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Messaggi del 27/06/2019

L'impronta dei popoli precolombiani sulla foresta amazzonica

Post n°2262 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

03 marzo 2017

L'impronta dei popoli precolombiani sulla foresta amazzonica

L'impronta dei popoli precolombiani sulla foresta amazzonica

L'Amazzonia è disseminata di piante domesticate,

in particolare nelle zone vicine ai siti archeologici

precolombiani.

Lo rivela un nuovo studio che sfata l'immagine della

"foresta vergine" e sottolinea l'importanza di conservare

queste zone di foresta - attualmente non consideratecome

hotspot di biodiversità - perché hanno un alto valore storico

città (quasi) perdute dell'Amazzonia

ambientebiodiversitàarcheologia

In Amazzonia c'è la foresta vergine per antonomasia?

Forse no, a giudicare da una nuova ricerca pubblicata

sulle pagine di "Science" da Carolina Levis e colleghi

del National Institute for Amazonian Research (INPA)in

Brasile, secondo cui la foresta amazzonica è disseminata

di specie vegetali domesticate dalle popolazioni indigene

prima dell'arrivo di Cristoforo Colombo, specie che

continuano a rivestire un ruolo importate nella foresta

attuale.

"Per molti anni, gli studi di ecologia hanno ignorato

l'influenza delle popolazioni precolombiane sulle foreste

che vediamo oggi", ha sottolineato Levis.

"Grazie al nostro studio, si è scoperto che un quarto

delle specie domesticate dell'Amazzonia è ampiamente

distribuito nel bacino e domina ampie zone di foresta;

questi risultati indicano chiaramente che la flora amazzonica

è in parte un'eredità dei suoi antichi abitanti".

L'impronta dei popoli precolombiani sulla foresta amazzonica

Utilizzando i dati raccolti oltre 1000 monitoraggi della

flora condotti dall'Amazon Tree Diversity Network e la

mappa di più di 3000 siti archeologici di tutta l'Amazzonia,

Levis e colleghi hanno confrontato la composizione della

foresta a varie distanze dai siti archeologici, realizzando

così la prima "fotografia" di come le popolazioni precolombiane

hanno influenzato la biodiversità dell'Amazzonia.

Lo studio si è focalizzato in particolare su 85 specie di alberi,

tra cui alcune ben note per la loro importanza commerciale

come il cacao e la noce brasiliana, che sono state domesticate

dalle popolazioni amazzoniche nell'arco di migliaia di anni.

Dall'analisi è emerso che in tutto il bacino amazzonico, le

specie domesticate erano cinque volte più comuni delle

specie non domesticate e molto più comuni e più diversificate

nelle zone di foresta vicine ai siti archeologici.

"I primi europei giunti nell'area riferivano di aver visto

popolazioni indigene che vivevano in foreste apparentemente

vergini, e quest'idea ha avuto una grande fortuna, poiché

affascinava la stampa, i politici e anche qualche scienziato",

concludono i ricercatori.

"Questo studio conferma invece che aree dell'Amazzonia che

appaiono vergini portano evidenti le tracce dell'intervento

degli esseri umani".

Il numero di specie considerate è piuttosto limitato, avvertono

i ricercatori, ma è sufficiente a rivelare la profonda impronta

umana sulla foresta.

Si può ragionevolmente ipotizzare che le specie coinvolte

siano molte di più, perché le popolazioni indigene hanno

gestito centinaia di piante senza domesticarle: si calcola che

ve ne siano circa 16.000.

Studiarle è della massima importanza, perché l'eredità

precolombiana, sia i siti archeologici sia le foreste con una

forte componente storica, sono a rischio di degrado e

deforestazione.
"Le implicazioni per i progetti di conservazione sono

notevoli", ha concluso André Junqueira, coautore dello studio.

"Abbiamo infatti mostrato che le regioni sud occidentale e

orientale dell'Amazzonia hanno la maggiore concentrazione

di specie domesticate e che queste stesse specie sono quelle

più minacciate dal degrado e dalla deforestazione; non sono

considerate classici hotspot di biodiversità, mentre dovrebbero

essere al massimo delle priorità di conservazione, in quanto

riserve di foreste di alto valore per le popolazioni umane".

 
 
 

I motori della vita.

Post n°2261 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

 

Fonte: Le Scienze

03 giugno 2019

I motori della vita

Le cronache scientifiche raccontano Galileo Galilei

come colui che agli inizi del XVII secolo alzando

lo sguardo al cielo notturno, grazie a uno dei primi

telescopi, detronizzò la Terra e i suoi abitanti dal

centro del sistema solare e dunque dell'universo

allora conosciuto.

Ma c'è un'altra rivoluzione galileiana che spesso

viene dimenticata, quella che portò lo scienziato

italiano a costruire uno di primi microscopi della

storia, portando così lo sguardo non sull'infinitamente

grande verso l'alto, ma sull'infinitamente piccolo

verso il basso.

Galileo non sembrò appassionarsi al mondo microscopico

che poteva osservare con il suo nuovo strumento, ma il

primo passo ormai era stato fatto.

Altri scienziati raccolsero il testimone dello sguardo

verso il basso;  per esempio, l'olandese Antoni van

Leeuwenhoek, coevo di Galileo, che per primo osservò i

batteri verso la fine del Seicento.

Fu così che nacque la microbiologia.

Negli anni e nei secoli successivi, tra alti e bassi, la biologia

dei microbi avrebbe svelato un mondo la cui importanza per

lungo tempo è stata poco apprezzata, benché, se non fosse

per i microbi, noi esseri umani e altre forme animali complesse

non saremmo qui, come spiega Paul G. Falkowski in I motori

della vita, libro allegato a richiesta con «Le Scienze» di giugno.

Biologo marino all'Institute of Marine and Coastal Sciences

della statunitense Rutgers University, racconta come i

microrganismi hanno conquistato la Terra, dominando il nostro

pianeta per quattro miliardi di anni.

In quell'arco di tempo, che è pari a quasi il novanta per

cento dell'età della Terra, i microbi hanno reso abitabile

il pianeta per gli organismi complessi che li avrebbero

seguiti, entrando a far parte di cicli biogeochimici fondamentali

per far circolare a livello planetario sostanze necessarie alla vita.

Per esempio il Grande evento ossidativo avvenuto circa

2,4 miliardi di anni fa, quando grazie all'azione di alcuni

microrganismi acquatici la concentrazione di ossigeno iniziò

ad aumentare prima negli oceani e poi in atmosfera.

O, il cosiddetto processo di fissazione dell'azoto, tramite cui

alcuni microrganismi rendono disponibile l'azoto atmosferico

alle piante, un processo che noi umani abbiamo ricapitolato

con l'invenzione dei fertilizzanti.

Oggi le frontiere per lo sfruttamento dei meccanismi

biochimici dei microbi si sono spostate ben oltre la chimica

da laboratorio o industriale.

Con la nascita della biologia sintetica, gli scienziati cercano

di riprogrammare direttamente il metabolismo dei micro-

rganismi per produrre molecole da sfruttare.

E altri scienziati studiano microbi adattati ad ambienti

estremi sulla Terra, alla ricerca di indizi utili per la scoperta

di forme di vita su altri pianeti.

Una sintesi perfetta tra i due sguardi, verso l'alto e

verso il basso, di Galileo.

 
 
 

Come cercare civiltà morte nel cosmo

Post n°2260 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

01 ottobre 2018

Come cercare civiltà morte nel cosmo

Come cercare civiltà morte nel cosmo

Antiche civiltà ormai estinte potrebbero essere

state comuni nella nostra galassia, e le loro reliquie

tecnologiche potrebbero trovarsi ovunque.

I primi sospetti riguardano 'Oumuamua, il misterioso

(e discusso) asteroide interstellare scoperto nel sistema

solare l'anno scorsoAbraham Loeb/Scientific American

spazioarcheologiaastrobiologia

Il tasso di crescita delle nuove tecnologie è spesso

proporzionale alle conoscenze passate, il che porta

a un avanzamento esponenziale nel tempo.

Questo processo esplosivo implica che, dopo aver

raggiunto la maturità tecnologica, una civiltà svilupperà

molto presto i mezzi per la propria distruzione per

effetto del cambiamento climatico, per esempio, o

armi nucleari, biologiche o chimiche.

Sviluppi di questo tipo, avvenuti in centinaia di anni,

apparirebbero come improvvisi nella prospettiva cosmica

di miliardi di anni.

Se questa autodistruzione fosse un fenomeno comune,

potrebbe spiegare il paradosso di Fermi (che chiede

"dove sono tutti?") e implicare che nello spazio i resti

di civiltà sepolte abbondano.

Esplorando mondi abitabili attorno ad altre stelle,

potremmo quindi trovare pianeti con superfici riarse,

megastrutture abbandonate o atmosfere ricche di gas

velenosi e nessun segno di vita.

Ancora più intrigante è la possibilità di trovare nel

nostro sistema solare relitti tecnologici che fluttuano

senza un funzionamento rilevabile, per esempio pezzi

di equipaggiamenti che hanno perso energia in milioni

di anni di viaggio e si sono trasformati in spazzatura

spaziale.

Come cercare civiltà morte nel cosmo

 La quantità di detriti nello spazio interstellare

dipenderebbe dall'abbondanza di civiltà tecnologiche e dalla

portata delle loro ambizioni di esplorazione spaziale.

Grazie ai dati del satellite Kepler, sappiamo che circa un

quarto di tutte le stelle ospita un pianeta abitabile di dimensioni

terrestri.

Anche se una piccola parte di tutte le "Terre" abitabili portasse

a civiltà tecnologiche come la nostra durante la vita delle loro

stelle, nella Via Lattea potrebbe esserci abbondanza di reperti

da esplorare.

Questa opportunità offre una potenziale base per una nuova

frontiera dell'archeologia spaziale, e cioè lo studio nello spazio

delle reliquie di civiltà passate.

Invece di usare le pale per scavare nel terreno, questa nuova

frontiera sarà esplorata usando telescopi per monitorare il

cielo e "scavare" nello spazio.

Ingenuamente, si potrebbe considerare questo orizzonte

di ricerca completamente futuristico.

Ma il dato interessante è che la prima reliquia artificiale

potrebbe essere statascoperta l'anno scorso, quando la survey

Pan STARRSsky ha identificato il primo oggetto interstellare

nel sistema solare, 'Oumuamua.

Circa un decennio fa, l'abbondanza di asteroidi interstellari

con lunghezza dell'ordine dei chilometri come 'Oumuamua è

stata stimata estremamente piccola, rendendo questa

scoperta una sorpresa completa.

Come cercare civiltà morte nel cosmo

 Inoltre, 'Oumuamua è più allungato di qualsiasi asteroide

conosciuto nel sistema solare. Ma la cosa più intrigante è che

devia dall'orbita che ci si sarebbe aspettati basandosi sul

campo gravitazionale del Sole.

Anche se queste deviazioni possono essere spiegate

con l'effetto razzo associato al degassamento dovuto al

riscaldamento di acqua ghiacciata da parte del Sole, dietro

'Oumuamua non c'era traccia di una coda cometaria, e i

calcoli implicano, contrariamente alle osservazioni, che

il suo periodo di rotazione su se stesso dovrebbe essere

cambiato significativamente se fosse presente un qualsiasi

momento torcente cometario.

'Oumuamua potrebbe avere un motore artificiale? Anche

se sembra un pezzo di roccia naturale, come indica la

mancanza di trasmissioni radio, questo oggetto è molto

insolito da molti punti di vista.

La scoperta di 'Oumumua dovrebbe spingerci a continuare

a cercare detriti interstellari nel sistema solare.

Gli oggetti interstellari potrebbero anche non essere visitatori

occasionali: una piccola parte potrebbe essere stata intrappolata

dalla "rete" gravitazionale gettata dal Sole e da Giove.

Gli oggetti che passano abbastanza vicino a Giove potrebbero

perdere energia orbitale per effetto della loro interazione

gravitazionale e rimanere legati al sistema solare.

In effetti, un asteroide che occupa un'orbita indicativa di

questa origine, BZ509, è stato recentemente identificato 

in un'orbita retrograda attorno a Giove.

Usare i razzi a propulsione chimica di oggi esistenti per

inseguire 'Oumumua è impossibile a causa della sua alta

velocità, ma si possono ipotizzare missioni per atterrare

su oggetti interstellari legati al sistema solare.

Sebbene siano una piccola minoranza di tutti gli asteroidi

o comete del sistema solare, la loro origine interstellare

può essere identificata in base alle loro orbite insolite

attorno a Giove o, nel caso delle comete, attraverso la

loro caratteristica (extrasolare) abbondanza isotopica

dell'ossigeno, rilevabile dalle osservazioni spettroscopiche

della coda.

Trovare prove per la spazzatura spaziale di origine

artificiale fornirebbe una risposta affermativa alla vecchia

domanda "Siamo soli?"

Questo avrebbe un impatto notevole sulla nostra cultura

e aprirebbe una nuova prospettiva cosmica al significato

dell'attività umana.

Speriamo che trovando una civiltà sepolta a causa di guerre

o cambiamenti climatici ci convinceremo a collaborare per

evitare un destino simile.

Ma sarebbe ancora più significativo se le immagini radar o

le fotografie ravvicinate di una reliquia interstellare all'interno

del sistema solare mostrassero segni di una tecnologia avanzata

che la nostra civiltà non ha ancora raggiunto.

Non c'è lezione migliore da imparare di quella delle civiltà che

hanno sviluppato tecnologie avanzate fino all'autodistruzione.

(L'originale di questo articolo è stato pubblicato su

"Scientific American" il 27 settembre 2018. Traduzione

ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata,

tutti i diritti riservati.)

 
 
 

Il cimitero di un'antica abbazia racconta mille anni di epidemie

Post n°2259 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

 

Fonte: Le Scienze

13 dicembre 2013

Il cimitero di un'antica abbazia racconta

mille anni di epidemie

Vaiolo, morbillo, tubercolosi, tifo, colera e

soprattutto peste: sono le malattie infettive

che si diffondevano lungo l'Italia con gli

spostamenti di pellegrini e soldati lungo la Via

Francigena.

Molte nuove informazioni su questi agenti patogeni

potranno essere ottenute grazie alla scoperta di un

cimitero nell'antica abbazia di S. Pietro a Badia

Pozzeveri, in provincia di Lucca, che raccoglie gli

scheletri di pellegrini morti lungo il cammino nell'arco

di circa mille anni(red)

storiaepidemiologiaarcheologia

Erano sepolti in un cimitero finora sconosciuto

dell'Abbazia camaldolese di S. Pietro a Badia Pozzeveri,

in provincia di Lucca, gli scheletri che consentiranno

di aprire una finestra inattesa su salute e malattia  in

Europa, nel corso dei secoli, rivelando importanti

informazioni su eventi epocali come la peste nera del

1300 o l'epidemia di colera del 1800.

Un articolo apparso su "Science" a firma della giornalista 

Ann Gibbons racconta l'eccezionale scoperta fatta da

Giuseppe Vercellotti e Clark Larsen, dell'Ohio State

University, e da Hendrik Poinar, della McMaster University,

che da tre anni conducono una meticolosa campagna di scavi

per riportare alla luce i reperti, per poi studiarli con diverse

tecniche, dall'analisi degli isotopi radioattivi alle scansioni

di tomografia computerizzata tridimensionale.

L'abbazia si trova lungo la Via Francigena, che dal centro

dell'Europa, e in particolare dalla Francia, portava a Roma.

Il cammino poi proseguiva poi fino al sud d'Italia, e una

volta attraversato il mare, in Terrasanta.

La Via Francigena era percorsa da cavalieri, monaci e

contadini e, con loro, anche da gravi malattie infettive. 

Il cimitero di un'antica abbazia racconta mille anni di epidemie

L'Abbazia di S. Pietro a Badia Pozzeveri, in provincia

di Lucca, dove da tre anni proseguono gli scavi

(Wikimedia Commons)
 I reperti di Badia Pozzeveri consentono di confrontare

resti fossili e genomi di individui appartenenti a classi

sociali diverse e a diverse epoche storiche e di capire in

che modo vivevano e morivano dal Medioevo in poi.

Il confronto tra i vari genomi può aiutare inoltre a

comprendere in che modo si sono evoluti gli organismi

patogeni nelle varie condizioni, dalla carestia alla guerra,

presenti durante i viaggi dei pellegrini, ma anche delle

truppe che si spostavano lungo la penisola.

La lebbra, per esempio, arrivò probabilmente dal

Medio Oriente con i soldati di ritorno dalle Crociate.

I primi focolai si registrarono infatti in Toscana nel

XXII secolo, quando sorsero nella regione ben tre lebbrosari. 

I pellegrini probabilmente sono stati il veicolo di

diffusione di vaiolo, morbillo, tubercolosi, tifo, colera

e soprattutto della peste.

Una specifica zona di scavi probabilmente ospita

infatti le vittime della terribile epidemia, la cosiddetta

Morte Nera, che uccise metà della popolazione

europea tra il 1348 e il 1350.

Una ricerca condotta nel 2011 su resti dell'epoca,

ritrovati a Londra dal gruppo dello stesso Poinar, ha

confermato che a causare la Morte Nera fu Yersinia pestis,

il batterio che causa la peste, escludendo altri

possibili agenti patogeni.

Il cimitero di un'antica abbazia racconta mille anni di epidemie

Immagine elaborata al computer di Yersinia pestis 

(© Science Picture Co./Corbis)

Questi nuovi campioni dell'Abbazia di San Pietro

consentiranno di affrontare questioni rilevanti sulla

virulenza di Y. pestis.

Il batterio è infatti ancora presente negli Stati Uniti

sud occidentali, in Asia e in Africa, e colpisce da 1000

a 3000 persone all'anno, ma si trasmette molto lentamente

da uomo a uomo. I ricercatori vogliono dunque scoprire

perché il batterio è molto meno virulento oggi di quanto

fosse centinaia di anni fa. 

Altri capitoli importanti per lo studio delle antiche malattie

riguardano poi la malaria, e la sua presenza nella Toscana

del 1300, oppure le malattie a trasmissione sessuale come

la sifilide tra il 1400 e il 1500, o ancora la pandemia di

colera che colpì l'Italia nel 1855. 

I resti dell'abbazia di San Pietro, conclude Gibbons, hanno

appena iniziato a svelare i segreti di quasi mille anni di

storia sanitaria dell'Italia e dell'intera Europa.

 
 
 

Le fluttuazioni dell'ossigeno e l'esplosione del Cambriano

Post n°2258 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

07 maggio 2019

L'eccezionale diversificazione delle forme di vita animale

che oltre 500 milioni di anni fa caratterizzò la cosiddetta

esplosione del Cambriano fu legata a fluttuazioni estreme

dei livelli di ossigeno atmosferico che provocarono una

serie di picchi evolutivi e di episodi di estinzione

paleontologiaevoluzionebiodiversita

La cosiddetta esplosione del Cambriano - il periodo in cui la

Terra passò in breve tempo dall'essere popolata da organismi

semplici e unicellulari a ospitare una multiforme varietà di forme

di vita - fu legata a una serie di drastici aumenti e diminuzioni

dei livelli di ossigeno.

Nel corso di poco più di 13 milioni di anni queste variazioni

estreme provocarono una rapida successione di diversificazioni

di nuove specie - ossia una serie di quelle che sono dette

"radiazioni" - e di estinzioni.

Le fluttuazioni dell'ossigeno e l'esplosione del Cambriano

A dimostralo è stato uno studio effettuato da un gruppo internazionale

di ricercatori coordinato da Graham A. Shields dello University

College di Londra, che firmano un articolo su "Nature Geoscience".

L'esistenza di una stretta relazione fra livelli di ossigeno ed esplosione

cambriana era sospettata da molto tempo; finora però non era stato

possibile dimostrarla a causa dell'assenza di qualsiasi registrazione

diretta dell'ossigeno atmosferico durante quel lontano periodo

geologico (fra 540 e 480 milioni di anni fa circa).

Le fluttuazioni dell'ossigeno e l'esplosione del Cambriano

Un artropode gigante del generePhytophilaspis 

(Cortesia Andrey Zhuravlev, Lomonosov Moscow State

University),Shields e colleghi sono ora riusciti a determinarli

in modo indiretto analizzando gli isotopi di carbonio e zolfo

presenti in campioni di rocce calcaree che un tempo

costituivano i sedimenti del fondale di un antico mare poco

profondo e che ora formano parte del bacino in cui scorrono

i fiumi siberiani Lena e Aldan. "La piattaforma siberiana

- spiega Benjamin Mills, dell'Università di Leeds e coautore

dello studio - offre una finestra unica sui primi ecosistemi

marini.

Quest'area contiene oltre la metà di tutta la diversità fossile

dell'esplosione del Cambriano attualmente conosciuta".

Dall'analisi di quegli isotopi e servendosi di un modello

matematico, i ricercatori sono risaliti all'andamento dei

livelli di ossigeno durante quel periodo; in questo modo

hanno prima osservato una serie di picchi e crolli di quell'elemento

in atmosfera, poi hanno confrontato quelle variazioni con la quantità

e varietà di fossili nei corrispondenti strati rocciosi, trovando

una perfetta corrispondenza.

In particolare Shields e colleghi hanno individuato un picco

particolarmente intenso di ossigeno e di radiazione delle

specie fra 524 e 514 milioni di anni fa, a cui è seguito un

crollo e un'estinzione diffusa fra 514 e 512 milioni di anni fa.

Secondo gli autori proprio questo andamento a "impulsi"

dei livelli di ossigeno ha contribuito a una più vasta e

complessa diversificazione delle forme di vita. (red)

 
 
 

Cinquemila anni di evoluzione dei cavalli

Post n°2257 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Cinquemila anni di evoluzione dei cavalli

I cavalli moderni sono geneticamente diversi

da quelli vissuti anche solo pochi secoli fa:

caratteristiche come la velocità e l'ambio

sono il frutto di una selezione recente.

Lo ha stabilito uno studio che si è basato

sulla più vasta collezione di genomi mai creata

per un organismo non umano

animaligeneticaevoluzione

La ricostruzione di 5000 anni di storia genetica

del cavallo domestico ha riservato diverse

sorprese: dalla scoperta che due lignaggi molto

diffusi nell'antichità non hanno lasciato traccia

nei cavalli moderni a quella che molti dei tratti

che associamo di solito a questi animali, come

la velocità, sono stati selezionati piuttosto di

recente.

A realizzare lo studio,pubblicato su "Cell", è

stata un'ampia collaborazione internazionale

che ha visto impegnati ben 121 ricercatori,

coordinati da Ludovic Orlando, direttore di ricerca

del CNRS a Tolosa e professore di archeologia

molecolare all'Università di Copenaghen.

Cinquemila anni di evoluzione dei cavalli

La domesticazione del cavallo è stato un

evento di primaria importanza nella storia

dell'umanità che, a partire dall'età del bronzo,

ha rivoluzionato la velocità degli spostamenti

di persone e merci e le tecniche di combattimento.


Tuttavia, su quell'evento si sa abbastanza poco,

così come sui legami fra i primi cavalli domestici

e i cavalli moderni.

Le prime testimonianze archeologiche di mungitura,

imbracatura e recinzione di cavalli risalgono a

circa 5500 anni fa, e sono state trovate nelle

steppe dell'Asia centrale, dove prosperava la

cultura Botai.

I cavalli botai, però, sono gli antenati diretti

dei cavalli di Przewalski, ma non dei moderni

cavalli domestici, la cui ascendenza genetica

è rimasta controversa.

Orlando e colleghi hanno ora analizzato il

genoma di 278 esemplari di cavalli provenienti

da tutta l'Eurasia, 129 dei quali prelevati da

antichi reperti.

Hanno così scoperto che le radici più antiche

dei cavalli domestici risalgono a una razza

equina attualmente presente solo in poche

regioni, come l'Islanda, le isole Shetland e

l'Estonia.

Il genoma di questi cavalli subì però un drastico

rimodellamento fra il VII e il IX secolo, in

corrispondenza dell'espansione islamica,

per il contributo di cavalli provenienti dal

Medio Oriente, tanto che i cavalli attuali

sono molto più simili a quelli di cui sono

stati trovati resti nei siti archeologici dell'antica

Persia, risalenti al periodo dell'impero Sassanide.

Questi animali, particolarmente simili a quelli che

oggi sono noti come cavalli arabi, spiega Orlando,

"hanno avuto un grande successo e un'influenza

preponderante perché erano portatori di una nuova

anatomia e probabilmente di altri tratti favorevoli",

come una maggiore propensione alla corsa veloce.

Anche la capacità di assumere l'andatura ambio

(il movimento simultaneo in avanti o indietro

degli arti di uno stesso lato), legata a una particolare

variante genica, forse si diffuse molto grazie a

questi cavalli, ma seguì probabilmente anche

altre strade, dato che, comparsa poco più di 700

anni fa nelle steppe mongole, è presente anche

nel cavallo "islandese".

La capacità di raggiungere una grande velocità,

come quella dei cavalli da corsa, invece è un

tratto ancora più recente, che si è sviluppato

negli ultimi 200-300 anni con l'affermarsi del

concetto di razze "pure" e la diffusione di nuove

pratiche di allevamento per  valorizzarle.

A questo nuovo passaggio della storia evolutiva

del cavallo ha però corrisposto un netto declino

della diversità genetica complessiva, soprattutto

nell'ultimo secolo.

I ricercatori hanno anche scoperto altri due

lignaggi di cavalli, uno della penisola iberica e

uno della Siberia, che si sono estinti fra 4.000

e 4.500 anni fa, non sono imparentati né con

il cavallo domestico, né con quello di Przewalski:

"Sono una sorta di equivalente equino dei

Neanderthal per gli esseri umani moderni",

dice Orlando.

Nonostante queste scoperte, osservano i r

icercatori, ci sono ancora lacune geografiche

e temporali nella storia di questo animale, e

in particolare, una chiara definizione di quando

e dove il cavallo domestico sia diventato tale

per la prima volta. 

 
 
 

Non esistono più cavalli selvaggi: lo dice la genetica

Post n°2256 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

26 febbraio 2018

Non esistono più cavalli selvaggi:

lo dice la genetica

Non esistono più cavalli selvaggi: lo dice la genetica

Nuove analisi genetiche mostrano

che i cavalli di Przewalski, orginari

del Kazakistan, non sono gli ultimi

cavalli selvaggi esistenti, come ritenuto

finora.

Discendono anch'essi dai primi cavalli

domesticati circa 5500  anni fa dagli

antenati della popolazione Botai(red)

animaligenetica

I cavalli di Przewalski, una popolazione

residuale di circa 2000 individui, originari

delle steppe dell'Eurasia, sono l'ultima

specie di cavalli selvaggi esistenti sul

pianeta.

O almeno, così si credeva finora. 

Una nuova analisi genetica pubblicata

su "Science" da Sandra Olsen ricercatrice

dell'Università del Kansas, e colleghi di

un'ampia collaborazione internazionale

ha rivelato che si tratta invece dei più diretti

discendenti dal primo caso noto di domestica-

zione del cavallo, avvenuta circa 5500 anni

fa, nel Kazakstan settentrionale, per opera

del popolo Botai.

Inoltre, i moderni cavalli attuali non discendono

dai cavalli Botai, come invece sostenuto da

molti scienziati.

Non esistono più cavalli selvaggi: lo dice la geneticaUn

Ciò significa che non ci sono più cavalli selvaggi

viventi sulla Terra: questa è la parte triste del r

isultato", ha spiegato Olsen.

"Molti biologi che si occupano di evoluzione degli

equidi hanno studiato in passato i Przewalski, e

questo sarà un grande shock per loro: pensavano

di studiare gli ultimi cavalli selvaggi, ma ora

sappiamo tutti i cavalli selvaggi si sono estinti".

Gli autori hanno ricostruito la storia filogenetica

dei Przewalski a partire da una serie di reperti

fossili, ossa e denti, scoperti in due siti della

cultura tradizionale Botai, in Kazakistan.

Il materiale genetico recuperato è stato sufficiente

per il sequenziamento dei genomi di 20 cavalli Botai.

Questi sono stati confrontati con i genomi di altri 22

cavalli originari di tutta l'Eurasia e vissuti negli ultimi

5.500 anni e con genomi equini già pubblicati, relativi

a 18 cavalli antichi e 28 moderni.

Da qui la sorpresa: i cavalli Przewalski discendono

dai primi cavalli domesticati dagli antenati dei Botai.

Questi erano inizialmente cacciatori nomadi, ma

divennero sedentari circa 5500 anni fa proprio

grazie ai primi allevamenti di cavalli, che venivano

usati per il consumo di carne e latte, e come ausilio

nei lavori pesati e infine come mezzi di trasporto.

"La nostra ipotesi è che gli antenati dei Botai

vivessero principalmente di carne di cavallo e

non avessero agricoltura", ha continuato Olsen.

"Questa conclusione è suffragata dai ritrovamenti

archeologici: il 95 percento delle ossa scoperte

nei siti Botai è di cavalli e sono molto concentrate;

altre 'pistole fumanti' che tutta questa civiltà

fosse basata sull'allevamento equino vengono

dalle alte concentrazioni di sodio e azoto nel

terreno, provenienti probabilmente da letame e

urine, e da vasellame con resti di latte".

Inoltre, la ricostruzione dell'albero filogenetico

dei cavalli sulla base delle analisi ha mostrato

che i cavalli domestici non formano un singolo

gruppo omogeneo, come invece dovrebbe essere

se discendessero tutti da cavalli Botai.

"La cosa interessante è che abbiamo

documentati due diversi eventi di domesticazione

da specie leggermente diverse, o sottospecie

separate", ha concluso Olsen.

 
 
 

Cosa rivelano gli anelli di Saturno

Post n°2255 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

14 giugno 2019Comunicato stampa

Materiale organico e striature da impatto:

ecco gli inediti anelli di Saturno

Immagini in falsi colori degli anelli di Saturno.

Il mosaico mostra la luna Dafni nel gap (zona

vuota) di Keeler sul lato illuminato degli anelli.

I colori rossastri indicano una frazione maggiore

di componenti diversi dal ghiaccio d'acqua

 Nuovi, sorprendenti risultati arrivano dall'analisi

dei dati raccolti dagli strumenti della sonda

Cassini prima del Grand Finale

La sonda Cassini, frutto di una collaborazione

tra NASA, ESA e ASI, ci fornisce ancora una volta

una vista senza pari sul sistema di Saturno,

grazie all'analisi dei dati raccolti dai suoi strumenti

durante le fasi finali della missione e prima del

fatale tuffo nell'atmosfera del sesto pianeta del

Sistema solare avvenuto il 15 settembre 2017.

Al centro dello studio, pubblicato oggi sulla rivista

Science e guidato da Matthew S. Tiscareno del

SETI Institute, ci sono le proprietà spettrali (cioè

la composizione chimica) degli anelli principali

attorno al gigante gassoso e la loro struttura

(cioè il processo che li ha modellati coinvolgendo

le diverse masse che orbitano nel sistema

saturniano, dalle lune agli impattatori).

Dalle immagini emergono dettagli senza

precedenti, come i colori, la chimica e la

temperatura risolti attraverso gli anelli D, C, B,

la divisione di Cassini, A ed F in ordine di

distanza da Saturno.

Da queste strutture composte in prevalenza

da ghiaccio d'acqua, i ricercatori possono

apprendere molto sui processi e sulle dinamiche

attraverso i quali il sistema è evoluto, dalla sua

formazione a oggi.

Nel team di ricercatori coinvolti, anche Gianrico

Filacchione dell'Istituto Nazionale di Astrofisica

(INAF) di Roma.

Per la raccolta dei dati spettrali, il gruppo ha

utilizzato, tra gli altri strumenti, lo spettrometro

VIMS (Visual and Infrared Mapping Spectrometer),

per il quale L'Agenzia Spaziale Italiana (ASI) ha

fornito il canale visibile, che ha potuto osservare

gli anelli con risoluzioni spaziali senza precedenti

(fino a 20-30 km per pixel) permettendo di 

investigare le variazioni di composizione insieme

alle immagini ottenute dalla camera (risoluzione

di 3 km per pixel).

L'ASI ha inoltre sviluppato, per la sonda Huygens,

lo strumento HASI che ha misurato le proprietà

fisiche dell'atmosfera e della superficie di Titano.

Filacchione spiega i risultati:

«In generale abbiamo osservato che gli

assorbimenti del ghiaccio d'acqua nell'infrarosso

e la slope spettrale in luce visibile sono strettamente

correlati con la profondità ottica: le zone più dense

degli anelli appaiono più ricche di ghiaccio d'acqua

e di contaminanti, e sono generalmente più fredde.

Pur essendo dominati entrambi dal ghiaccio d'acqua,

lo spettro degli anelli appare molto più arrossato

di quello dei satelliti ghiacciati di Saturno per via

della maggiore concentrazione di contaminanti».

Il ricercatore dell'INAF continua: «due diverse

popolazioni di contaminanti sono necessarie per

modellare gli spettri osservati da VIMS: la prima,

responsabile dell'arrossamento dello spettro visibile

è riconducibile a materiali organici (toline e idrocarburi

policiclici aromatici) o nanoparticelle di ferro.

La seconda invece è un assorbitore neutro

compatibile con particelle di carbone amorfo o

di silicati».

Il team di Tiscareno ha analizzato questi composti

organici durante i passaggi attraverso l'anello D

utilizzando lo spettrometro di massa (Ion and Neutral

Mass Spectrometer - INMS) a bordo di Cassini.

«Le osservazioni ottenute durante il Grand Finale

ci hanno permesso di estendere lo studio della

composizione e delle proprietà fisiche degli anelli

su scale spaziali mai raggiunte in precedenza e

di correlarne le variazioni con le strutture morfologiche

osservate a queste scale (onde di densità ed onde

verticali causate dalle risonanze con i satelliti)»,

specifica Filacchione.

I dati analizzati sono stati raccolti da dicembre

2016 ad aprile 2017 (durante la fase "ring-grazing",

cioè le 20 orbite ravvicinate al bordo esterno

dell'anello F) e da aprile a settembre 2017, quando

Cassini ha sorvolato le nuvole dell'atmosfera di

Saturno ("proximal orbits") ad appena 1000 km di

distanza, prima dell'impatto con il gigante gassoso

avvenuto nel Grand Finale che ha segnato la fine

della missione.

Con gli strumenti a bordo di Cassini è stato

possibile, inoltre, esaminare da vicino anche le

piccole lune che orbitano tra di essi, come Dafni,

nella Keeler gap, e la struttura fisica degli anelli,

scoprendone le diverse trame - grumose, lisce e

striate.

Da cosa dipendono? Gli scienziati hanno osservato

che una serie di strutture a strisce da impatto

rilevate sull'anello F presentano la stessa lunghezza

e lo stesso orientamento, dimostrando che sono

state probabilmente causate da un gruppo compatto

di impattori che ha colpito l'anello nello stesso momento.

Da ciò si evince che gli anelli esterni possano essere

stati modellati da flussi di materiale orbitante attorno

a Saturno piuttosto che, per esempio, da detriti

cometari che si muovono attorno al Sole, come

teorizzato in passato.

Le immagini di Cassini hanno infine permesso di

osservare in dettaglio i "propellers" (eliche), le

tipiche strutture a forma di S allungata, di circa

1 km di diametro, che sono gli embrioni di

accrescimento di nuove piccole lune in formazione

all'interno dell'anello A.

«Questi nuovi dettagli su come le lune scolpiscono

gli anelli in vari modi forniscono una finestra sulla

formazione stessa del Sistema solare»,

considerando che «i dischi protoplanetari si

evolvono sotto l'influenza delle masse incorporate

al loro interno», sottolinea Matt Tiscareno.

«L'articolo in uscita oggi sulle proprietà spettrali

degli anelli di Saturno, è stato reso possibile dai

dati ad altissima risoluzione spaziale raccolti

durante le orbite finali della missione Cassini,

un programma nato dalla sinergia tra NASA, ESA

ed ASI», afferma Christina Plainaki, Planetary and

Solar System Scientist dell'Agenzia Spaziale Italiana.

«Lo studio fornisce informazioni importanti per una

più profonda comprensione del sistema degli anelli

di Saturno e i processi che hanno luogo al loro interno.

Il lavoro, in generale, dimostra quanto importante

sia caratterizzare con alto dettaglio spaziale le

proprietà di questi sistemi e le possibili loro cor-

relazioni per comprendere la loro evoluzione

nel tempo.

In vista di future missioni ai sistemi dei pianeti

giganti è fondamentale comprendere il più

possibile l'interazione delle particelle e dell'ambiente

con gli anelli e i satelliti, anche attraverso lo studio

delle proprietà fisiche e chimiche di questi oggetti»,

conclude Plainaki.

L'articolo "Close-range remote sensing of Saturn's

rings during Cassini's ring grazing orbits and grand

finale" di Matthew S. Tiscareno (Carl Sagan Center

for the Study of Life in the Universe, SETI Institute)

et al. è stato pubblicato sulla rivista Science.
________________________________________

Cenni sulla missione

Cassini-Huygens è una missione robotica realizzata

in collaborazione tra NASA, ESA (Agenzia Spaziale

Europea) e ASI (Agenzia Spaziale Italiana).

La missione consisteva di due elementi: la sonda

Cassini fornita dalla NASA e il lander Huygens fornito

dall'ESA.

Dato che nessun lanciatore esistente avrebbe potuto

inviare direttamente su Saturno un manufatto di 5600

chilogrammi (tanto era il peso complessivo al lancio

della sonda), la missione è riuscita ad arrivare nel

sistema saturniano grazie alla tecnica di navigazione

spaziale della "gravità assistita": per effettuare viaggi

interplanetari è necessario sfruttare la cosiddetta

fionda gravitazionale, cioè la spinta data da altri corpi

nello spazio.

La sonda Cassini ha usufruito di ben quattro spinte

gravitazionali planetarie: due con passaggi ravvicinati

su Venere, una sulla Terra e una su Giove.

L'Italia ha contribuito alla missione con la fornitura

del canale visibile dello spettrometro VIMS impiegato

in questo studio, oltre che con l'antenna di alto

guadagno di 4 metri di diametro, con parte dell'elettronica

del Cassini-Radar e con l'esperimento di Radioscienza.

Il 1 luglio 2004, dopo 7 anni di viaggio all'interno

del Sistema solare, Cassini ha accesso il suo motore

principale per rallentare la sua corsa ed è entrata

nell'orbita del pianeta Saturno dove è iniziata la

prima fase di missione inizialmente prevista della

durata di 4 anni (ma effettivamente la missione è

andata avanti per 13 anni), dedicata allo studio

del pianeta, delle sue lune, degli anelli e del suo

campo magnetico.

Nel corso di oltre un decennio, gli strumenti

scientifici a bordo di Cassini hanno permesso di

approfondire la conoscenza della composizione,

della struttura e delle proprietà fisiche e dinamiche

del sistema di Saturno.

Pur essendo già terminata da un anno e mezzo

(il 15 settembre 2017), l'enorme mole dei dati

scientifici trasmessi a terra dalla missione sono

tuttora in fase di analisi da parte degli scienziati.

 
 
 

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