Un antidoto contro gli effetti distorti di una postmemoria, soprattutto per le nuove generazioni, che vivono soffocate dalla realtà astratta di Face-book, sms ed iPod? Leggete il terzo testo del sociologo Nico Pirozzi, “Traditi, Una storia della Shoah napoletana (Pagg. 160, euro 15; per le encomiabili edizioni Centoautori di Pietro Valente)”, con una bella prefazione di Enrico Deaglio, che narra la storia di una famiglia di ebrei toscani, i Procaccia - che scelsero di vivere a Napoli; la città più povera e popolosa d’Europa – e vi si trasferirono nel 1918 contando sull’appoggio dell’officiante livornese della sinagoga ebraica partenopea, Giacomo Lazzaro Laide Tedesco. Qui tra presunti familismi amorali risulta che vissero sempre con un lavoro (Amedeo il capostipite era assistente di commercio in tessuti e shammàsh, assistente religioso) e con una casa (a Piazza della Borsa N° 33), ma soprattutto furono sentiti fascisti della prima ora, vedendo nel nuovo regime un appiglio di ordine e sicurezza nazionalistici, ma soprattutto fidando nei Savoia che avevano riaperto pochi decenni prima i ghetti e ridato loro l’accesso alle professioni liberali. Poi, Mussolini, non perdeva occasione di ricordare che in Italia non vi era una “questione ebraica”. Ironia della sorte in quel giorno di maggio del 1938 che vide Hitler acclamato per le strade di Napoli, a fare da cornice festante ed ordinata ci furono anche i Procaccia, che vissero sentitamente quell’infausta rappresentazione, che pochi giorni dopo - il 15 luglio – invece, portò alla pubblicazione del “Manifesto della razza”, vero prodromo ideologico alla promulgazione delle cd. Leggi razziali avvenuta il 17 novembre dello stesso anno: da allora la parola ebreo divenne fuorilegge, anche in Italia. Mentre, nonostante l’inizio della guerra e le restrizioni d’istruzione ed accesso alle professioni, contenute nella normativa antiebraica, i Procaccia riuscivano ad andare avanti ed a sopravvivere accrescendo con matrimoni e nascite la loro famiglia, fu solo per l’effetto dei criminali bombardamenti della prima parte del 1943 su Napoli, che presero la decisione di trovare rifugio di nuovo in Toscana a Cerasomma. Fu il loro ultimo errore: in piena Repubblica Sociale Italiana gli italiani comuni, ex brava gente, ora delatori con una puntigliosa banalità del male, li denunciarono ai tedeschi e dopo le Murate a Firenze, i Procaccia come tanti nostri concittadini d’origine ebraica, fecero la conoscenza del IV braccio di S.Vittore, prima di essere caricati sui treni che li portarono ad Auschwitz ed a Bergen Belsen. Dopo “Napoli Salonicco Auschwitz” e “Fantasmi del Cilento” la storiografia sulla Shoah campana si arricchisce di questo nuovo testo che insieme alla storia di Sergio De Simone narrata con grande passione civile da Titti Marrone in “Meglio non sapere (Laterza, 2006)” disegna tante microstorie umane di quell’infinita tragedia della Shoah che segna il buco nero della Storia dove l’umano rese vana anche l’infinita misericordia di un Dio unico.
Vincenzo Aiello
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il 03/08/2019 alle 18:35
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