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USCIRE DALL’EURO

Post n°927 pubblicato il 21 Maggio 2013 da VoceProletaria


Manifesto per il recupero della sovranità economica, monetaria e cittadina

USCIRE DALL’EURO

La drammatica situazione sociale ed economica in cui è sprofondata la nostra società esige una politica capace di creare le condizioni per uscire dalla crisi. È una necessità urgente. Il tempo è un dato primario per i rischi di aggravamento e degradazione che esistono, per l’enorme sofferenza sociale provocata dal persistere delle politiche di tagli, austerità e privatizzazione del pubblico.
La rete in cui siamo presi è fatta da un livello di disoccupazione catastrofico, da un indebitamento del paese con l’estero impossibile da affrontare e da un’evoluzione dei conti pubblici che porta al fallimento economico dello Stato. Oltre 6 milioni di disoccupati, oltre 2,3 miliardi di euro di passivo lordi con l’estero, e un debito pubblico di quasi un miliardo di euro, crescente e che si avvicina al 100% del PIL, sono dati che definiscono un disastro inimmaginabile, mettono in pericolo la convivenza e distruggono diritti sociali fondamentali.
Una crisi di questa portata ha cause complesse e multiple, dalla crisi generale del capitalismo finanziario agli sprechi e alla corruzione, passando per un sistema fiscale tanto regressivo quanto ingiustamente applicato, ma, anche a rischio di semplificare l’analisi per scoprire le soluzioni, bisogna attribuire all’entrata del nostro paese nella moneta unica la principale ragione di questa desolante situazione.
Come ora si riconosce, non c’erano le condizioni per stabilire una moneta unica tra paesi tanto disuguali economicamente senza accompagnarle con una fiscalità comune. La sua creazione implicava, d’altra parte, un quadro propizio all’instaurazione di politiche regressive e antisociali di tutti i tipi secondo i dettami della dottrina neoliberista, che ha avuto nella costruzione dell’Europa di Maastricht la sua massima espressione. Come si è valutato a suo tempo, lo Stato del welfare non è compatibile con l’Europa di Maastricht.
Con l’entrata nell’euro, il nostro paese ha perso uno strumento essenziale per competere e mantenere un ragionevole equilibrio negli scambi economici con l’estero, quale era il controllo e la gestione del tipo di cambio rispetto al resto delle monete. D’altra parte, c’è stata una cessione di sovranità a favore della BCE in quanto a liquidità e applicazione della politica monetaria, un’istituzione dominata fin dalle origini dagli interessi del capitalismo tedesco.
Come non poteva essere diversamente, l’arretratezza e la debolezza dell’economia spagnola rispetto ad altri paesi e la rigidità assoluta imposta dall’euro hanno condotto durante gli anni 2000 a un deficit della bilancia dei pagamenti a causa di una spesa corrente opprimente. Si sono registrati squilibri insostenibili, come pure è accaduto ad altri paesi come la Grecia e il Portogallo catturati nella stessa trappola. Nei 14 anni trascorsi dalla creazione dell’euro nel 1999 fino alla fine del 2012, il deficit estero accumulato è stato di quasi 700 mila milioni di euro, che si è dovuto finanziare indebitandosi con l’estero. Gli enti creditizi e le imprese spagnole hanno chiesto più di un altro miliardo di euro di risorse per i propri piani d’investimento all’estero, specie in America Latina.
Fino all’anno 2008, in cui si è manifestata la crisi finanziaria internazionale, a causa delle agevolazioni straordinarie dei finanziamenti, il paese ha vissuto un sogno, come drogato, alimentando la bolla immobiliare e estraneo ai problemi che si erano generati. In quell’anno, tutto è cambiato radicalmente, i mercati finanziari di sono chiusi, dai canali non fluiva liquidità e la situazione di ciascun debitore è stata esaminata con rigore. Con il brusco cambiamento nella posizione debitoria della nostra economia nei confronti dell’estero, i passivi lordi sono passati da 540 mila milioni a fine del 1998 a 2,2 miliardi nel 2008, il paese è entrato in fallimento ed è sopravvenuta una profonda recessione che a tutti gli effetti è ancora vigente.
Il settore pubblico ne ha risentito profondamente da allora, incorrendo in un deficit esorbitante a causa della drastica caduta delle entrate, rafforzata dall’esplosione della bolla immobiliare. Lo Stato, sul quale finiscono per scaricarsi tutte le tensioni delle amministrazioni pubbliche, ha avuto necessità di centinaia di milioni di euro, ottenuti con l’emissione di debito pubblico nei mercati interni ed esterni, di fronte all’impossibilità di finanziare direttamente per mezzo delle propria autorità monetaria. Alla fine del 2007, il debito circolante dello Stato era di 307.000 milioni di euro, il 37% del PIL. Alla fine del 2012 era salito a 688,000 milioni, il 65% del PIL, e continua ad aumentare in corrispondenza dell’evoluzione deficitaria dei conti pubblici.
Da quando è stata ammessa la crisi, la politica economica ha mantenuto alcuni tratti di base inamovibili. La perdita di competitività dell’economia spagnola è servita come scusa per applicare rigorosamente le ricette neoliberiste e si è cercato di compensare con il cosiddetto “aggiustamento interno”, un processo diretto a diminuire i salari e favorire i licenziamenti per diminuire il prezzo delle merci e dei servizi spagnoli, dal momento che la via naturale e storica della svalutazione della moneta è impedita dall’euro. Restrizioni, controriforme del lavoro e tagli continui marcano la politica degli ultimi anni. D’altro canto, la cosiddetta austerità si è imposta brutalmente nella politica fiscale, come esigenza dei poteri economici, facendo della lotta contro il deficit pubblico il talismano ingannevole della soluzione alla crisi.
Questa politica ha prodotto una retrocessione sociale molto dolorosa, ha dato un impulso incontenibile alla crescita della disoccupazione e, cosa fondamentale, è inutile. Il paese scivola senza freni e precipita in un baratro profondo. Gli agenti determinanti della crisi continuano intatti, quando non peggiorano. I passivi esteri non possono diminuire senza che si registri un eccedente nella bilancia di pagamento, cosa praticamente irraggiungibile per un’economia abbastanza demolita e scarsamente competitiva, e il pesante carico di debito pubblico non smetterà di crescere fino a quando non si diluisca il deficit pubblico, cosa che lo stesso governo non riesce a scorgere. La sfiducia è generale.
La società è ad un crocevia. Come superare il disastro? L’alternativa alla crisi difesa dalla Troika e apertamente dal PP passa per l’inasprimento dei tagli, per l’austerità e la distruzione del pubblico.
L’economia spagnola, come è già successo in Grecia e Portogallo, cade nel precipizio e sprofonderà nell’abisso, con conseguenze sociali drammatiche e rischi politici di ogni segno.
Il PSOE, compartecipe attivo nell’attuale disegno economico e sociale, finge ora un disaccordo con il PP e critica la sua politica suicida, ma continua ad essere legato al criterio che l’euro è irreversibile.
Le direttive dei sindacati maggioritari, una volta appurato l’errore di calcolo commesso con il consenso critico a Maastricht, denunciano ora l’attuale stato di cose, ma non sono in condizione di proporre misure anticrisi realmente efficaci dal momento che non mettono in discussione con coerenza l’Europa costruita.
Altre forze, organizzazioni e autori di sinistra criticano l’Europa attuale e propongono cambiamenti abbastanza utopistici e progetti senza fondamento, dato il carattere non riformabile dell’Europa sorta, soprattutto dopo l’ampliamento della zona euro all’Est. Alle carenze originali della moneta unica si aggiunge il peso che esige la Germania come paese egemone e la realtà di una scomposizione dell’Europa, imprigionando alcuni paesi con debiti impagabili. L’imprescindibile e urgente necessità di rompere i vincoli dei Trattati europei non può paralizzarsi né nascondersi dietro progetti di altra natura.
Per desiderabile che sia un’altra Europa, per ora non è percorribile, richiede basi molto diverse su cui fondarsi e la sovranità perduta di ciascuno Stato.
Il fallimento del progetto di costruzione dell’Europa è inoccultabile, e non è possibile determinare quando e come rovinerà l’insostenibile situazione esistente.
A noi firmatari di questo manifesto sembra chiaro che l’Europa di Maastricht non potrà sopravvivere con la sua attuale configurazione, dopo i disastri e le sofferenze che ha causato, oltre ad aver svuotato di contenuto la democrazia ed aver sottratto la sovranità popolare.
Affermiamo pure che il nostro paese non può uscire dalla crisi nel quadro dell’euro. Senza moneta propria e senza autonomia monetaria è impossibile far fronte al dramma sociale ed economico, tanto più che pure la politica fiscale è stata annullata dal Patto di Stabilità, proditoriamente costituzionalizzato.
È necessaria una moneta propria per competere e una politica monetaria sovrana per somministrare liquidità al sistema e stimolare una domanda ragionevole. E questo come prima condizione ineludibile, però non sufficiente, per poter sviluppare una politica avanzata di controllo pubblico dei settori strategici dell’economia, di nazionalizzazione delle banche, di ricostruzione del tessuto industriale e agricolo, di difesa e potenziamento dei servizi pubblici fondamentali con un potente e progressivo sistema fiscale, di ammortizzamento delle disuguaglianze e distribuzione della ricchezza, di ripartizione del lavoro per combattere la disoccupazione, di deroga delle controriforme del lavoro e delle pensioni, di rispetto vero verso l’ambiente, ecc…, e di affrontare un processo costituente che permetta di recuperare e approfondire la democrazia. Per tutto ciò bisogna lasciare da parte transitoriamente il deficit pubblico, dimenticarsi di fare proposte impossibili alla BCE e smetterla di avere nostalgia della Riserva Federale o della Banca d’Inghilterra quando si può disporre della Banca di Spagna come istituzione equivalente.
L’ammontare del debito estero è insolvibile. La maggior parte è debito del settore privato, e tocca a chi l’ha contratto risolvere i problemi che si presentino, incluso il settore finanziario, molto compromesso.
Perciò rifiutiamo qualsiasi operazione di “riscatto” del nostro paese e per la stessa ragione consideriamo come debito completamente illegittimo quello contratto dallo Stato per distribuire fondi di salvezza per gli enti creditizi che non siano stati nazionalizzati.
Rispetto al debito pubblico, lo Stato deve fare una profonda ristrutturazione dello stesso (abbandono, moratoria, conversione in moneta nazionale) che allevi la pressione schiacciante che subiscono i conti pubblici. Agendo diversamente, può considerarsi come irrimediabile il fallimento del Settore pubblico.
Non ci sfuggono i problemi e la complessità dei passi che proponiamo, tra gli altri limitare la libera circolazione di capitali. E la nostra analisi non ci impedisce nemmeno di collaborare con azioni, proposte e mobilitazioni con quella parte della cittadinanza e le sue organizzazioni che, sotto effetto del bombardamento mediatico cui siamo sottoposti o per altri motivi, ancora non condivide la nostra opzione di fronte al crocevia in cui ci troviamo e la necessità di rompere il nodo gordiano dell’euro.
Senza dubbio, di fronte al disastro che ci coinvolge e di fronte alle cause profonde che lo promuovono ed acutizzano, non possiamo restare zitti né evasivi.
A nostro modo d’intendere, oggi la società spagnola, che è entrata in una agonia prolungata e senza speranza, non dispone di altra scelta che uscire dall’euro per impedire lo sprofondamento definitivo del paese.
Recuperare la sovranità perduta, rendere effettiva la sovranità popolare, richiede di venire fuori dai capestri che ci paralizzano, affrontare la dura realtà e dotarsi dei mezzi per tracciare un progetto di sopravvivenza che, con tutte le difficoltà, può rappresentare anche una grande opportunità per creare una società sovrana, prospera, solidale, democratica, ecologicamente responsabile e libera.

Primi firmatari:

Julio Anguita/ Sebastián Martin Recio/ Diosdado Toledano/ Héctor Illueca/ Salvador López Arnal/ Joaquín Miras/ Juan Rivera/ Miguel Riera/ Andrés Piqueras/ Miguel Candel/ Alberto Herbera/ Isabel de la Cruz/ Rodrigo Vázquez de Prada/ Manuel Muela/ Rosario Segura/ Juan Montero/ Leonel Basso/ Joan Tafalla/ Manuel Monereo/ Antonio Gil/ Manuel Cañada/ Santiago Fernández Vecilla/ Carlos Martínez/ Pedro Montes.

 

 
 
 

A Bologna una battaglia in difesa della Costituzione. Parte I

Post n°926 pubblicato il 20 Maggio 2013 da VoceProletaria

A Bologna una battaglia referendaria in difesa della Costituzione,   
dei diritti sociali e della democrazia


di Fabio Besia insegnante, Federazione PdCI Bologna
17 Maggio 2013

«La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Articolo 33 della Costituzione Italiana

«Quale fra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie comunali che vengono erogate secondo il vigente sistema delle convenzioni con le scuole d’infanzia paritarie a gestione privata ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia?

A) utilizzarle per le scuole comunali e statali
B) utilizzarle per le scuole paritarie private»

Quesito del referendum consultivo comunale bolognese del 26 maggio 2013

________________________________________

Ci sono battaglie che, partendo da un ambito specifico e da una dimensione locale, possono assumere, grazie alle loro implicazioni, un carattere generale e strategico, perché riconducono a sé le contraddizioni più profonde del quadro politico-sociale nazionale. Basti solo pensare al movimento No-Tav della Val Susa o, per altri versi, alla lotta condotta dalla Fiom a Pomigliano: conflitti in cui la rivendicazione dei diritti sociali e degli spazi di democrazia trova il proprio fondamento nei principi stessi su cui si regge la nostra Carta costituzionale.

Qualcosa di simile sta avvenendo nelle ultime settimane anche a Bologna, dove il prossimo 26 maggio si svolgerà un referendum consultivo cittadino promosso dal Comitato Articolo 33, con l’obiettivo di eliminare i finanziamenti comunali alle scuole private paritarie, per destinarli invece al finanziamento delle scuole pubbliche. L’iniziativa referendaria del Comitato è stata sostenuta fin dall’inizio dal fronte composito della società civile bolognese (movimenti ed associazioni da sempre attivi a sostegno della scuola pubblica), dalle forze politiche cittadine di sinistra (Pdci, Rifondazione, Sel, Verdi), dal M5S e da forze sindacali come Flc, Fiom e sindacalismo di base. Grazie anche al loro attivo sostegno, il Comitato referendario è riuscito a raccogliere lo scorso autunno, nell’arco di poche settimane, quasi 13mila firme di cittadini bolognesi, ben oltre il limite necessario stabilito dallo statuto comunale.

È a questo punto, con l’indizione del referendum, che la partita è entrata nel vivo, assumendo via via toni sempre più aspri, compattando a sostegno del finanziamento alle scuole private uno schieramento che fino a poco tempo fa sarebbe stato considerato eclettico, ma che oggi appare profeticamente coerente: Pd, Pdl, Udc, Lega Nord, Confindustria, Cisl, Curia, Comunione e Liberazione. In pratica tutti i poteri forti cittadini, a cui va aggiunta la malcelata insofferenza al referendum espressa dalla maggioranza della Camera del Lavoro Metropolitana, in contrasto con la posizione di aperto sostegno assunta dalla sinistra sindacale di classe nella Cgil, assieme alla Flc ed alla Fiom.

Ma come è stato possibile che proprio a Bologna si sia determinata una situazione simile? Per comprenderlo occorre fare un salto all’indietro di circa vent’anni.

Il “laboratorio Bologna” e la liquidazione del patrimonio storico-ideale del Pci

Come è noto, la storica sezione della Bolognina è stato il proscenio per lo scioglimento del Pci e l’avvio della svolta occhettiana. Ma a metà degli anni Novanta, il gruppo dirigente dell’allora Pds, che a Bologna amministrava con la giunta del sindaco Walter Vitali, ritenne che, sciolto il Pci, era ormai giunto il tempo di un ulteriore passo in avanti e che la città dovesse ancora una volta diventare il laboratorio politico per sperimentare in loco, prima di lanciarlo a livello nazionale, l’accordo tra ex-comunisti ed ex-democristiani. E la giunta Vitali ritenne che il terreno di sperimentazione dovesse essere, non casualmente, proprio la scuola, da sempre considerata strategica dalla forze cattoliche.

Nel settore scolastico tutte le giunte bolognesi a guida comunista avevano massicciamente investito, dal dopoguerra fino agli anni Settanta, costruendo una rete di istituti comunali di ogni ordine e grado, dagli asili-nido fino agli istituti tecnici superiori. Il fiore all’occhiello del sistema di istruzione pubblico comunale era rappresentato dalle scuole dell’infanzia, per l’eccellenza della loro elaborazione pedagogica (riconosciuta anche a livello internazionale) e per la capillarità dell’offerta, estesa su tutto il
territorio cittadino.

Nel 1994 il sindaco Vitali decise consapevolmente la fine di questo modello virtuoso di intervento pubblico, in nome del “superamento di antichi steccati ideologici” sostenendo la convenzione che diede vita al cosiddetto modello integrato pubblico-privato, fondato ovviamente sui finanziamenti comunali alle scuole private, in specie quelle materne cattoliche. Negli anni immediatamente successivi alla stipula dell’intesa, diventarono evidenti gli effetti di questo radicale cambiamento di strategia: progressivo smantellamento dell’apparato scolastico comunale (ridotto unicamente agli asili-nido e alle scuole dell’infanzia) e continuo incremento della quota di finanziamento alle scuole private paritarie, in aggiunta alla quota già garantita sia dalla Regione Emilia-Romagna, sia (grazie all’azione del ministro Luigi Berlinguer) dallo Stato italiano.

È utile ricordare che la stessa giunta Vitali si rese protagonista in quegli anni di un’altra decisa rottura con il “modello” bolognese ereditato dalle passate amministrazioni a guida comunista, ovvero la privatizzazione delle Farmacie Comunali, un’azienda che produceva un cospicuo utile e la cui dismissione venne affidata all’allora assessore al bilancio Flavio Delbono, professore universitario di area cattolica, che ritroveremo sindaco della città per una brevissima quanto infelice stagione politica caratterizzata da scandali e cattiva gestione dei fondi pubblici. Dettaglio non trascurabile: la privatizzazione delle Farmacie Comunali fu portata a termine nonostante il parere contrario espresso dalla cittadinanza attraverso un referendum popolare consultivo che vide i comunisti bolognesi protagonisti di quella importante battaglia. La scusa addotta fu la scarsa affluenza alle urne (36% degli aventi diritto), che secondo la giunta rendeva l’esito “non politicamente significativo” .

Sta di fatto che il laboratorio bolognese aveva prodotto i risultati sperati. In quella che una volta era considerata la “roccaforte rossa” si privatizzava il welfare locale e si finanziavano con fondi pubblici comunali le scuole private cattoliche, un messaggio forte e chiaro di affidabilità che l’allora Pds lanciava ai suoi interlocutori a livello nazionale. Peccato che il messaggio non fosse evidentemente gradito ai cittadini bolognesi: le elezioni amministrative del 1999 furono infatti vinte dal candidato berlusconiano Giorgio Guazzaloca, a fronte di un astensionismo da record. Per riconquistare Palazzo d’Accursio i Ds furono costretti a schierare nelle successive elezioni comunali una figura nazionale quale Sergio Cofferati, che si rivelò tuttavia ben presto un corpo estraneo, mai integratosi nella vita pubblica cittadina, tanto da rinunciare volontariamente alla ricandidatura.

Seguì il breve intermezzo del sindaco Delbono che ha rapidamente portato al commissariamento della città. La buona politica e la buona amministrazione che avevano contribuito a creare, da Dozza in avanti, un modello sociale e politico ammirato in tutto il mondo (e particolarmente studiato dalla sinistra nordica, che ha mutuato gran parte del suo modello da quello emiliano e bolognese), in poco meno di tre lustri finiva ingloriosamente con un commissariamento e la scomparsa di amministratori di alto livello e competenza.

Il filo conduttore delle tormentate vicende politiche bolognesi degli ultimi vent’anni, qui sommariamente ricordate, emerge evidente: la progressiva liquidazione del patrimonio storico e ideale delle amministrazioni a guida comunista del secondo dopoguerra, perseguita in maniera esplicita e coerente, alla pari della giunta Guazzaloca di centrodestra, dall’apparato locale Pds-Ds-Pd. Il terreno ideale su cui operare lo “strappo” è stato identificato, in ossequio alla vulgata liberista (tra l’altro egemone a livello accademico anche nell’Ateneo bolognese) e all’ormai consolidato asse con i poteri forti cittadini, nel finanziamento pubblico alle scuole private cattoliche e nella privatizzazione di pezzi sempre più ampi e significativi di welfare comunale.

 

 

 
 
 

A Bologna una battaglia in difesa della Costituzione. Parte II

Post n°925 pubblicato il 20 Maggio 2013 da VoceProletaria

A Bologna una battaglia referendaria in difesa della Costituzione,   
dei diritti sociali e della democrazia

La battaglia referendaria del Comitato Articolo 33

L’attuale sindaco di Bologna, Virginio Merola, è stato eletto al termine della lunga fase di commissariamento, a seguito di consultazioni amministrative che hanno segnato un’altra triste rottura col passato: l’esclusione, per la prima volta dal dopoguerra, di rappresentanti comunisti dal consiglio comunale. Merola, diretta espressione dell’apparato Pd, renziano dell’ultima ora, è stato investito al ruolo di primo cittadino per dare seguito alle politiche di “larghe intese” col mondo cattolico e coi poteri forti cittadini, già perseguita dai suoi predecessori.

Prosegue quindi la strategia di progressiva riduzione nel finanziamento della scuola pubblica comunale e nel rafforzamento del cosiddetto sistema integrato di istruzione. Sotto la giunta Merola i finanziamenti comunali alle scuole private paritarie, di fatto quasi tutte scuole materne cattoliche, raggiungono la quota di 1milione e 200mila euro all’anno. Nonostante ciò, e nonostante gli ulteriori contributi garantiti dalla Regione e dallo Stato (per un totale di quasi 2milioni e 500mila euro), gli istituti privati paritari bolognesi rimangono tutti a pagamento, con rette da un minimo di 200 ad un massimo di 1000 euro al mese. Nel frattempo, come è noto, l’attacco alla scuola pubblica statale raggiunge il culmine, con i tagli lineari e le controriforme aziendalistiche operate, in piena continuità di intenti, dal tandem Gelmini-Profumo.

In questo drammatico contesto, il sistema integrato pubblico-privato bolognese viene apertamente presentato dall’amministrazione comunale bolognese come modello di riferimento a livello nazionale, e non è certo un caso che uno dei due sottosegretari all’Istruzione nominati dal governo Monti sia stata Elena Ugolini, per lunghi anni preside di un istituto privato bolognese gestito da Comunione e Liberazione.

Ma il meccanismo, apparentemente ben oliato, improvvisamente si inceppa. L’assessorato alla Scuola del comune di Bologna, per negligenza se non per scelta deliberata, sottovaluta il trend demografico positivo degli ultimi anni e così, all’inizio dell’a.s. 2012/2013, ben 423 bambini rimangono esclusi dalle liste della scuola dell’infanzia pubblica, nonostante risultino 96 posti ancora vacanti nelle scuole materne cattoliche. A dimostrazione del fatto che non tutte le famiglie bolognesi possono permettersi le rette richieste dalle scuole private paritarie, pur così generosamente sovvenzionate, né vogliono sottoporre i loro figli a un’educazione di stampo confessionale.

Su questa situazione di evidente impasse del cosiddetto sistema integrato di istruzione che si innesta la sfida referendaria lanciata dal Comitato Articolo 33 di Bologna, nato dall’iniziativa di intellettuali, docenti e genitori da sempre attivi in difesa della scuola pubblica e dei valori costituzionali che la contraddistinguono: inclusività, laicità e democrazia. Valori che non sembra siano in cima alle preoccupazioni delle scuole paritarie cattoliche: sarà un caso, ma attualmente su 1.730 allievi gli stranieri sono solo 80, cioè il 4,6% contro il 23,3% nella scuola dell’infanzia pubblica comunale e statale; i bambini disabili sono lo 0,3% contro il 2,1% nella scuola pubblica.

Come detto, l’iniziativa del Comitato referendario ha fin dall’inizio trovato sostegno nella sinistra politica e sindacale bolognese e in larga parte dell’opinione pubblica cittadina. Il risultato è stato, in poche settimane di mobilitazione, la raccolta di quasi 13mila firme. È a questo punto che la battaglia referendaria bolognese è entrata nel vivo e ha assunto anche i connotati di una battaglia per la difesa degli spazi di democrazia. Il sindaco e la giunta, infatti, dopo aver sottovalutato le capacità di mobilitazione civile del Comitato Articolo 33, trovandosi costretti a indire la consultazione referendaria e temendo evidentemente una possibile sconfitta, hanno cominciato a mettere in pratica tutte le possibili iniziative per contrastare l’azione del Comitato, anche attraverso palesi violazioni della prassi istituzionale.

Innanzitutto è stata respinta la richiesta del Comitato promotore di abbinare la consultazione referendaria con le elezioni politiche generali, scelta che avrebbe garantito tra l’altro un notevole risparmio per le casse comunali. La data scelta dalla giunta è stata quella di domenica 26 maggio, per ridurre al minimo l’affluenza, in modo da replicare l’escamotage già messo in pratica ai tempi del referendum consultivo sulla privatizzazione delle Farmacie Comunali. In questa stessa direzione va letta anche la decisione di istituire un numero di seggi nettamente inferiori al fabbisogno, nonostante le ripetute sollecitazioni del Comitato a garantire le migliori condizioni per la partecipazione popolare.

Ancora più eclatante è stata la consapevole decisione del sindaco Merola di abbandonare il ruolo di arbitro super partes, che gli affiderebbe in questo caso lo statuto comunale, per scendere direttamente in campo nella partita referendaria, appoggiando pubblicamente i fautori del mantenimento del sistema integrato e arrivando a mettere a loro disposizione la quota degli spazi pubblici normalmente riservata alla comunicazione istituzionale. In questo modo i sostenitori delle sovvenzioni alla scuola privata (opzione “B” al referendum) dispongono dei 2/3 degli spazi informativi, contro solo 1/3 riservato ai sostenitori dell’abolizione del finanziamento pubblico (opzione “A” al referendum). In un eccesso di sincerità, il sindaco bolognese è arrivato ad affermare che non terrà comunque conto dell’eventuale esito referendario, se a lui sfavorevole, essendo la sua natura semplicemente consultiva.

Conscio che le implicazioni della contesa referendaria stavano rapidamente travalicando l’ambito locale, assumendo i caratteri di una significativa partita in difesa dei principi costituzionali, il Comitato Articolo 33 ha deciso quindi di ampliare il perimetro della propria azione, promuovendo un appello nazionale, intitolato “Bologna riguarda l’Italia”, che ha rapidamente raccolto l’adesione di importanti personalità del mondo della cultura, della politica e del sindacato: da Stefano Rodotà, che ha accettato di assumere il ruolo di presidente onorario del Comitato, a Margherita Hack, Andrea Camilleri, Wu Ming, Maurizio Landini, Salvatore Settis, Luciano Gallino e molti altri (per vedere tutte le adesioni consulta il sito del Comitato: http://referendum.articolo33.org/ ).

Le parole dell’appello chiariscono il valore generale assunto dalla contesa referendaria bolognese: “La portata di questo referendum va ben oltre i confini comunali. E’ l’occasione per dare un segnale forte contro i continui tagli alla scuola pubblica e l’aumento dei fondi alle scuole paritarie private. In Italia c’è urgente bisogno di rifinanziare e riqualificare la scuola pubblica, quella che non fa distinzioni di censo, di religione, di provenienza. Quella dove le giovani cittadine e i giovani cittadini italiani ed europei imparano la convivenza nella diversità”.
Alla mobilitazione dei firmatari dell’appello nazionale, simpaticamente definiti da un assessore della giunta bolognese “intellettuali marziani di sinistra”, i sostenitori dell’opzione referendaria “B” hanno replicato con un manifesto in 10 punti a favore del sistema integrato pubblico-privato. Non casualmente, la sua presentazione è stata affidata all’ex-sindaco (in seguito senatore Pd) Walter Vitali e al professor Stefano Zamagni, economista bocconiano, figura di riferimento del mondo accademico cattolico bolognese, nonché maestro dell’altro ex-sindaco Flavio Delbono. Simbolicamente ricostruito l’accordo politico che diede vita negli anni Novanta al sistema integrato bolognese di istruzione, la lettura del manifesto ne rivela con coerenza gli elementi fondanti. Agli attacchi strumentali sul presunto carattere ideologico e laicista della proposta referendaria, alle falsità propalate sui suoi contenuti di merito, si affianca ora la consapevole rivendicazione di un modello di istruzione che si situa al di fuori del perimetro delineato dalla Costituzione repubblicana.

Nella visione del professor Zamagni e del senatore Vitali, la scuola perde ogni residuo connotato di “organo costituzionale”, come rivendicava Piero Calamandrei, e l’istruzione, lungi dall’essere considerata un diritto universale, viene definita, coerentemente con le concezioni neoliberiste, un “investimento per il futuro” soggetto alla libera scelta tra offerte concorrenti (purché debitamente finanziate con fondi pubblici). Non si poteva essere più chiari di così. In soccorso delle posizioni di Zamagni, a ulteriore conferma del rilievo nazionale assunto dal referendum bolognese, è giunta l’esplicita presa di posizione del presidente della Cei, il cardinale Bagnasco. Ancora più recentemente, il sindaco bolognese Merola ha deciso di alzare ulteriormente il tiro, affermando di voler “fare del referendum un caso nazionale in quanto occasione per chiarire da che parte sta il Pd” e definendo la consultazione popolare, in una lettera propagandistica inviata a tutte le famiglie bolognesi, un “imbroglio ideologico”.

Un’ occasione per il rilancio della presenza comunista e per la ridefinizione dei rapporti a sinistra.

Il laboratorio politico bolognese ha ancora una volta anticipato i tempi: gli schieramenti referendari locali ricalcano quelli stabilitisi a livello politico nazionale sulle “larghe intese” del governo Letta. E anche la posta in gioco è la stessa, insieme altamente simbolica e profondamente concreta. Si confrontano da un lato un progetto neomoderato, fondato sulla riduzione degli ambiti di democrazia e sulla ridefinizione in chiave liberista dei rapporti economici e sociali e dall’altro una visione ad esso radicalmente alternativa, che persevera nel mantenere ben saldi i riferimenti ai valori fondanti della nostra Carta costituzionale.

Il confronto è apparentemente asimmetrico: il fronte favorevole al finanziamento pubblico delle scuole private controlla la macchina comunale, dispone dell’appoggio di potenti apparati di partito e del sostegno di tutti i poteri forti cittadini. Opposto a uno schieramento così vasto e coeso, in grado di condizionare anche i principali canali di comunicazione locali, e che sta oltretutto giocando una partita di cui ha stabilito le regole e con l’arbitro schierato in campo, il Comitato Articolo 33 rilancia alla cittadinanza bolognese, nelle tante iniziative pubbliche realizzate grazie all’impegno diretto e generoso dei suoi volontari, l’appello in difesa dei principi costituzionali e dell’identità repubblicana. Di fronte alle falsità propagandistiche sulle ricadute negative per le famiglie bolognesi in caso di vittoria al referendum, i sostenitori dell’opzione pubblica contrappongono una semplice ma inconfutabile verità: l’abolizione dei finanziamenti alle scuole private garantirebbe di per sé l’apertura di un numero di sezioni di scuole dell’infanzia comunali in grado di assorbire completamente le liste d’attesa oggi esistenti.

La posta in gioco è davvero alta. La vittoria al referendum dell’opzione “B”, oltre a confermare il modello integrato di istruzione, aprirebbe la strada per i progetti futuri dell’attuale giunta comunale, che intende portare a termine il percorso di privatizzazioni aperto vent’anni fa dal sindaco Vitali con la vendita delle Farmacie Comunali, provvedendo all’esternalizzazione dell’intero welfare locale, da affidare ad una Asp unica (Azienda di servizi alla persona, partecipata dal comune), in attesa della prevedibile entrata in scena del sistema delle cooperative sociali, legato a interessi politico-economici trasversali. In questo schema rientrerebbe anche il destino delle scuole dell’infanzia comunali, preventivamente declassate al rango di “servizio a domanda individuale”, con la conseguente perdita delle garanzie contrattuali. Su questa prospettiva si è già aperta a Bologna una fase di profonda conflittualità sindacale tra la giunta e il personale educativo comunale.

In questa complessa e delicata partita, i Comunisti Italiani di Bologna, pur esclusi dal consiglio comunale e dalle istituzioni cittadine, hanno da subito giocato un ruolo di primo piano, aderendo formalmente al Comitato Articolo 33 e sostenendolo con determinazione, sia nella fase della raccolta firme che nella gestione della campagna referendaria. La segreteria della Federazione bolognese del Pdci ha immediatamente colto il valore strategico della sfida referendaria, ponendola al centro del progetto di rilancio della presenza del Partito sul territorio, tanto sul piano delle lotte sociali, quanto su quello del confronto politico. Straordinariamente rilevante è stato il contributo di militanza fornito dalla sezione cittadina e dalla Fgci, che hanno costantemente supportato l’azione del Comitato referendario, ottenendo espliciti riconoscimenti in termini di visibilità e di credibilità politica. Costante è stata la partecipazione del Partito al dibattito pubblico cittadino, grazie anche alla ricostruzione ex novo degli strumenti e dei canali informativi compiuta negli ultimi mesi.

Ma al di là delle occasioni contingenti che la sfida bolognese ha offerto per la ricostruzione del profilo politico dei comunisti in ambito locale, essa offre ulteriori spunti di riflessione di portata più generale. Innanzitutto, e inevitabilmente, dato l’ambito in cui si colloca, essa mostra con la più evidente chiarezza il compimento della parabola politica iniziata vent’anni fa proprio alla Bolognina, con l’annuncio della svolta occhettiana. Indubbiamente, anche da parte comunista, si sono manifestati limiti e ritardi d’analisi che hanno impedito di cogliere per tempo la profondità della trasformazione del profilo politico del Partito Democratico, nonché la forza dei legami interni e internazionali che ne condizionano l’azione di governo, a livello locale come a livello nazionale. D’altro canto, la definitiva presa d’atto di una volontaria rottura con il lascito storico e ideale dell’esperienza amministrativa di governo dei comunisti, in una città-simbolo come Bologna, deve indurci a rivendicarne apertamente l’eredità, difendendone senza incertezze il patrimonio di conquiste sul terreno dei diritti sociali e di cittadinanza, oggi apertamente minacciati dalla deriva neoliberista.

Soprattutto, va colta anche nella vicenda bolognese la conferma che nell’attuale fase politica nazionale, complessa e per certi versi drammatica, il terreno privilegiato per riunificare le lotte e le resistenze che pur si manifestano con forza nel Paese, deve essere prioritariamente quello della rivendicazione dei valori e dei principi fondativi affermati nella nostra Carta costituzionale. Attraverso la strenua difesa della Costituzione “colpita al cuore” i Comunisti Italiani sono chiamati a costruire, aprendo l’interlocuzione più vasta con le altre forze di sinistra, un fronte comune di opposizione alle politiche neoliberiste, che si batta contro la distruzione dei diritti sociali e la riduzione degli spazi di democrazia. La difesa dell’articolo 33, come di tutti gli altri che compongono il dettato costituzionale, è dunque oggi parte integrante del fronte di lotta principale, che permette di ricondurre le battaglie in difesa dei cosiddetti beni comuni nella dimensione unitaria più ampia della tutela del bene pubblico per eccellenza: la Costituzione Italiana nata, come amava ricordare Piero Calamandrei, il più deciso assertore del ruolo istituzionale della scuola statale nel nostro Paese, nelle montagne dove i partigiani caddero combattendo il nazifascismo.

 
 
 

Scuole e contributi: sulle interpretazioni del cardinal Bagnasco

Post n°924 pubblicato il 09 Maggio 2013 da VoceProletaria

Il 26 Maggio p.v. a Bologna si vota per il referendum sul finanziamento pubblico alle scuole private. Il referendum è stato ed è tuttora fortemente osteggiato ed avversato da quasi tutte le forze politiche (PD, PDL, Lega, Scelta Civica), nonché, ovviamente, dalle gerarchie ecclesiastiche le quali, non a caso, sono tra le principali beneficiarie in quanto "gestori"  di ben 25 su 27 di queste scuole private.

Da ultimo, nell'accesa polemica che si è sviluppata a Bologna, è sceso in campo il cardinale Bagnasco per perorare la causa dei privati. Ai suoi "ragionamenti"  risponde il Prof. Maurizio Matteuzzi, dell'Università di Bologna, con un intervento comparso su "Il Manifesto"  che qui di seguito riproduciamo.

Il 26 Maggio votiamo A, per restituire i soldi pubblici alle scuole pubbliche!

ProletariaVox

Scuole e contributi: sulle interpretazioni del cardinal Bagnasco

di Maurizio Matteuzzi,  09.05.2013
 
Federigo Enriques diceva che la teratologia insegna a comprendere meglio i casi normali. Quella affermazione era riferita al mondo della matematica, e alla opportunità di studiare i così detti casi degeneri, o mostri della ragione, le antinomie e i paradossi. Nello scritto seguente seguirò un metodo simile applicandolo non alle matematiche, ma a un argomento da più parti presentato a sostegno del mantenimento del finanziamento alle scuole, diciamo così, non statali.
C’è una certa sistematica lettura interpretativa dell’art. 33 della costituzione che accomuna interventi di personalità di spicco, come quelle di Zamagni e di Bagnasco, tanto per partire dai casi più eclatanti, e che rischia ormai di diventare un leit motiv di bandiera. La lettura è questa: lo Stato dà sì contributi alle scuole, ma questo provoca un vantaggio, perché dando, e semplificando, 1000 E per alunno, lo Stato ne ottiene 6000, come ritorno o come risparmio. Questa sarebbe dunque la lettura autentica dell’art. 33: posso pagare se ci guadagno.
Questa ermeneutica è profondamente errata; ricorda da vicino molte letture tipiche della scolastica medievale, o certe valutazioni gesuitiche, per le quali ci sono “cose che sono vere, ma non verissime”. Si avverte insomma l’odore del peggio della cervelloticità clerico scolastica, della dottrina della doppia verità, e, da ultimo, del flogisto e del sesso degli angeli.
Questa lettura è profondamente errata, come dicevo, nel senso che si basa su una inferenza errata; e mi sento di sostenere che il gioco è facile da smontare, quanto meno per chi, mi permetto di ricordare senza falsa modestia, ha dedicato una quarantina d’anni ai problemi della teoria dell’interpretazione e dell’ermeneutica, della logica e della filosofia del linguaggio.
Assumiamo il ragionamento come valido. Ecco allora, facciamo insieme un Gedankenexperiment, un esperimento mentale, che non ha oneri per lo stato, come ormai si vuole in forza della Gelmini da noi accademici. E facciamolo ricorrendo all’arte del paradosso, come preannunciato.
Supponiamo che ci sia una legge, poco importa in questo contesto se sia una legge morale o una legge positiva, che vieta di dare soldi alla mafia. È una legge credibile, non vi pare? Bene, supponiamo che io abbia un amico mafioso, e che io gli consegni 1000 E. Il mio amico li investirà, nel racket, o nella prostituzione, o nel commercio dell’eroina, e me ne renderà 2000. Ecco allora che la fallacia di cui sopra emerge splendidamente: io non ho dato soldi alla mafia, ma ne ho ricevuto: ho dato 1000 ed ho preso 2000, dunque ne ho presi 1000. Questo è lo schema logico che ci è proposto.
Ma voglio sviluppare una variante forse ancora più comprensibile. Ho un esercizio commerciale. La mafia mi chiede il “pizzo” di 1000 E. Anni fa ne ebbi esperienza diretta. In un territorio a forte governo mafioso, mi fu offerta da un simpatico signore con gli occhiali da sole una forma di “protezione”, o di “assicurazione”, perché gli incendi “erano frequenti in quella zona. Io dissi che non mi interessava. Dopo pochi giorni, una notte, il mio immobile ebbe un principio di incendio, fortunatamente subito notato dai vicini e messo sotto controllo. Il classico “avvertimento”. Allora, ecco riemergere l’interpretazione canonica: io pago 1.000 E, ma vuoi mettere quanto risparmio, poiché la casa non mi viene più bruciata? Un incendio vero mi provocherebbe danni per 10.000 E almeno; e allora io non ho dato 1000 E alla mafia, ma ne ho ricevuti ben 9.000 di vantaggio.
Ecco, il ragionamento è il medesimo. Chi lo sottoscriverebbe? Uno potrà obiettare l’inadeguatezza e persino l’irriguardosità dell’accostamento. Non c’è nessun accostamento, nessuna assimilazione naturalmente. Semplicemente si prende un caso diverso, e certamente assai remoto dalla situazione di partenza, per mostrare la fallacia dell’interpretazione data: un ragionamento, o, meglio, una legge morale, se è corretta, deve valere in ogni contesto: né la logica né la morale fanno compromessi, né storici né occasionali. Vale forse la pena di richiamarsi all’imperativo categorico kantiano:
“Agisci solo secondo la massima per la quale puoi e allo stesso tempo vuoi che questa diventi una legge universale.”
Ragioniamo pure sui lauti “guadagni” che il comune di Bologna avrebbe elargendo un milione e più alle scuole private; non contraddice l’art. 33, perché me ne viene un ritorno. Benissimo, ma poiché la logica è per sua natura universale, investiamo pure anche in eroina, oppure qualcuno mi spieghi perché no: il ragionamento è lo stesso, la logica non fa sconti a nessuno.
O forse non sarà meglio non prendersi in giro con le interpretazioni “sofisticate” e di sapore scolastico medievale, e riconoscere, come dice Rodotà, che la lettura della Costituzione, e in generale la dimensione etica, non sono precisamente un mercatino, con le due colonne del “dare” e dell’ “avere” in partita doppia?

P.S.: Per la cronaca, non ho pagato neanche dopo l’avvertimento. E non è più successo niente. A volte a tenere duro le cose vanno come dovrebbero andare…

 

 

 
 
 

Bologna, Piazza San Francesco: un magnifico 1 Maggio.

Post n°923 pubblicato il 02 Maggio 2013 da VoceProletaria

Bologna. Un magnifico 1 Maggio 2013.
In Piazza San Francesco.

Non poteva essere più diverso.  Due piazze così vicine, e spesso così somiglianti per composizione sociale, e mai così differenti come ieri. 
La mattina del 1 Maggio si è aperta con una Piazza Maggiore praticamente vuota (record storico per il minimo di persone ivi accorse) a sentire i rappresentanti di CGIL, CISL e UIL che hanno avuto la brutta pensata di festeggiare il "loro" 1 Maggio  insieme ai presidenti di Unindustria e di Legacoop, ovvero coi padroni.
La balzana idea di esibirsi unitariamente, sullo stesso palco, nella giornata di festa dei Lavoratori non era andata giù a tutta la sinistra. Come se non fosse sufficiente la pratica quotidiana dietro le quinte, adesso si voleva esibire sfrontatamente la loro immonda complicità.
Già la FIOM provinciale e regionale aveva annunciato che avrebbe disertato la giornata dell’inciucio sindacale bolognese  e sarebbe andata a Copparo, in provincia di Ferrara, laddove una grande azienda metalmeccanica, la Berco, minaccia di chiudere l’attività lasciando senza lavoro i suoi 600 operai, praticamente quasi tutte le famiglie di quel paese. Rappresentanti dei lavoratori coi lavoratori, ad iniziare da quelli più in pericolo, è questo il "minimo sindacale" che ci si attende da una sigla sindacale. E la FIOM non ha tradito le attese.
Al dissenso della FIOM, inoltre, si erano unite tutte le voci dissenzienti, dentro e fuori la CGIL, e in ogni ambito politico, sindacale e culturale di sinistra, contro un 1 Maggio collaborazionista.    
La sparuta presenza di ben 200 persone (diconsi duecento, non di più, come testimonia la stampa locale, anche la più benevola coi sindacati amici e coi padroni…) comunque accorse a celebrare quella porcheria non è comunque riuscita a frenare la sonora contestazione che i giovani (ed anche meno giovani) di Rifondazione Comunista - eroici! -  hanno indirizzato verso i rappresentanti della triplice concertativa ed  ai massimi rappresentanti dei padroni in terra felsinea.
Uno striscione, su cui campeggiava la scritta “Noi non ci togliamo il cappello davanti ai padroni”, spiega più di ogni altro commento il senso dei tanti fischi ricevuti da CGIL, CISL, UIL insieme ai loro amichetti “in braghe bianche”.
Risultato: il presidente di Unindustria è stato addirittura costretto a farsi scortare dal servizio d’ordine CGIL per sfuggire alla vivace contestazione verbale, ed anche il gazebo del PD, immancabile in ogni manifestazione concertativa/inciucista che si rispetti, è stato costretto a rivolgersi alle forze di polizia, oltreché del solito servizio d’ordine CGIL, per blindarsi da altrettante colorite espressioni di dissenso verbale.
Insomma, Piazza Maggiore, la piazza principale per i bolognesi, si è rivelata ostile per CGIL e PD proprio nel giorno in cui i protagonisti assoluti sono gli stessi lavoratori. Più simbolico e significante di così…

L'altra piazza.
In alternativa alla piazza dell’inciucio, invece, è bello raccontare l’iniziativa intrapresa dal Comitato Organizzatore del Pratello R’Esiste 2013.
Il suddetto comitato è un insieme di soggetti individuali che, per la comune residenza o attività nel Pratello, una via tra le più popolari di Bologna, da sette anni organizza la festa del 25 Aprile, dopo di che si scioglie per ricomporsi solo l'anno successivo.
Iniziata in termini molto modesti, la festa è cresciuta di anno in anno in qualità e quantità di iniziative proposte per ricordare e vivificare il senso della Resistenza. A queste iniziative si è poi aggregato un numero sempre crescente di soggetti, rigorosamente senza alcun emblema partitico, che avessero nel proprio credo e tra i propri valori l’antifascismo. Naturalmente, l'ANPI è qui di casa.
Negli ultimi due anni, infine, il numero delle giornate R’Esistenti (secondo la grafica adottata dai pratellini) si è allargato dapprima al 21 Aprile (Liberazione di Bologna) e quest’anno al 24 Aprile (giornata dedicata alla Scuola Pubblica, grazie ad ANPI Lame, Pratello, Saragozza e Comitato Art. 33) ed al 1 Maggio.
Un lungo lavoro preparatorio, fatto di relazioni e contributi fisici ed economici, ha consentito l’iniziativa sperimentale di un 1 Maggio alternativo che si è inserita nel cartello delle tantissime iniziative del Pratello R’Esiste 2013.
In Piazza San Francesco, praticamente lo spazio dove inizia e dove finisce il Pratello, e a pochi passi da Piazza Maggiore, L’ANPI sez. Lame, con il prezioso contributo del Comitato Acqua Bene Comune, ha organizzato il 1 Maggio R’Esistente, una giornata all’insegna di una ritrovata convivialità popolare e proletaria, con tavoli imbanditi di cartocci di pesce fritto, piatti di branzini grigliati, mozzarelle, scamorze, capresi, polenta, pasta e con birra e vino tutto rigorosamente autoprodotto/autogestito e con un concerto di ben sei band giovanili emergenti, l’una più brava dell’altra, e con gran successo di pubblico attivo e partecipante.
L’apertura della manifestazione, presentata dall’anziano Presidente Partigiano della sez. ANPI Lame, ha fin da subito esplicitato il senso di un 1 Maggio del Pratello R’Esistente, all’insegna appunto dei valori fondanti la nostra Costituzione: la democrazia, l’antifascismo ed il lavoro. A ciò, il titolo della giornata, aggiungeva il richiamo ai Beni Comuni.
Oltre la musica e lo stare bene insieme davanti al cibo ed alle bevande, l’aspetto comunque più originale di questa piazza alternativa è stata certamente la partecipazione con interventi di un rappresentante del Comitato Art. 33 per la Scuola Pubblica (quelli che hanno promosso il referendum cittadino per abolire il finanziamento comunale alle scuole private d’infanzia), di una rappresentante del Comitato Acqua Bene Comune per la ripubblicizzazione dell’acqua in ossequio all’esito referendario nazionale del 2011, e di un delegato FIOM della Magneti Marelli!
Ebbene si, in questa piazza e su questo palco, in opposizione all’ufficialità complice e collaborazionista della propria Confederazione, la FIOM ha scelto di portare il proprio contributo, il proprio saluto, la propria parola.
E la sua parola, come quelle degli altri intervenuti, sono state tutte accolte  da lunghi e meritati applausi.   La piazza ha apprezzato con calore.
In sintesi, in Piazza Maggiore moriva la sinistra.
In Piazza San Francesco la sinistra esiste, r’esiste, lotta e si diverte.
All’anno prossimo. Alla lotta a venire.

Bologna,  02.05.2013                                                                            Virginio Pilò

 

 
 
 

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