestro non deve insegnare per denaro, ma può comunque accettare un pagamento da parte degli studenti se questo è offerto come dono e non è obbligatorio. Una soluzione simile, si ricorderà, a quella che portò alla liceità dell’interesse sul debito pubblico, inteso come libero dono. Altri ancora distinguevano tra maestri e studenti ricchi e poveri: solo gli studenti poveri non devono pagare e solo i maestri ricchi devono insegnare gratis. Il celebre canonista bolognese Tancredi, ad esempio, specificava: «Quando il maestro riceve un beneficium sicuro e protetto non deve chiedere soldi per l’educazione che dà» (in Emma Montanos Ferrín, "Scientia donum Dei est"). Raimondo de Peñafort, domenicano, invece difese e ribadì la tesi che la scienza, essendo un dono divino, non può essere venduta, e così si inimicò giuristi e medici che in genere si facevano pagare.
La gratuità della conoscenza fu infatti rafforzata e rilanciata quando attorno alla metà del Duecento francescani e domenicani entrarono in massa nelle nuove università e fondarono anche i loro studia, spesso collegati con quelle università. Sui 447 maestri in teologia conosciuti a Bologna tra il 1364 e il 1500, 419 erano Mendicanti. I domenicani erano più a loro agio "carismatico" con gli studi, per il loro carisma di predicazione. Per i francescani il discorso era più complesso e meno lineare. Un’anima dell’ordine non ha mai accettato serenamente gli studi e le università: «Mal vedemo Parisi, che àne destrutt’Asisi» (Jacopone da Todi, "La Laude", 92). Sta di fatto che anche i francescani hanno generato magistri di valore assoluto, tra i maggiori teologi del Medioevo. Domenicani e francescani fecero delle università luoghi privilegiati di reclutamento di nuove vocazioni, e alcuni maestri (per esempio, Alessandro di Hales) presero l’abito. Ma non c’era solo questo. Quei primi Mendicanti erano molto attratti e sedotti dalle nuove università. Prima di diventare i titolari delle facoltà di teologia, all’inizio si recarono a Parigi o Oxford per imparare, affascinati da quel mondo nuovo e da quella libertà di docenti e studenti che sentivano simile alla loro. Erano figli e propagatori dello stesso spirito. Il felicissimo incontro tra questi due mondi diversi e simili ha dato luogo a un processo straordinario e decisivo per la civiltà europea.

Gli effetti collaterali dell’arrivo dei mendicanti nelle università furono molti. Nei libri, ad esempio. Soprattutto tra i francescani il prezzo dei libri era oggetto di attenta regolazione (per il prestigio pauperistico). Questo altro limite fece sì che il libro non fu più soltanto il codice miniato, costosissimo e riservato a pochi. Nacque il progenitore del manuale, il libro orientato all’insegnamento e all’apprendimento, e quindi meno caro e accessibile a molti più lettori e studenti. Inoltre, essendo i maestri francescani e domenicani incardinati nei loro ordini che li dotavano di una prebenda per vivere, tornò la tradizione antica dell’insegnamento gratuito (all’inizio i maestri laici si facevano pagare), che è poi continuata con la creazione delle migliaia di scuole degli ordini religiosi femminili e maschili nell’età moderna e contemporanea, e con la scuola pubblica del XX secolo.

E oggi? Che resta di questa grande eredità? Innanzitutto dobbiamo riconoscere che nel Novecento qualcosa non ha funzionato nella trasmissione dell’insegnamento dai monaci-frati-suore ai docenti laici. Quella gratuità, soprattutto nel lato dei docenti, era accompagnata da istituzioni (ordini, conventi, congregazioni) che garantivano loro la sussistenza e una vita decente. Quando i docenti sono diventati i laici, la meravigliosa idea della gratuità della conoscenza si è tradotta in stipendi troppo bassi, soprattutto nelle scuole elementari, medie e superiori (e nei primi anni di carriera universitaria), ancora di più in quei paesi dove l’eredità educativa gratuita della Chiesa era più forte. E così, ancora una volta, non siamo stati capaci di trasformare politicamente un patrimonio etico in una giustizia civile, per "mancanza di pensiero". Quell’antica cultura cristiana sapeva bene che la conoscenza è un bene talmente prezioso da chiamarlo divino; e per questo lo aveva guardato con grande attenzione, sottraendolo alle logiche del turpe lucro, per proteggerlo. Oggi il capitalismo sa molto bene il valore economico della conoscenza, e mentre lascia indigenti maestre e dottorandi fa della formazione for-profit (pro-pretio>) una delle sue nuove industrie globali più redditizie.

Infine, arriviamo al messaggio più prezioso di quell’antico dibattito. Quei canonisti sapevano che la ragione della gratuità della conoscenza non è l’assenza di valore. Vale invece talmente tanto da considerarla bonum dei: un bene di Dio. Torna qui l’antica idea che la gratuità non corrisponde a un prezzo pari a zero ma a un prezzo infinito. Gli antichi sapeva che la conoscenza ha un "costo di produzione", ed è molto elevato. Renderla accessibile senza il pagamento di un prezzo significa allora riconoscere che la conoscenza ha natura di bene comune, non è un bene privato di mercato, è un pozzo di acqua viva, una piazza pubblica. E come in tutti i beni comuni, è la comunità a sostenere i costi di produzione e di gestione, perché le riconosce un valore strategico, e non vuole escludere possibilmente nessuno dal loro uso, soprattutto i poveri - non dobbiamo dimenticare che ogni volta che una comunità crea un bene comune sta rendendo i suoi poveri meno poveri. Monaci, monache e frati hanno custodito per un millennio e mezzo la natura di bene comune della conoscenza. Una eredità infinita, a noi continuare a custodire i "pozzi di acqua viva" di ieri, e scavarne di nuovi.

l.bruni@lumsa.it

 
 
 

L'equazione della libertà

L’equazione della libertà, nella matematica c’è la chiave per la rinascita, Rizzoli Editore,  libro di Lorella Carimali, insegnante di matematica, 2020.

Dice l’autrice: «La conoscenza della matematica non è fine a sé stessa – come comunemente si pensa – ma può diventare propulsore di cambiamento di mentalità».

«La matematica ci regala la libertà di fare scelte che siano solo nostre. Nel libro riporto vari esempi di condizionamenti. Nell’era delle fake news e della pubblicità onnipresente dobbiamo capire di chi fidarci. Ad esempio, la statistica è uno strumento potente di comprensione di realtà complesse, ma se non la comprendiamo possiamo cadere in errore e fare scelte dettate da forme di bias cognitivi e quindi errate per noi, ma favorevoli a chi le utilizza per creare condizionamenti. A volte tendiamo così a confondere probabilità con plausibilità. Matematica per me è libertà da queste catene, libertà dai vincoli reali e mentali che ci portano a fraintendere la realtà e a perdere il contatto con la nostra capacità di analisi».

«Oggi devo essere in grado di mettere in relazione elementi, dati e concetti diversi, la competenza matematica è anche la capacità di mettere in relazione, di immaginare, di creare, di vedere ciò che non c’è. Oggi siamo tempestati da numeri per quanto riguarda il coronavirus, ma quei numeri non sono dati e informazioni se non sono contestualizzati, e se non facciamo questo rischiamo di prendere decisioni approssimative e a volte anche errate».

«Siamo noi a creare gli algoritmi. È fondamentale conoscerne i meccanismi e proprio per questo è fondamentale che la matematica sia parte di tutti e tutte noi, in modo da prendere decisioni che siano solo nostre e che non siano condizionate. Possono renderci fortemente manipolabili e di questo ne dobbiamo essere coscienti. Per questo motivo penso che lo Stato debba farsi carico per permettere a tutti e tutte di acquisire quelle competenze matematiche che permettano di comprendere e utilizzare gli algoritmi per migliorare la propria vita, e di non essere utilizzati da essi» (Scarp de’ tenis, dicembre 2020).

 
 
 

Il loro numero è stimato in 250 mila

Post n°3529 pubblicato il 12 Febbraio 2021 da namy0000
 

2021, Avvenire 11 febbraio.

Un esercito di bambini continua a combattere nel mondo

Il loro numero è stimato in 250mila. Vittime di rapimenti e abusi sessuali e costretti a imbracciare le armi da guerriglie o reclutati da eserciti. Il fenomeno resta drammatico soprattutto in Africa

Ogni anno, il 12 febbraio ci si ricorda di loro. Nascosti alle cronache, ai media, alla gente. Tanti bambini non vanno a scuola e non giocano, ma sono costretti a combattere nelle guerre senza fine, rapiti da scuole e villaggi. Il 12 febbraio le Nazioni Unite li ricordano, denunciano il fenomeno, tentato di smuovere le coscienze. Nel 2019 – gli ultimi dati disponibili “consolidati” risalgono infatti a due anni fa – il loro numero era stimato in 250mila. Minori utilizzati, secondo il rapporto del Segretario generale dell'Onu, da decine fra guerriglie ed eserciti regolari in ogni parte del mondo. I Paesi più interessati sono stati: Afghanistan, Colombia, Repubblica democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Iraq, Mali, Sudan, Sudan del Sud, Somalia, Siria, Yemen, Myanmar, Nigeria, Filippine.
La Somalia, secondo le Nazioni Unite, nel 2019 è fra i Paesi più coinvolti con 1.500 ragazzini, per lo più rapiti da al-Shabaab. Ma anche esercito e polizia, li hanno utilizzati in quasi 200 casi. Nella Repubblica democratica del Congo (Rdc) oltre 2.500 minori sono stati reclutati dal 2008 e utilizzati fino al loro rilascio, nel 2019, da decine di guerriglie. L'aberrante fenomeno interessa anche il Sahel, nella Repubblica Centrafricana l'Onu ha accertato almeno 200 nuovi casi di minorenni utilizzati come soldati e altrettanti nel Mali. Il compito di questi piccoli non è “solo” di combattere, ma anche di svolgere altri ruoli:cuochi, facchini, messaggeri. Le ragazzine, invece, sono destinate da Boko Haram in Nigeria, ad attentati suicidi e sono costrette a fare le “schiave sessuali”. Le violenze sessuali, purtroppo, sono ampiamente usate, dalle guerriglie e dagli eserciti, nel Congo, Somalia, Repubblica Centrafricana, Somalia, Sudan e Sud Sudan.
I minori trasformati in soldati sono sottoposti a violenze di ogni tipo: uccisioni, torture, mutiliazioni, violenze sessuali ed uso di droghe, somministrate per eliminare dolore e paura, gravidanze indesiderate e Aids. Del resto, i bambini, spiegava in passato Olara Otunnu, Rappresentante speciale del segretario generale Onu per i bambini nei conflitti armati «non sono ancora pienamente coscienti delle loro azioni:possono essere facilmente indottrinati e trasformati in spietate macchine belliche». I fanciulli, inoltre, non disertano, non chiedono stipendi e per loro l'esercito rappresenta l'unico modo per potersi nutrire. Le attività belliche, inoltre, privilegiano la distruzione di ospedali e scuole, calpestando le convenzioni internazionali, nell'adozione delle quali l'Italia ha svolto un ruolo significativo, in tal modo migliaia di persone si vedono negati diritti fondamentali. Nel solo 2019 l'Onu ha accertato, infatti, almeno mille attacchi contro scuole ed ospedali, con il raddoppio, rispetto al passato, di quelli colpiti dagli eserciti, soprattutto in Somalia.
Nel 2019, grazie all'Unicef, oltre 13.000 minori sono stati separati da eserciti e guerriglie, ma la mancanza di fondi mette a rischio una smobilitazione duratura e il loro reinserimento nella società, in Paesi poverissimi
È fondamentale punire questi crimini per rompere il muro dell'impunità. La Corte penale internazionale (Cpi) considera l'arruolamento di bambini al di sotto dei 15 anni come un crimine di guerra. lcuni signori della guerra del Congo sono stati condannati, come, Dominic Ongwen, uno dei capi del Lord's Resistance Army del fanatico Joseph Kony, che ha terrorizzato in Nord Uganda. Anche l'ex presidente del Sudan Omar el- Bashir è incriminato dalla Cpi per i reati commessi in Darfur.
È evidente che la pace resta il mezzo più potente, per eliminare tante sofferenze, ma è necessario che i Paesi occidentali aiutino questi Paesi ad uscire dai conflitti e dal sottosviluppo con politiche mirate, con un nuovo paradigma.

 
 
 

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