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Intervista a Nerino Gobbo “GINO” - parte I

Post n°673 pubblicato il 10 Maggio 2012 da VoceProletaria

Intervista a Nerino Gobbo “GINO” - parte I

di Claudia Cernigoi,  06.05.2012

E' recentemente scomparso Nerino Gobbo “Gino”, comandante del II settore della città di Trieste al momento della Liberazione. Nel corso di alcune interviste ci ha raccontato la sua storia, che riassumiamo qui.

- Gino, si sono dette tante cose su Nerino Gobbo, “spietato commissario del popolo”, “infoibatore”, ed altro. Ma chi è veramente Gino?
- Io sono nato a Rovereto, nel 1920 e la mia famiglia si stabilì a Trieste quando ero ancora molto piccolo. Avevo avuto dei problemi di salute e ci consigliarono di trasferirci in una città di mare, così venimmo a Trieste. Abitavamo nella corte di Fedrigovez, una zona di casette mono e bifamiliari nel rione di San Giovanni.
- Sì, conosciamo il posto, ci viviamo anche noi!
- Davvero? Ecco, questa è proprio una bella coincidenza. Ma andiamo avanti. Mio padre faceva il sarto, lavorava presso la ditta Beltrame, un grande negozio di sartoria ed abbigliamento, ed era considerato un ottimo sarto, tagliatore per abiti da donna. Sapete come perse il lavoro? Mio padre frequentava l’osteria detta del “Caligareto”, quella in via Giulia, all’ingresso della corte. Una sera, qualcuno disse che il governo aveva vietato di dire Messa in sloveno, e lui commentò che se la gente non ha più nemmeno il diritto di pregare nella propria lingua, allora vuol dire che siamo proprio messi male. Il giorno dopo, il padrone del negozio lo mandò a chiamare e gli disse che gli spiaceva, ma non poteva più farlo lavorare perché si era espresso contro il governo. Così da quel momento dovemmo tirare la cinghia, solo perché mio padre aveva detto quelle parole, che evidentemente qualche spione che frequentava l’osteria doveva avere riferito a “chi di dovere”.
Quindi ho dovuto iniziare a lavorare da giovanissimo per aiutare la famiglia, ma sono riuscito a non rinunciare all’alpinismo e alla speleologia, che erano le mie passioni nel tempo libero.
- Dicono che Gino era stato istruttore della GIL [1].
- Anche questo è un modo per cercare di screditare una persona. Io sono stato chiamato alla leva ed ho prestato servizio militare presso la Scuola Militare di Alpinismo ad Aosta, nel Battaglione Duca degli Abruzzi, dove ho fatto l’istruttore. La scuola istruiva gli alpini sulle tecniche di arrampicamento, sia su roccia che su ghiaccio, e sulla tecnica dello sci, teneva anche corsi di addestramento alpinistico agli ufficiali che uscivano dall’accademia militare prima che fossero assegnati alle singole unità.
Noi che eravamo stati già prima istruttori alla scuola del CAI [2] di Trieste fummo per questo mandati alla scuola militare, che inviava i propri istruttori ai corsi di alpinismo del CAI presso altre regioni ad organizzazioni che ci richiedevano. Noi istruttori della scuola militare non avevamo nulla a che fare con la GIL: faccio questa precisazione perché si è ripetutamente cercato di far credere che gli istruttori della Scuola Militare di Alpinismo erano comandati dalla GIL, cosa del tutto falsa. Una dimostrazione della distanza che c’era tra noi e la GIL s’è vista al corso tenuto al Passo Sella in Val Gardena. Lì sentimmo la notizia della caduta di Mussolini: allora i capi della GIL, visto il clima di giubilo esploso tra i corsisti, se ne sono andati lasciando i ragazzi allo sbando. E siamo stati invece noi istruttori che ci siamo impegnati per fare tornare i corsisti alle loro case. È vero che sulle tessere del CAI c’era la stampigliatura della GIL, ma questo non significa che noi ne facessimo parte.
Devo aggiungere che quasi tutti noi cercavamo di seguire la situazione di Trieste e cosa accadeva in Slovenia. Ascoltavamo radio Londra e simpatizzavamo per i partigiani; inoltre alcuni di noi erano stati in licenza a Trieste tra luglio ed agosto 1943.
Io ritornai a Trieste con altri compagni nel 1944 in un momento molto critico. C’erano stati da poco le fucilazioni di Opicina, le impiccagioni di via Ghega, molti attivisti politici dell’OF e dell’UO [3] erano stati arrestati o uccisi [4]. Per questo il nostro arrivo fu accolto molto bene. Io trovai subito il collegamento col movimento di liberazione attraverso compagni che conoscevo da sempre: nella fabbrica dove avevo lavorato prima di andare militare esisteva già una cellula comunista, anche se io non ne avevo fatto parte. Nel rione di San Giovanni i miei compagni d’infanzia e di giovinezza erano tutti attivi chi nell’OF chi nell’UO. Ad esempio Maria Birsa era attivista dell’OF all’ospedale maggiore dove lavorava come infermiera; Giuseppe Birsa, due volte naufrago della Marina da guerra, demobilitato per ragioni di salute, era attivo nell’OF sul territorio e nell’UO alla Fabbrica Macchine; Marcello Grill lavorava in un magazzino alimentare che riforniva l’esercito tedesco ed aveva la possibilità di sottrarre viveri che venivano mandati ai compagni.
Il periodo era dei più pericolosi. Prima del mio arrivo erano caduti nelle mani di Collotti [5] parecchi attivisti importanti.
Valutato il mio lavoro venni incluso relativamente presto nel comitato Circondariale dell’UO.
Tirava già aria di insurrezione per cui dalle azioni di raccolta viveri e vestiario per le formazioni partigiane, dalla propaganda per l’afflusso nelle file dei combattenti, dalle azioni di volantinaggio che imbestialivano tedeschi e fascisti, iniziò anche l’azione per la raccolta delle armi. Gli avvenimenti scorrevano veloci.
Ad un certo punto il compagno Tofful mi mandò a dire che mi avrebbero incontrato due compagni per parlarmi. Erano i compagni Franovic e Dolesi del comitato circondariale dell’UO-DE, che vollero sapere tutto di me e mi fecero un interrogatorio a tiro incrociato di terzo grado. Ma ho avuto l’impressione che sapessero già tutto di me. Io spiegai loro che volevo andare in montagna, ma loro mi dissero che per il momento dovevo rimanere in città e lavorare per l’Unità Operaia, parlarono di perdite di quadri e necessità di sostituirli.
I miei contatti mi procurarono dei documenti della Todt [6] e fui in grado di muovermi liberamente in città. A casa mia vennero un paio di volte i carabinieri a domandare di me, ma i miei dissero che mi avevano dato per disperso dall’8 settembre.
Fui così inserito nella Unità Operaia del secondo rione (la città era stata divisa in otto zone d’intervento, dette “rioni”); poi quando venne a Trieste la commissione militare a preparare la formazione del Comando Città del IX Corpus, la città venne suddivisa in quattro settori territoriali e vennero formati i Comandi di Settore del Comando Città. Del Comando del II settore era stato nominato comandante Martin Praček, vecchio attivista dell’OF.
Ho partecipato a questo processo fin dall’inizio: fui prima nominato commissario politico del II settore, poi all’inizio del ‘45 ne divenni il comandante. Come tale ho partecipato all’insurrezione armata ed i risultati non sono mancati, come pure i riconoscimenti.
- Parliamo un po’ dell’attività a Trieste.
- Certo. Verso la fine del 1944 i nazifascisti avevano riempito la città di manifesti di propaganda antipartigiana, soprattutto anticomunista, manifesti che rappresentavano i comunisti come mostri sanguinari.
A quel punto decidemmo una, chiamiamola così, controffensiva di affissioni. Ci riunimmo nel Boschetto di Trieste una sera, approfittando di un preallarme come facevamo spesso, perché in quei momenti tanta gente andava a cercare rifugio dai bombardamenti e non si dava nell’occhio se ci si trovava assieme. Eravamo una trentina di persone, quasi tutti molto giovani. Dopo alcune discussioni sull’agire o non agire, decidemmo di fare un’affissione a tappeto di manifestini con l’effigie di Tito. Fu in quell’occasione che notai per la prima volta Carla, una bella ragazza scura di occhi e di capelli: era una kurirka, una staffetta di San Giovanni: prese la parola, non ricordo se parlò in italiano o in sloveno, ma con tanta enfasi che convinse anche i più dubbiosi ad intervenire con questa azione.
Così preparammo i manifesti: erano in formato A3 ed A4; li portò a San Giovanni, in una javka [7] presso un carbonaio di via San Cilino di nome Poropat (che teneva presso di sé anche armi per il movimento di liberazione), don Giulio, un prete che collaborava con noi. Con lui non parlavamo più che tanto di politica o di religione, stava con noi e questo bastava: anche con l’altro sacerdote che faceva parte del movimento, don Canciani [8], eravamo rimasti d’accordo di non entrare in polemiche o discussioni, noi non intendevamo proibire la religione o impedire la libertà di culto, ci bastava che fossero riconosciuti come valori fondamentali l’antifascismo e la democrazia socialista. E questi preti erano d’accordo con noi.
Non so il cognome di don Giulio, so che abitava nella zona di via Piccardi; qualcuno andò a cercarlo poco prima dell’insurrezione ma sentì da dietro la porta di casa sua che stava litigando con qualcuno e se ne andò senza farsi sentire.
A proposito di preti, voglio dire che uno dei posti dove dormivamo durante la clandestinità era proprio un alloggio di preti presso la parrocchia di San Giovanni, anch’io ho passato diverse notti lì. Finché un giorno il vescovo Santin non diede ordine a don Canciani di sbatterci fuori, allora ce ne andammo perché il posto non era più sicuro.
Ma parlavamo dei manifesti di Tito. I compagni si organizzarono in coppiette, che facendo finta di fermarsi a pomiciare per le strade, attaccarono i manifesti in tutta via Giulia e via Carducci, anche piuttosto vicino alle sedi dei nazisti (in piazza Oberdan c’era il comando della SS).
Per i volantini avevamo diversi sistemi di diffusione: uno era quello della bora… nelle giornate di vento si posava una pila di volantini in punti strategici (uno dei migliori era sotto i portici di Chiozza), e quando arrivava una raffica i volantini volavano davvero, dappertutto. Un altro sistema l’aveva pensato Giulio, uno dei nostri compagni più in gamba: figuratevi che una volta ha disarmato, da solo, un tedesco nella zona del cimitero. Gli era andato alle spalle, gli aveva ficcato un dito nella schiena ed intimato di consegnarli l’arma. Il nazista si spaventò e gli diede la pistola, senza rendersi conto del bluff. Bene, questo Giulio aveva un sistema di diffondere i volantini ed anche i nostri giornali, nelle case: andava fino all’ultimo piano, e da lì, scendendo infilava i fogli nelle cassette delle lettere o sotto le porte. Così prima che uno si accorgesse di cosa accadeva il militante era già fuori dallo stabile.
Questo metodo piacque ai compagni e fu adottato per la diffusione della stampa.
- Poi c’erano anche attività più pericolose.
- Sì. Vorrei parlarvi di Ruggero Haas e di sua moglie Albina, che abitavano in una casa sul monte Valerio, presso la quale avevano costruito un bunker dove conservavano il materiale per la lotta. Haas era un buon compagno, onesto e coraggioso, però purtroppo non riusciva ad entrare nello spirito della vita clandestina. Si vestiva in tuta da lavoro, cosa che non andava molto bene, all’epoca era meglio indossare abiti buoni, perché un operaio che girava di giorno era sospetto. Inoltre era sempre sul chi vive e si aggirava guardingo, al punto che dava nell’occhio il modo in cui si muoveva. Questo comportamento gli aveva meritato il soprannome, affettuosamente ironico, di Konspiracijo.
Un altro bunker era stato sistemato in una casa vicina alla loro, dove abitava la famiglia Pierazzi. In quest’altro bunker c’era anche la macchina per la stampa.
Quando la banda Collotti arrestò i coniugi Haas e trovò il bunker, anche noi ci trovammo in una brutta situazione, perché dovevamo fare in modo di portare via tutto il materiale, senza farci scoprire.
Dalla casa dei Pierazzi si riusciva a vedere Collotti ed i suoi che cercavano il bunker nel terreno dei Haas. Ci organizzammo in modo da prelevare il materiale dall’altro bunker e di notte (mi ricordo che era una notte molto buia, senza luna) andammo a prendere la roba per portarla, attraverso il bosco, in un posto sicuro. Per coprire il rumore che facevamo nel nostro andirivieni, qualcuno si mise a segare della legna, cosa che alla fine avrebbe potuto essere ancora più pericolosa per noi, perché magari i poliziotti si sarebbero insospettiti a sentire il rumore e avrebbero potuto venire a controllare come mai c’era chi segava legna a notte fonda nel buio [9]. Il compagno era talmente agitato che lo si capiva dal rumore che faceva la sua sega: man mano che gli aumentava l’ansia, accelerava il ritmo e faceva sempre più rumore. In ogni caso riuscimmo a concludere l’operazione, quella notte portammo via tutto il materiale dal bunker dei Pierazzi e lo consegnammo a Milan, un compagno di Longera, che lo depositò nel bunker del loro villaggio.

 
 
 
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