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Intervista al Comandante Partigiano Nerino Gobbo “GINO” - parte II

Post n°672 pubblicato il 10 Maggio 2012 da VoceProletaria

Intervista al Comandante Partigiano Nerino Gobbo  “GINO” - parte II

di Claudia Cernigoi,  06.05.2012

- Dopo alcuni mesi di prigionia e torture i coniugi Haas furono fucilati, il 28/4/45. Ed anche il bunker di Longera fu scoperto, nel corso di un’azione che costò la vita a quattro compagni. La banda Collotti operò una repressione feroce e terribile a Trieste.
- Sì, ed infatti nella primavera del ’45 si era pensato di organizzare un attentato contro la sede di via Cologna dell’Ispettorato Speciale di PS: l’idea era di passare attraverso le condotte fognarie partendo dalla zona della Rotonda del Boschetto, a due chilometri circa da via Cologna, e di piazzare dell’esplosivo sotto la sede dell’Ispettorato. Ma poi questa idea fu accantonata, sia perché le piogge primaverili avevano ingrossato i torrenti e di conseguenza reso impraticabili le condotte, ma soprattutto perché avevamo valutato che erano troppi i compagni imprigionati nella caserma e l’esplosione avrebbe ucciso anche loro.
- Poi Gino ha organizzato anche l’attentato di via D’Azeglio…
- Sì, era il 27 marzo 1945. Nel garage Principe, in via D’Azeglio, c’erano mezzi di rifornimento per l’offensiva che la X Mas stava preparando contro il IX Korpus (le forze allora erano in equilibrio perciò si sarebbe trattato di una grande offensiva, e noi dovevamo fare il possibile per sabotare i nazifascisti). All’inizio avevamo pensato di asportare il carburante, ma considerate le difficoltà del trasporto si decise di distruggerlo. Io ho personalmente diretto quell’azione alla quale hanno partecipato altre sei persone: Silvio Pirjevec, Enzo Donini, Sergio Cebroni, Livio Stocchi, Remigio Visini ed un compagno alla sua prima esperienza di lotta, Giorgio De Rosa.
Dopo avere bloccato tutte le strade attorno al garage abbiamo fermato il proprietario, che faceva anche da guardiano, l’abbiamo obbligato a farci entrare e poi consegnato a due compagni che avevano l’ordine di portarlo nella ritirata con sé, di tenerlo prigioniero per motivi di sicurezza; di ucciderlo se le cose si fossero messe male. Invece al momento della fuga non se la sentirono di ucciderlo e lo lasciarono libero. Così riuscì a dare l’allarme che causò la cattura dei quattro compagni e la loro impiccagione.
Io e Silvio entrammo nel garage, dovevamo far saltare in aria i fusti di benzina, ne abbiamo aperto uno e quando la benzina ha iniziato a scorrere, abbiamo lanciato delle bombe e in quel momento è successa una cosa che non dimenticherò mai: la benzina ha cominciato a prendere fuoco in modo talmente rapido che si è sentito un rumore come una sirena, un ululato che andava all’infinito. S’era anche formato un calore enorme, ed a quel punto dovevamo uscire più in fretta possibile, ma quando abbiamo cercato di uscire dalla porticina laterale ci siamo resi conto che la pressione dell’aria era tale che non solo aveva rotto i vetri delle finestre, ma addirittura premeva tanto contro la porta che questa non si poteva più aprire dall’interno. Allora mi sono seduto a terra rivolto verso la porta, più sopra c’era il catenaccio; ho puntato le gambe sulla parte fissa della porta e ho tirato col catenaccio fintanto che non si è aperta una fessura; Silvio ha inserito il mitra in questa fessura e ha fatto forza, riuscendo ad aprire di quel tanto che ci ha permesso di sgusciare fuori, appena in tempo.
Intanto (saranno passati in tutto non più di dieci secondi) i compagni che erano fuori, avendo sentito le bombe e visto le fiamme e non avendoci visti uscire, devono aver creduto che eravamo rimasti vittime dell’esplosione; così si sono ritirati disordinatamente invece di attenersi a quanto era stato previsto nel piano. Stocchi, Cebroni e Visini andarono a cercare Donini a casa, ma questa era sorvegliata perché il padre, primario dell’ospedale psichiatrico, era notoriamente antifascista: Donini riuscì a fuggire, ma gli altri furono arrestati da una pattuglia delle SS italiane. De Rosa invece fu arrestato da una pattuglia della Guardia Civica presso la Rotonda del Boschetto. Dopo la cattura furono ferocemente torturati e la mattina dopo impiccati proprio al muro del garage: questi quattro giovani sono i martiri di via D’Azeglio.
Silvio ed io ci siamo salvati perché abbiamo seguito le regole stabilite: siamo usciti dal garage, ci siamo mischiati alla gente che era accorsa e abbiamo preso sottobraccio una ragazza con la quale ci siamo allontanati e che ci disse: “Se fossero tutti come voi non ci sarebbero più i tedeschi a Trieste”.
- Gino, parliamo ora dei preparativi per l’insurrezione a Trieste.
- A fine marzo eravamo consapevoli che il momento insurrezionale si stava avvicinando ed i rappresentanti dell’OF e dell’UO e del Comando città di Trieste del IX Corpus, già presente in città, convocarono una riunione con i delegati del CLN italiano. Questa riunione, divenuta famosa come “convegno di Guardiella”, si svolse dal 21 al 23 aprile, in una villa di San Giovanni, la villa dei Tofful tra via dei Pagliericci e via Brandesia, dietro il campo sportivo.
Lo scopo era di accordarsi con il CLN triestino per riunire le forze insurrezionali dei due schieramenti, ognuno comandato dai propri ufficiali ma sotto un comando unico, ad evitare scontri tra i due schieramenti, per la cacciata ed il disarmo delle forze tedesche e neofasciste che avessero fatto resistenza in città.
Io ero stato incaricato della sicurezza della riunione e dell’incolumità dei partecipanti, con una squadra mista di combattenti di Guardiella Brandesia e di Guardiella Scoglietto.
La villa era un posto adatto perché aveva molte vie di fuga (dietro di essa si arrivava direttamente nel bosco sulla collina di Guardiella, la zona chiamata Patacin, quella che si trova sotto le arcate della ferrovia). Tutto attorno erano sistemati nostri uomini che dovevano proteggere sia i nostri delegati sia quelli del CLN.
Com’è noto, nel corso della riunione noi proponemmo al CLN di unificare tutte le forze che avrebbero preso parte all’insurrezione (prevista tra il 30 aprile ed il 1° maggio) sotto il Komando Mesta del IX Korpus: sia i nostri membri di Unità Operaia e dell’OF, sia le forze armate del CVL, che dopo scoprimmo che contavano anche la Guardia di Finanza e parte della Polizia.
Il CLN rispose che non potevano dare subito una risposta, l’avrebbero data in seguito perché dovevano prima consultare il loro comando.
- Dalla documentazione redatta dal CLN appare che alla riunione avevano partecipato solo Ercole Miani ed il tenente colonnello Antonio Fonda Savio.
- Per questo motivo rimanemmo d’accordo che emissari delle due formazioni si sarebbero nuovamente incontrati, in tempo e luogo da stabilirsi. Štoka [10] decise che sarei stato io ad andare all’incontro con il CLN, che avvenne un paio di giorni dopo. L’incontro era stato fissato in un bar di fronte al Politeama Rossetti, per le 8.30.
La sera prima di andare a questo incontro fui accompagnato in una točka, cioè una base dove ci si trovava per le riunioni e anche dove si ospitavano i compagni. Questa točka si trovava in via Damiano Chiesa, era la casa di Carla, la compagna che aveva dato una mano per organizzare i volantinaggi con l’effige di Tito. Lei era sposata con il compagno Dalla Negra, uno dei comandanti del Battaglione Zol, anche se poi quando lui rientrò dopo la fine della guerra non tornarono a vivere assieme.
In casa c’era anche un’altra persona, io lo conoscevo come Aldo ma non so quale fosse il suo vero nome. Non era della zona nostra, però aveva partecipato all’azione di via D’Azeglio, aveva fatto parte del gruppo che doveva controllare l’esterno ed era tra coloro che erano riusciti a cavarsela. Alla fine dell’azione gli avevamo dato un mitra polacco che avevamo trovato nel garage: me lo ricordo perché era l’unico mitra a carica orizzontale, e lui dopo quell’azione sparì, senza restituire il mitra. Ero perciò stupito di trovarlo in casa di Carla, che avrebbe dovuto essere un posto sicuro solo per militanti fidati. Si offrì di dare un’occhiata alla mia rivoltella, così gliela diedi e lui la smontò e poi la rimontò.
Passai la notte nella točka e la mattina dopo andai all’appuntamento con gli emissari del CLN: ero vestito come un questurino, con un vestito nuovo che mi aveva cucito mio padre, un cappello grigio e una borsa che conteneva dei libri di teologia che mi aveva dato don Giulio.
Nel bar trovai i due emissari: erano in divisa da guardie civiche e se non mi sbaglio uno aveva i gradi da capitano e l’altro da tenente. Ci salutammo militarmente e l’incontro durò pochissimo: mi dissero che avevano deciso di insorgere per conto proprio, così io me ne andai dopo avere loro detto che dovevano aspettare per uscire almeno 15 minuti dopo che me n’ero andato.
Feci un giro a zig zag per tornare a San Giovanni e quando rientrai in casa di Carla Aldo mi domandò se mi era servita la pistola: gli dissi di no e lui allora mi disse “meno male, perché ti mancava questo” e tirò fuori di tasca il percussore che aveva tolto dalla mia pistola la sera prima.
Non so perché l’abbia fatto, se era un provocatore o semplicemente un cretino, poi non seppi più nulla di lui.
Rimasi ancora quella notte a casa di Carla e me ne andai la mattina dopo, non ricordo se in villa Tofful o in casa Birsa, dovevo tornare in un posto sicuro e poi dovevamo preparare l’insurrezione.
- Quando arrivò il momento?
- Il 26 aprile Greif, io ed un altro compagno stavamo tornando dalla riunione dello Stato maggiore che si era tenuta a Bagnoli; siamo scesi dal tram in piazza Sansovino per prendere quello della linea 2 che portava a San Giovanni. Da quest’altro tram che era arrivato in quell’istante scese il nostro informatore all’interno della “banda Collotti”, uno del quale purtroppo ricordo solo  il nome di battesimo, Cosimo. “Gino, disse, la squadra volante è fuggita con Collotti, sono partiti”. È stato allora che abbiamo capito che eravamo arrivati al punto finale.
- E dopo l’insurrezione? Silvio Maranzana sul “Piccolo” ha scritto che “nella tristemente famosa Villa Segrè” Gobbo “avrebbe orchestrato la Squadra volante (…) resasi responsabile di arresti, deportazioni, torture, sevizie, spicce esecuzioni”…
- Tutte balle. Io ero stato nominato dirigente del Comando del II Settore, ci trasferimmo da villa Tofful in villa Segrè (in via dell’Università) ai primi di maggio.
In villa Segrè (che era “tristemente famosa” perché prima vi era una sede delle SS) avevamo compiti di ordine pubblico e tra le altre cose rilasciavamo anche le autorizzazioni per chi voleva allontanarsi da Trieste. Veniva molta gente a farsi fare i documenti per andare via, e un giorno capitò un uomo che fu riconosciuto dai nostri compagni come un torturatore dell’Ispettorato, quindi lo arrestammo e lo consegnammo all’autorità competente.
- E la “squadra volante”?
- La “squadra volante” era quella di Collotti… ma adesso vi spiego tutto. Un giorno mi chiamò al telefono il comandante del II plotone del III settore, Giordano Luxa, che come me, era stato a suo tempo membro del comitato circondariale di UO. Egli era di stanza col suo battaglione all’ex distretto militare di S. Giusto, mi domandò se avessi io sotto controllo le carceri dette dei “Gesuiti”, ma io gli risposi che erano sotto la sua giurisdizione. Lui spiegò che aveva ricevuto delle proteste relativamente a maltrattamenti dei prigionieri, ruberie, ed altro, commessi dal corpo di guardia che sostenevano essere ex partigiani.
Questo mi allarmò e decisi di indagare, mandai subito il mio vice, Stane Sternat, con un paio di uomini che mi riferì la situazione. I carcerati erano in subbuglio, le guardie avevano le stelle rosse su berretti di tutti i tipi, e alcuni dicevano di aver partecipato all’insurrezione, altri di essere stati partigiani in Istria.
Quanto visto e riferito dal mio vice dava un quadro ancora più grave di quanto mi aveva già descritto Luxa. Esaminata la situazione dal punto di vista tattico decidemmo di trasferire il corpo di guardia alla villa Segrè, per tenerli sotto controllo, mentre il nuovo corpo di guardia alle carceri venne composto da uomini fidati e comandato da una persona all’altezza del compito il compagno Ugo Bazzara. E cosi da una parte fu fatto ordine alle carceri e dall’altra sorvegliato il comportamento del gruppo di Ottorino Zol, quello che dirigeva le violenze ai Gesuiti.
- Quando accadeva tutto questo?
- Verso il 12 maggio, fino a quel giorno noi non mandavamo chi fosse stato arrestato ai Gesuiti. Nessuno dei prigionieri dei Gesuiti era stato arrestato da noi. Invece in villa Segrè operava un altro gruppo, agli ordini di Giuseppe Steffé, che pure mettemmo sotto osservazione.
Dopo circa una settimana abbiamo avuto abbastanza elementi in mano per decidere l’arresto di tutto questo gruppo che era coinvolto in fatti che non corrispondevano alle direttive, alla nostra funzione. I maggiori responsabili sono stati consegnati all’autorità jugoslava che ha provveduto a processarli. All’inizio ne avevamo arrestati di più, ma quelli consegnati all’Armata erano circa diciassette. Questi sono stati portati a Lubiana; durante il viaggio alcuni di loro tentarono la fuga, alcuni ci riuscirono, altri no. Quelli che riuscirono a scappare furono processati a Trieste; quelli portati a Lubiana sono stati processati e riconosciuti colpevoli, hanno fatto anche due o tre anni di reclusione, dopo sono tornati a Trieste.
Allora naturalmente non sapevamo che erano anche responsabili degli omicidi avvenuti alla foiba Plutone, li avevamo arrestati per le malversazioni e le violenze.
- Nell’articolo si parla anche della scomparsa della professoressa Elena Pezzoli del CLN italiano.
- Sì, io non ho mai visto la professoressa Pezzoli. Seppi che era stata arrestata (penso da Steffè), il giorno dei funerali di un compagno, Oreste Francia, il 25 maggio. Fui preso da parte da due compagni dell’ufficio dell’allora Pubblico Accusatore (che aveva funzioni giudiziarie nel Comando Città), Lojže Periz e Franc Čehovin (vice commissario del Comando Città) che mi chiesero notizie della professoressa Pezzoli. Dissi che non sapevo nulla di un suo arresto, tornammo in villa Segrè con Stane e lì controllammo tutta la villa per verificare se la Pezzoli era detenuta, ma non trovammo alcuna traccia. Non so cosa possa essere accaduto, ma io non ero al corrente di un suo arresto.
- Gli Jugoslavi lasciarono Trieste il 12 giugno.
- Sì, ed io andai via con loro, ero tra coloro che dovevano organizzare la Difesa Popolare nella zona B: io e Stane fummo tra i primi ad andare oltre confine. La nostra sede era a Portorose nella villa Margherita: dopo un po’ di tempo arrivarono anche dei gruppi di attivisti che per motivi di sicurezza non era il caso rimanessero a Trieste.
- Però nel 1947, dopo le esumazioni delle salme dall’abisso Plutone, Gino fu accusato di essere il responsabile di questo eccidio.
- Io fui condannato come comandante del gruppo che avrebbe fatto sotto il mio comando quello che è stato loro imputato, mentre al processo avrebbe dovuto emergere che ero stato proprio io quello che aveva impedito a quei signori di continuare a delinquere.

Interrompiamo qui l’intervista con Gino, che fu condannato e poi ottenne l’amnistia dal presidente Saragat. Aggiungiamo che abbiamo analizzato assieme a lui gli atti del processo, e dopo avere studiato anche molta altra documentazione (il risultato di questa ricerca è stato pubblicato nel maggio 2010 con il titolo “Operazione Plutone”, dossier de “La Nuova Alabarda”, n. 34) siamo giunti alla conclusione che prove per condannare Gobbo non ce n’erano, ma solo le dichiarazioni (confuse e contraddittorie) di alcuni testimoni che oggi chiameremmo “pentiti”. D’altra parte, se le autorità jugoslave avevano da subito operato contro quei criminali, fidandosi delle indagini coordinate da Nerino Gobbo, al quale non fu attribuita alcuna responsabilità, possiamo ritenere che l’Ozna, che operava in villa Segrè indipendentemente dal Comando Città, avrebbe agito anche contro Gobbo se vi fosse stato qualche sospetto su sue eventuali complicità: infatti nell’archivio dell’Ozna di Lubiana c’è una nota datata 29/5/45 a proposito di tre elementi pericolosi presenti in villa Segrè contro i quali era necessario agire [11]. Visto che Gino non fu in alcun modo perseguito, riteniamo che questa sia un’ulteriore prova della sua estraneità ai fatti criminosi.
Oggi Gino non c’è più, e per ricordarlo abbiamo deciso di pubblicare il suo racconto, che mentre lo raccoglievamo ci ha riportato in un periodo buio ma anche pieno di speranza come fu quello della Resistenza a Trieste.
Morte al fascismo e libertà ai popoli, dicevano allora. Ed oggi ripetiamo queste parole nel ricordo di un combattente che tanto ha dato per la causa della libertà e dell’internazionalismo.
Claudia Cernigoi, 6 maggio 2012
________________________________________
[1] Gioventù Italiana del Littorio.
[2] Club Alpino Italiano.
[3] Osvobodilna Fronta (Fronte di Liberazione) e Unità Operaia (Delavska Enotnost).
[4] Primavera del 1944.
[5] Il commissario Gaetano Collotti dirigeva la “squadra volante” dell’Ispettorato Speciale di PS per la Venezia Giulia, un corpo speciale di repressione che operò rastrellamenti, arresti, torture, violenze ed esecuzioni sommarie anche sui civili.
[6] Il servizio del lavoro germanico.
[7] Punto di contatto o ritrovo.
[8] Don Canciani sarebbe poi diventato membro del CEAIS (Comitato Esecutivo Antifascista Italo-Sloveno), cioè l’organo amministrativo della città di Trieste nel periodo di amministrazione jugoslava (maggio 1945).
[9] Silvio Pierazzi-Pirjevec racconta che uno degli uomini di Collotti in effetti andò a vedere chi lavorasse a quell’ora (si trattava del padre di un altro giovane partigiano, abitante in una casa vicina). “Cosa vuole – spiegò l’uomo – domani mattina devo andare a lavorare presto e così lascio la legna pronta a mia moglie”. Il collottiano gli credette e si complimentò addirittura con lui (testimonianza di Silvio Pierazzi-Pirjevec, luglio 2003).
[10] Franc Štoka dirigente dell’OF, fu il comandante politico delle forze insurrezionali e poi facente funzioni di sindaco nei “40 giorni” di amministrazione jugoslava.
[11] In As zks ae 116 505.

 
 
 
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