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« RINGRAZIAMENTILA STORIA DELLE "TRE MARIE" »

Adam Leve

Post n°32 pubblicato il 21 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 
Foto di alfredofiorani

INNANZITUTTO, il mio nome non è Adam Leve.
Questo per essere chiari ed onesti sin da subito. E sono italianissimo.
Si tratta dunque di uno pseudonimo di pura fantasia, sebbene, siccome mi piace giocare con le parole anche quando non appartengono alla mia lingua madre, ma allora lo faccio con molta minore padronanza, anche nel mio nome di battaglia c’è un piccolo tranello. Infatti, pensando e ripensando, m’era venuto in mente Adam Neave che, pronunciato all’inglese e tradotto in italiano, sarebbe diventato Adamo e Eva. Poi, però, ho controllato su Internet e ho scoperto che Adam Neave esiste già. Così, pensandoci ancora un po’, m’era venuto in mente Abel Kane che, anch’esso, pronunciato all’inglese e tradotto in italiano, sarebbe diventato Abele Caino. È evidente che, in tutto il mondo, non sono l’unico a farsi venire idee bizzarre in mente. Infatti, controllando ancora una volta su Internet, ho scoperto che anche Abel Kane esiste già. Così, ho ripiegato sulla mia idea originale che tanto m’era piaciuta e mi sono detto: Lasciamo da parte Eva. Adamo vive! Adam Leve, pronunciato all’inglese e tradotto in italiano, sta a significare proprio questo: Adamo vive.
Questa dovrebbe essere la prefazione dell’autore, che dovrebbe scriversi Autore sebbene a me piaccia molto di più Autore ma che, siccome chi si loda s’imbroda, insisto nello scrivere autore.
Ci si aspetta dunque che, in questa sede, io tenti di convincere l’improbabile lettore, Lettore o Lettore che dir si voglia, che vale la pena di tralasciare le altre e ben più importanti faccende in cui è affaccendato per starsene a leggere le cose di cui vado scrivendo. Invece no. Non ho nessuna intenzione di arrovellarmi in sermoni e lanciare anatemi, cosicché il lettore, ancorché improbabile, è lasciato in pace a far quel che più gli conviene.
Quel che voglio limitarmi a fare con lo spazio di queste poche pagine è dunque proporre alcune considerazioni preliminari alla lettura dei racconti di questa raccolta, che potrebbero tornare utili magari come chiave di lettura, sebbene anche in questo caso potrebbe trattarsi di un tranello: io metto a disposizione le chiavi, non le serrature. Bene, dopo quest’affermazione metafisica che lascio veleggiare, enigmatica e terribile, nell’atmosfera che fra il serio e il faceto vado creando, voglio chiarire perché ho dedicato un certo periodo di tempo della mia vita alla ricerca di uno pseudonimo, premesso che sul perché io abbia trascorso diverse ore imbrattando d’inchiostro dei fogli di carta come questo non saprei rispondere affatto.
Alfredo Fiorani, lui sì Autore, con il quale mi sto impegnando per fargli vincere l’impari lotta con l’uso del computer e delle nuove tecnologie ma che, nonostante tutto, mi degna ancora della sua amicizia, è una delle pochissime persone a cui ho fatto leggere le cose che avevo scritto, fra le quali, alcuni dei racconti di questa raccolta.
Sembrano scritti di un autore americano tradotti in italiano, mi disse a suo tempo.
Riflettendoci bene, aveva ragione.
Però, riflettendoci meglio, io non la metterei esattamente su questo piano o, più che altro, aggiungerei delle osservazioni.
Disponendo di una vasta possibilità di scelta fra i diversi livelli di linguaggio, avrei potuto optare per un taglio bizantino, ad esempio. Avrei potuto iniziare ogni periodo con espressioni come ordunque, farcire le frasi con degli acciocché, condirle con una spruzzatina di nondimeno. Oppure avrei potuto preferire un taglio giornalistico, coniugando insistentemente il solo passato prossimo. In entrambi i casi, avrei potuto autocensurarmi le parolacce. Insomma, per farla breve, avrei potuto scrivere in tanti modi, ma ho scelto di utilizzare il linguaggio del mio tempo. E il mio tempo si esprime grosso modo nazionalizzando la lingua inglese, questo è fuori di dubbio. Esiste una vasta letteratura in proposito ma, a prescindere, non accorgersene vuol dire avere i paraocchi o, meglio, il cerume nelle orecchie.
Il linguaggio è il segno dei tempi che cambiano. È una continua scoperta e riscoperta.
La vecchia cantina è diventata enoteca e quest’ultima, oggi, è un wine-bar. Ma con la parola sono cambiate anche le cose, le persone, la cultura, il vino.
Ai tempi di Guglielmo Marconi si pensava di costruire antenne altissime che fossero in grado di trasmettere e ricevere un segnale a lunga gittata, superando così la curvatura dell’orizzonte terrestre. L’evoluzione tecnologica ha dimostrato invece che basta potenziare i generatori del segnale in modo tale che sia l’atmosfera a fare il grosso del lavoro. Parimenti, ai tempi di San Francesco d’Assisi, un anonimo signore di Verona, gettò alle ortiche il latino, che era la lingua ufficiale, ancorché morente, e propose un indovinello che è sopravvissuto ai secoli soprattutto per il fatto di essere uno dei primi scritti in volgare.
L’evoluzione del linguaggio è sotto la freccetta del mouse di tutti, e non c’è bisogno di avere nozioni di fisica per rendersene conto.
Resta il fatto che Alfredo Fiorani ha perfettamente ragione. Allora mi sono detto: Perché no? Perché non andare fino in fondo?, e così mi sono deciso a mentire sul mio nome.
Se avessi dedicato il tempo trascorso nella scrittura ad altre attività quali, ad esempio, fare all’amore, lavorare, andare al cinema, fare sport o altre molte cose ancora, ora non mi troverei a discutere di come, quando e perché ho selezionato i racconti di questa raccolta. Se non avessi mai scritto dei racconti, avrei fatto qualcosa d’altro, questo è certo. Ma così è andata, e non è il caso di recriminare. Ciò non toglie che, quando e come ho potuto, ho fatto anche le altre cose, ovviamente. Ma si vede che non mi bastava.
Dunque, fatta la frittata, si tratta soltanto di decidersi a mangiarla o gettarla via. Che gusto c’è a starsene lì a veder marcire una frittata?
Anche in questo, c’è lo zampino di Alfredo Fiorani. E sì, perché chiacchierando a proposito di scrittura e scrittori davanti ad una pietanza iraniana a base di riso e spezie, della quale non so pronunciare il nome, figuriamoci scriverlo, e con il palato offeso dal sapore di sughero di un vino imbottigliato male e conservato peggio, retaggio dell’era della globalizzazione che induce a frequentare ristoranti esotici che preparano ricette esoteriche col solo scopo di farci rimpiangere il caro, amato e compianto piatto di bucatini all’amatriciana, ci imbarcammo una sera nella tortuosa strada che conduce ad interrogarsi sul perché della scrittura.
Considerando me stesso uno scrivente e non uno scrittore, e convinto, come ancora lo sono, che nulla è eterno, faccio fatica a pensare alla mia scrittura come all’elisir dell’eterna giovinezza. Vero è, tuttavia, che già il solo pensare di aver qualcosa da lasciare in eredità ai posteri è rasserenante, terapeutico. Dovendo scegliere, ho ritenuto che, tutto sommato, di questi scritti, piuttosto che farne carta straccia, sarebbe stato meglio farne il mio testamento spirituale, anche se non mi do per spacciato, facciamo ad intenderci. Dopotutto, in questi racconti, c’è riversata forse la parte più consistente di me: il mio pensiero. Si poteva fare di meglio, certo. Ma non è escluso che si possa ancora fare.
Un’ultima considerazione voglio farla in ordine ai criteri che ho adottato per la scelta dei racconti da includere in questa raccolta. E sì, perché una selezione l’ho dovuta fare. Ho dovuto dolorosamente escludere molte delle cose che in effetti ho scritto nel corso degli anni, posto che questi racconti provengono da un lavoro che si è andato sviluppando dal 1988 al 2001. Ho dunque conservato le sole cose che, secondo i miei personalissimi canoni, ancora oggi condivido, trovandole attuali, anzi, futuribili.
Per il resto, non ho altro da aggiungere, e temo persino di aver detto troppo. Non c’è nulla di peggio che spiegare una barzelletta alla quale non ha riso nessuno. Si finisce sempre con il peggiorare la situazione. Ugualmente, non si può raccontare un racconto che, autobiografico o meno, profondo o leggero, è sempre frutto dell’immaginazione e che, come tale, deve maturare sui rami della fantasia prima di marcire sulla terra dell’oblio.
Non me ne voglia Alfredo Fiorani per averlo tirato in ballo in un modo molto poco appropriato fra le righe di queste pagine, anche se sono convinto che egli sa perfettamente quanto gli sono riconoscente per queste e molte altre faccende che sono tutte il segno inconfondibile della rara sincerità della nostra amicizia.

Adam Leve
tratto dalla prefazione dell'autore
alla raccolta di racconti intitolata
Dell'amore della musica

 
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