Tommaso (clicca su Tommaso per ascoltare una musica)
LA REALTÀ, venuta così brutalmente alla ribalta, dissolve tutte le illusioni e le speranze di chi ha voluto comunque credere a un diverso epilogo della tragedia. Ormai non resta che la pietà. Già prima di interrogarsi sui perché, sui modi e sulle responsabilità dell’infanticidio, non si può non provare dolore e frustrazione per il destino così atroce del piccolo Tommaso. Sentimenti che si fanno ancora più insopportabili quando si pensa alla sproporzione tra la vita di un bambino appena venuto al mondo e il mondo nel quale ha aperto gli occhi.
Da una parte c’è tutta la sacralità dell’esistere, la meravigliosa magia della nascita, il cui mistero conduce comunque alla trascendenza e a Dio. Dall’altra si muove invece gente sporca, venale, malata di pochezza, che non si fa scrupoli neanche di fronte a una fragile e innocente creatura di pochi mesi, considerandola alla stregua di un pezzo d’argenteria da trafugare. “Beati quelli che non sono nati - dice Qohélet nella Bibbia - perché non hanno visto il male che si fa sotto il sole”. Sono parole che tornano spontaneamente alla memoria, da più di duemila anni sono lì a ricordarci che il male non potrà mai scomparire dalla faccia della terra. La lotta per sconfiggerlo non ha mai conosciuto sosta, tuttavia bisogna sempre agire per domarlo e tenerlo lontano.
Tommaso, come tutti i bambini piccoli, stava scoprendo l’universo, aveva imparato a riconoscere i genitori, poi il fratello, poi la casa, i giocattoli, il gusto del cibo. Aveva anche dovuto difendersi dagli attacchi della sua malattia, che comunque la medicina oggi riesce a curare. Aveva scoperto che anche lui poteva camminare stando in piedi, e che intorno a lui c’erano cose che lo facevano ridere e altre che lo facevano piangere. Insomma aveva tra le mani la vita, il dono più prezioso dell’uomo. Solo da grande, se avesse vissuto nel calore di chi gli viveva vicino, avrebbe capito che la cosa più importante di un albero non è la frutta che generosamente elargisce, ma il seme che l’ha fatto nascere e che farà nascere altri alberi. Tutto questo, per colpa di scellerati senza un’anima, si è interrotto quasi subito. Tutti gli uomini dovrebbero sapere che la vita di una sola persona vale quanto quella di mille persone. La morte di Tommaso è un lutto che equivale a quello di una strage.
Nei prossimi giorni bisognerà sapere come è potuto accadere e se possiamo fare qualcosa affinché non avvengano più tragedie come questa.
Chi sono gli assassini, cosa hanno in testa, e perché hanno in testa l’orrore? Come si fa a prevenire le loro azioni? C’è un qualche legame tra il delitto e l’assetto sociale del territorio? E quanto agisce, nelle fasce più sbandate della società, la mitologia consumistica, così incoraggiata dai nostri modelli di sviluppo? Per secoli si è rubato per fame, oggi si ruba e si uccide per diventare ricchi. È necessario ritrovare qualche valore lasciato per strada, come la spiritualità e l’amicizia disinteressata tra cittadini. Il degrado umano si alimenta in una comunità in cui le porte sono chiuse. E drammi come quelli di Parma non spingono certo ad aprirle quelle porte. L’istinto è di chiudersi ancora di più e di diffidare anche del proprio fratello.
La giustizia, in questa delicatissima e struggente occasione, ha fatto tutto quello che doveva fare, mettendo in campo tutte le sue forze e le sue capacità. È l’unica disperata consolazione: i criminali saranno tutti portati in tribunale e severamente colpiti. Sulla certezza che qualunque reato non resti impunito si basa il principio fondamentale della prevenzione. Ieri le forze dell’ordine non hanno soltanto risolto un caso complicato, hanno rinforzato le difese psicologiche dei cittadini e dato sostanza concreta alla legge. Mentre continuano il loro lavoro per portare alla luce ogni minimo passaggio della tragedia, a noi rimane l’immagine del piccolo Tommaso, dei suoi occhioni ridenti.
Lo ricorderemo nella sua fulgida, sacra innocenza.
(il messaggero.it)
....Una recita lunga un mese,attore,Mario Alessi...
Immobile, a fianco della strada, mostra ai poliziotti e ai carabinieri dove ha gettato il corpicino di Tommy. «Ma forse - dice quasi tra se, in preda a una voglia incontenibile di raccontare tutto, ma proprio tutto - era già morto, povero piccolo». Non rinuncia alle frasi lacrimose, alla retorica da trash tv, neanche adesso. Il colpo di grazia, insomma, è quasi un gesto di buonismo. Gente abituata a sgozzare gli animali, gli agnelli e i capretti, sul pavimento davanti alla casa, tanto che i rivoli di sangue non riesce a dilavarli neanche la pioggia. Flash di qualche giorno fa. Che adesso fanno ribrezzo, orrore, schifo. Mario Alessi non era ancora indagato di nulla.
Erano passati pochi giorni dalla scomparsa di Tommy. Siamo davanti al suo cascinale di via della Puia 9, Coenzo, frazione di Sorbolo. Il cane da guardia è chiuso nel recinto, un bellissimo cucciolo ci corre incontro. L'orto è tenuto con una cura maniacale, il giardino è un modello, i giochi di suo figlio Giuseppe sono ordinati e simmetrici. Non c'è nessuno. La sua vecchia Uno verde è parcheggiata nel retro, in mezzo al fango. C'è un silenzio perfetto, e sull'argine passa lenta l'Alfa della mobile. Due agenti sorvegliano la zona da un piazzale lontano, con i binocoli. Una vicina sposta una tenda e dice a bassa voce che «quello non c'è, boh, sarà dalla suocera».
Il tono è eloquente: paura e fastidio, ostilità. Andiamo dalla suocera. Alessi è lì. Ha i capelli grigi, folti e curati, è alto e ha le mani segnate dal lavoro. Maglione e blue jeans. Fa il muratore, il contadino, qualsiasi cosa. Ha 120 mila euro di debiti, la prima famiglia da mantenere in Sicilia (una figlia universitaria, l'altro alle superiori) e invia soldi quando può. A Parma era arrivato nel '92, ad Agrigento era tornato nel 2000, giusto il tempo di farsi arrestare per uno stupro ai danni di una sedicenne. Il fidanzato lo aveva legato a un albero, perché potesse assistere al ciclo di sevizie.
Un bel biglietto di visita. Ma il suo amico e datore di lavoro, Pasquale Giuseppe Barbera, non aveva avuto esitazioni e lo aveva spedito, assieme ad altri pregiudicati, a lavorare nella cascina degli Onofri. L'idea del sequestro nasce lì, durante i lunghi mesi trascorsi a Casalbaroncolo. «Io sono amico degli Onofri, una famiglia che è un modello per me - raccontava, come un juke box a tv, giornalisti, rotocalchi strappalacrime - ma non so nulla di Tommaso. Sono padre anch'io, ai bambini non si deve fare nulla». E Tommy lo aveva visto? «Un bellissimo bambino, delizioso. Con me giocava spesso, mentre lavoravo per i genitori. Io a Paolo Onofri lo conosco così, non siamo amici e hanno detto che mi doveva dei soldi, invece non è vero».
In quei pochi minuti fa in tempo a indicare l'auto della polizia che incrocia nei dintorni. «Li vede? Tutto il giorno così. Mi hanno fatto due perquisizioni. Cercavano armi». La voce diventa un sussurro. Occhi bassi, sdraiato sul divano, il carrello con le bottiglie dei liquori e l'immagine di Santa Rosalia appesa al muro. La casa è pulita, dappertutto ci sono i giochi del bambino. Accorato: «Da quel momento Giuseppe non dorme più, è rimasto sconvolto per questi controlli che hanno sconvolto la nostra famiglia, sa, non riesco neppure più a lavorare, non so come guadagnarmi il pane».
Qualche giorno dopo, quando già ha ricevuto l'avviso di garanzia: «Ho un peso sul cuore, non posso più vivere con questa terribile accusa». Porta una mano sul cuore. Un gesto lento, studiato. «Sono completamente estraneo, ma chi può mai aver fatto male a un fagottino del genere, faccio un appello (rivolto a una delle tante telecamere) faccio-un-appello- per la liberazione di Tommaso.
I genitori hanno già sofferto troppo». Poi si scopre che lui e la moglie avevano persino tentato di guadagnare sulla morte di Tommy: «Se mi vuoi intervistare devi darmi dei soldi, mi hanno offerto anche mille euro, le tv. E tu quanto mi dai?». E la moglie sta ad ascoltare, intuisce lo stupore e lo sdegno per questo mercanteggiare sul prezzo, e dice: «In questo momento, per noi, mille euro sono tutto. Ne abbiamo bisogno, Mario non riesce più a lavorare». (la stampa.it)