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Una nuova speranza...

Post n°2430 pubblicato il 11 Dicembre 2019 da blogtecaolivelli

fonte: Internet

Alzheimer: una rara variante genetica apre nuove speranze di ricerca

Una donna colombiana geneticamente

predisposta a sviluppare una forma precoce

della demenza è risultata per lungo tempo

protetta dal declino cognitivo, nonostante il

suo cervello fosse invaso di placche amiloidi.

La chiave del meccanismo preventivo è

racchiusa nel suo DNA.

alzheimer-cervelloAlzheimer: un caso singolo porta a ripensare

alcune convinzioni sulla malattia, e apre interes-

santi possibilità di studio. | SHUTTERSTOCK

Una speranza dopo 15 anni di stallo nelle ricerche

 sulla malattia diAlzheimer - la più comune forma

di demenza, che interessa quasi 30 milioni di

persone nel mondo - arriva dalla Colombia: una

donna geneticamente predisposta a mostrare

i primi sintomi clinici di questa condizione poco

dopo i 40 anni (come centinaia di suoi familiari

in vita o delle passate generazioni) è rimasta

protetta per trent'anni dal declino cognitivo, grazie

a una doppia - e rarissima - variante genetica.

Il suo caso, che apre nuove prospettive nella

comprensione di questa malattia, è descritto

su Nature Medicine.

UNA SCOMODA EREDITÀ. 

La paziente, che vive a Medellín, fa parte di una

famiglia estesa di 6.000 persone nate nella città

e in alcuni remoti villaggi andini, da secoli perse-

guitate da quella che i locali chiamano

"La Bobera" (la follia): una forma di Alzheimer 

precoce riconducibile a una variante genetica

ormai nota, sul gene Presenilin 1, e legata a un

andamento piuttosto prevedibile del declino

cognitivo, con i primi sintomi attorno ai 44 anni

e la morte entro i 60.

Anche se la versione colombiana della malattia

 interessa una minuscola frazione dei pazienti

con Alzheimer, questa famiglia è studiata da

decenni: conoscendo origine e progressione

della malattia si cercano risposte per questa e

altre popolazioni di pazienti e per le loro famiglie.

Così, quando un gruppo di ricercatori guidato

da Eric Reiman, direttore generale del Banner

Alzheimer's Institute di Phoenix (Arizona), si è

accorto che una 70enne con la mutazione

"incriminata" non mostrava ancora neanche

le prime avvisaglie di demenza, è rimasto

spiazzato.

CONTRO OGNI PREVISIONE. 

Gli esami di neuroimaging eseguiti al

Massachusetts General Hospital di Boston hanno

rivelato che il cervello della paziente era

disseminato di placche amiloidi, i depositi di

proteina beta-amiloide caratteristici della malattia.

Eppure, la donna, madre di quattro figli e con un

anno appena di istruzione alle spalle, esibiva

unaforma cognitiva degna di una 45enne: la prote-

zione di cui sembrava beneficiare non poteva

derivarle da un'elevata scolarità, e doveva invece

dipendere da un fattore biologico. Inoltre, nel

cervello della paziente non c'era praticamente

traccia dei grovigli di proteina tau che di solito

contaminano le cellule cerebrali di chi è affetto

dalla malattia; e anche neurodegenerazione e

atrofia cerebrale risultavano ridotte al minimo.

ISTRUZIONI PROTETTIVE.

 Le analisi genetiche della paziente hanno

rivelato una mutazione estremamente rara a

carico di un gene comune e importante nello

studio dell'Alzheimer, l'APOE, che si presenta

in tre varianti.

Una di queste, l'APOE4, aumenta di molto il

rischio di sviluppare la malattia ed è presente

nel 40% dei pazienti con Alzheimer.

La donna presentava due copie della variante

APOE3, la più comune, ma entrambe con una

mutazione nota come Christchurch (dal nome

della città neozelandese in cui è stata scoperta.

Già possedere una sola mutazione Christchurch

è un evento molto raro, osservato in alcuni

membri della famiglia colombiana interessata

da Alzheimer precoce: queste persone svilup-

pavano comunque la malattia alla stessa età

dei loro parenti.

La fortuna della paziente è nella doppia mutazione,

che si trova in un'area del gene che si lega a un

composto che favorisce la diffusione della

proteina tau nei cervelli con Alzheimer.

La doppia mutazione ha avuto un effetto talmente

potente da impedire quasi del tutto che questo

legame si formasse. In laboratorio gli scienziati

sono riusciti a ricreare un composto che riuscisse

a imitare questo effetto, ma siamo ben lontani da

un farmaco che possa replicare l'azione protettiva

osservata: occorrerebbe prima testarne l'azione

su colture di cellule animali e umane.

 

PER TUTTI GLI ALTRI PAZIENTI. 

Dallo studio emergono almeno due elementi i

mportanti. Il primo, è che i prossimi trattamenti

potrebbero concentrarsi sulla riduzione, o il

silenziamento, del gene APOE, anziché sulla

lotta agli accumuli proteici, che negli ultimi anni 

ha condotto a più buchi nell'acqua.

Il secondo, riguarda il ruolo della proteina beta

-amiloide.

Poiché il cervello della paziente ne ospitava in

grandi quantità, senza accusarne però i danni,

«questo indica, per quanto ne sappia per la

prima volta in assoluto, una chiara dissociazione

tra accumulo di amiloide e patologia da tau,

neurodegenerazione e declino cognitivo» ha

spiegato Yadong Huang, non coinvolto nello studio,

ma autore di un articolo a commento della scoperta.

Gli occhi sono puntati ora su alcuni più giovani

parenti della donna, che pur non avendo la

mutazione Christchurch sembrano per ora tutelati

dalla malattia a cui l'altra mutazione li condurrà.

Potrebbero esserci, insomma, altri meccanismi

protettivi ancora da scoprire.

 
 
 
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