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Messaggi del 27/06/2019
Post n°2262 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 03 marzo 2017 L'impronta dei popoli precolombiani sulla foresta amazzonica L'Amazzonia è disseminata di piante domesticate, in particolare nelle zone vicine ai siti archeologici precolombiani. Lo rivela un nuovo studio che sfata l'immagine della "foresta vergine" e sottolinea l'importanza di conservare queste zone di foresta - attualmente non consideratecome hotspot di biodiversità - perché hanno un alto valore storico città (quasi) perdute dell'Amazzonia ambientebiodiversitàarcheologia In Amazzonia c'è la foresta vergine per antonomasia? Forse no, a giudicare da una nuova ricerca pubblicata sulle pagine di "Science" da Carolina Levis e colleghi del National Institute for Amazonian Research (INPA)in Brasile, secondo cui la foresta amazzonica è disseminata di specie vegetali domesticate dalle popolazioni indigene prima dell'arrivo di Cristoforo Colombo, specie che continuano a rivestire un ruolo importate nella foresta attuale. l'influenza delle popolazioni precolombiane sulle foreste che vediamo oggi", ha sottolineato Levis. "Grazie al nostro studio, si è scoperto che un quarto delle specie domesticate dell'Amazzonia è ampiamente distribuito nel bacino e domina ampie zone di foresta; questi risultati indicano chiaramente che la flora amazzonica è in parte un'eredità dei suoi antichi abitanti". Utilizzando i dati raccolti oltre 1000 monitoraggi della flora condotti dall'Amazon Tree Diversity Network e la mappa di più di 3000 siti archeologici di tutta l'Amazzonia, Levis e colleghi hanno confrontato la composizione della foresta a varie distanze dai siti archeologici, realizzando così la prima "fotografia" di come le popolazioni precolombiane hanno influenzato la biodiversità dell'Amazzonia. tra cui alcune ben note per la loro importanza commerciale come il cacao e la noce brasiliana, che sono state domesticate dalle popolazioni amazzoniche nell'arco di migliaia di anni. specie domesticate erano cinque volte più comuni delle specie non domesticate e molto più comuni e più diversificate nelle zone di foresta vicine ai siti archeologici. popolazioni indigene che vivevano in foreste apparentemente vergini, e quest'idea ha avuto una grande fortuna, poiché affascinava la stampa, i politici e anche qualche scienziato", concludono i ricercatori. "Questo studio conferma invece che aree dell'Amazzonia che appaiono vergini portano evidenti le tracce dell'intervento degli esseri umani". i ricercatori, ma è sufficiente a rivelare la profonda impronta umana sulla foresta. siano molte di più, perché le popolazioni indigene hanno gestito centinaia di piante senza domesticarle: si calcola che ve ne siano circa 16.000. Studiarle è della massima importanza, perché l'eredità precolombiana, sia i siti archeologici sia le foreste con una forte componente storica, sono a rischio di degrado e deforestazione. notevoli", ha concluso André Junqueira, coautore dello studio. "Abbiamo infatti mostrato che le regioni sud occidentale e orientale dell'Amazzonia hanno la maggiore concentrazione di specie domesticate e che queste stesse specie sono quelle più minacciate dal degrado e dalla deforestazione; non sono considerate classici hotspot di biodiversità, mentre dovrebbero essere al massimo delle priorità di conservazione, in quanto riserve di foreste di alto valore per le popolazioni umane". |
Post n°2261 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 03 giugno 2019 I motori della vita Le cronache scientifiche raccontano Galileo Galilei come colui che agli inizi del XVII secolo alzando lo sguardo al cielo notturno, grazie a uno dei primi telescopi, detronizzò la Terra e i suoi abitanti dal centro del sistema solare e dunque dell'universo allora conosciuto. Ma c'è un'altra rivoluzione galileiana che spesso viene dimenticata, quella che portò lo scienziato italiano a costruire uno di primi microscopi della storia, portando così lo sguardo non sull'infinitamente grande verso l'alto, ma sull'infinitamente piccolo verso il basso. Galileo non sembrò appassionarsi al mondo microscopico che poteva osservare con il suo nuovo strumento, ma il primo passo ormai era stato fatto. Altri scienziati raccolsero il testimone dello sguardo verso il basso; per esempio, l'olandese Antoni van Leeuwenhoek, coevo di Galileo, che per primo osservò i batteri verso la fine del Seicento. Fu così che nacque la microbiologia. dei microbi avrebbe svelato un mondo la cui importanza per lungo tempo è stata poco apprezzata, benché, se non fosse per i microbi, noi esseri umani e altre forme animali complesse non saremmo qui, come spiega Paul G. Falkowski in I motori della vita, libro allegato a richiesta con «Le Scienze» di giugno. Biologo marino all'Institute of Marine and Coastal Sciences della statunitense Rutgers University, racconta come i microrganismi hanno conquistato la Terra, dominando il nostro pianeta per quattro miliardi di anni. In quell'arco di tempo, che è pari a quasi il novanta per cento dell'età della Terra, i microbi hanno reso abitabile il pianeta per gli organismi complessi che li avrebbero seguiti, entrando a far parte di cicli biogeochimici fondamentali per far circolare a livello planetario sostanze necessarie alla vita. Per esempio il Grande evento ossidativo avvenuto circa 2,4 miliardi di anni fa, quando grazie all'azione di alcuni microrganismi acquatici la concentrazione di ossigeno iniziò ad aumentare prima negli oceani e poi in atmosfera. O, il cosiddetto processo di fissazione dell'azoto, tramite cui alcuni microrganismi rendono disponibile l'azoto atmosferico alle piante, un processo che noi umani abbiamo ricapitolato con l'invenzione dei fertilizzanti. biochimici dei microbi si sono spostate ben oltre la chimica da laboratorio o industriale. Con la nascita della biologia sintetica, gli scienziati cercano di riprogrammare direttamente il metabolismo dei micro- rganismi per produrre molecole da sfruttare. E altri scienziati studiano microbi adattati ad ambienti estremi sulla Terra, alla ricerca di indizi utili per la scoperta di forme di vita su altri pianeti. Una sintesi perfetta tra i due sguardi, verso l'alto e verso il basso, di Galileo. |
Post n°2260 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 01 ottobre 2018 Come cercare civiltà morte nel cosmo Antiche civiltà ormai estinte potrebbero essere state comuni nella nostra galassia, e le loro reliquie tecnologiche potrebbero trovarsi ovunque. I primi sospetti riguardano 'Oumuamua, il misterioso (e discusso) asteroide interstellare scoperto nel sistema solare l'anno scorsoAbraham Loeb/Scientific American spazioarcheologiaastrobiologia Il tasso di crescita delle nuove tecnologie è spesso proporzionale alle conoscenze passate, il che porta a un avanzamento esponenziale nel tempo. Questo processo esplosivo implica che, dopo aver raggiunto la maturità tecnologica, una civiltà svilupperà molto presto i mezzi per la propria distruzione per effetto del cambiamento climatico, per esempio, o armi nucleari, biologiche o chimiche. apparirebbero come improvvisi nella prospettiva cosmica di miliardi di anni. Se questa autodistruzione fosse un fenomeno comune, potrebbe spiegare il paradosso di Fermi (che chiede "dove sono tutti?") e implicare che nello spazio i resti di civiltà sepolte abbondano. potremmo quindi trovare pianeti con superfici riarse, megastrutture abbandonate o atmosfere ricche di gas velenosi e nessun segno di vita. Ancora più intrigante è la possibilità di trovare nel nostro sistema solare relitti tecnologici che fluttuano senza un funzionamento rilevabile, per esempio pezzi di equipaggiamenti che hanno perso energia in milioni di anni di viaggio e si sono trasformati in spazzatura spaziale. La quantità di detriti nello spazio interstellare dipenderebbe dall'abbondanza di civiltà tecnologiche e dalla portata delle loro ambizioni di esplorazione spaziale. quarto di tutte le stelle ospita un pianeta abitabile di dimensioni terrestri. Anche se una piccola parte di tutte le "Terre" abitabili portasse a civiltà tecnologiche come la nostra durante la vita delle loro stelle, nella Via Lattea potrebbe esserci abbondanza di reperti da esplorare. frontiera dell'archeologia spaziale, e cioè lo studio nello spazio delle reliquie di civiltà passate. Invece di usare le pale per scavare nel terreno, questa nuova frontiera sarà esplorata usando telescopi per monitorare il cielo e "scavare" nello spazio. di ricerca completamente futuristico. Ma il dato interessante è che la prima reliquia artificiale potrebbe essere statascoperta l'anno scorso, quando la survey Pan STARRSsky ha identificato il primo oggetto interstellare nel sistema solare, 'Oumuamua. Circa un decennio fa, l'abbondanza di asteroidi interstellari con lunghezza dell'ordine dei chilometri come 'Oumuamua è stata stimata estremamente piccola, rendendo questa scoperta una sorpresa completa. Inoltre, 'Oumuamua è più allungato di qualsiasi asteroide conosciuto nel sistema solare. Ma la cosa più intrigante è che devia dall'orbita che ci si sarebbe aspettati basandosi sul campo gravitazionale del Sole. Anche se queste deviazioni possono essere spiegate con l'effetto razzo associato al degassamento dovuto al riscaldamento di acqua ghiacciata da parte del Sole, dietro 'Oumuamua non c'era traccia di una coda cometaria, e i calcoli implicano, contrariamente alle osservazioni, che il suo periodo di rotazione su se stesso dovrebbe essere cambiato significativamente se fosse presente un qualsiasi momento torcente cometario. 'Oumuamua potrebbe avere un motore artificiale? Anche se sembra un pezzo di roccia naturale, come indica la mancanza di trasmissioni radio, questo oggetto è molto insolito da molti punti di vista. a cercare detriti interstellari nel sistema solare. Gli oggetti interstellari potrebbero anche non essere visitatori occasionali: una piccola parte potrebbe essere stata intrappolata dalla "rete" gravitazionale gettata dal Sole e da Giove. perdere energia orbitale per effetto della loro interazione gravitazionale e rimanere legati al sistema solare. In effetti, un asteroide che occupa un'orbita indicativa di questa origine, BZ509, è stato recentemente identificato in un'orbita retrograda attorno a Giove. inseguire 'Oumumua è impossibile a causa della sua alta velocità, ma si possono ipotizzare missioni per atterrare su oggetti interstellari legati al sistema solare. Sebbene siano una piccola minoranza di tutti gli asteroidi o comete del sistema solare, la loro origine interstellare può essere identificata in base alle loro orbite insolite attorno a Giove o, nel caso delle comete, attraverso la loro caratteristica (extrasolare) abbondanza isotopica dell'ossigeno, rilevabile dalle osservazioni spettroscopiche della coda. artificiale fornirebbe una risposta affermativa alla vecchia domanda "Siamo soli?" Questo avrebbe un impatto notevole sulla nostra cultura e aprirebbe una nuova prospettiva cosmica al significato dell'attività umana. Speriamo che trovando una civiltà sepolta a causa di guerre o cambiamenti climatici ci convinceremo a collaborare per evitare un destino simile. Ma sarebbe ancora più significativo se le immagini radar o le fotografie ravvicinate di una reliquia interstellare all'interno del sistema solare mostrassero segni di una tecnologia avanzata che la nostra civiltà non ha ancora raggiunto. Non c'è lezione migliore da imparare di quella delle civiltà che hanno sviluppato tecnologie avanzate fino all'autodistruzione. "Scientific American" il 27 settembre 2018. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.) |
Post n°2259 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 13 dicembre 2013 Il cimitero di un'antica abbazia racconta mille anni di epidemie Vaiolo, morbillo, tubercolosi, tifo, colera e soprattutto peste: sono le malattie infettive che si diffondevano lungo l'Italia con gli spostamenti di pellegrini e soldati lungo la Via Francigena. Molte nuove informazioni su questi agenti patogeni potranno essere ottenute grazie alla scoperta di un cimitero nell'antica abbazia di S. Pietro a Badia Pozzeveri, in provincia di Lucca, che raccoglie gli scheletri di pellegrini morti lungo il cammino nell'arco di circa mille anni(red) storiaepidemiologiaarcheologia Erano sepolti in un cimitero finora sconosciuto dell'Abbazia camaldolese di S. Pietro a Badia Pozzeveri, in provincia di Lucca, gli scheletri che consentiranno di aprire una finestra inattesa su salute e malattia in Europa, nel corso dei secoli, rivelando importanti informazioni su eventi epocali come la peste nera del 1300 o l'epidemia di colera del 1800. Un articolo apparso su "Science" a firma della giornalista Ann Gibbons racconta l'eccezionale scoperta fatta da Giuseppe Vercellotti e Clark Larsen, dell'Ohio State University, e da Hendrik Poinar, della McMaster University, che da tre anni conducono una meticolosa campagna di scavi per riportare alla luce i reperti, per poi studiarli con diverse tecniche, dall'analisi degli isotopi radioattivi alle scansioni di tomografia computerizzata tridimensionale. dell'Europa, e in particolare dalla Francia, portava a Roma. Il cammino poi proseguiva poi fino al sud d'Italia, e una volta attraversato il mare, in Terrasanta. La Via Francigena era percorsa da cavalieri, monaci e contadini e, con loro, anche da gravi malattie infettive. L'Abbazia di S. Pietro a Badia Pozzeveri, in provincia di Lucca, dove da tre anni proseguono gli scavi (Wikimedia Commons) resti fossili e genomi di individui appartenenti a classi sociali diverse e a diverse epoche storiche e di capire in che modo vivevano e morivano dal Medioevo in poi. Il confronto tra i vari genomi può aiutare inoltre a comprendere in che modo si sono evoluti gli organismi patogeni nelle varie condizioni, dalla carestia alla guerra, presenti durante i viaggi dei pellegrini, ma anche delle truppe che si spostavano lungo la penisola. Medio Oriente con i soldati di ritorno dalle Crociate. I primi focolai si registrarono infatti in Toscana nel XXII secolo, quando sorsero nella regione ben tre lebbrosari. I pellegrini probabilmente sono stati il veicolo di diffusione di vaiolo, morbillo, tubercolosi, tifo, colera e soprattutto della peste. Una specifica zona di scavi probabilmente ospita infatti le vittime della terribile epidemia, la cosiddetta Morte Nera, che uccise metà della popolazione europea tra il 1348 e il 1350. Una ricerca condotta nel 2011 su resti dell'epoca, ritrovati a Londra dal gruppo dello stesso Poinar, ha confermato che a causare la Morte Nera fu Yersinia pestis, il batterio che causa la peste, escludendo altri possibili agenti patogeni. Immagine elaborata al computer di Yersinia pestis (© Science Picture Co./Corbis) Questi nuovi campioni dell'Abbazia di San Pietro consentiranno di affrontare questioni rilevanti sulla virulenza di Y. pestis. Il batterio è infatti ancora presente negli Stati Uniti sud occidentali, in Asia e in Africa, e colpisce da 1000 a 3000 persone all'anno, ma si trasmette molto lentamente da uomo a uomo. I ricercatori vogliono dunque scoprire perché il batterio è molto meno virulento oggi di quanto fosse centinaia di anni fa. riguardano poi la malaria, e la sua presenza nella Toscana del 1300, oppure le malattie a trasmissione sessuale come la sifilide tra il 1400 e il 1500, o ancora la pandemia di colera che colpì l'Italia nel 1855. appena iniziato a svelare i segreti di quasi mille anni di storia sanitaria dell'Italia e dell'intera Europa. |
Post n°2258 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 07 maggio 2019 L'eccezionale diversificazione delle forme di vita animale che oltre 500 milioni di anni fa caratterizzò la cosiddetta esplosione del Cambriano fu legata a fluttuazioni estreme dei livelli di ossigeno atmosferico che provocarono una serie di picchi evolutivi e di episodi di estinzione paleontologiaevoluzionebiodiversita La cosiddetta esplosione del Cambriano - il periodo in cui la Terra passò in breve tempo dall'essere popolata da organismi semplici e unicellulari a ospitare una multiforme varietà di forme di vita - fu legata a una serie di drastici aumenti e diminuzioni dei livelli di ossigeno. Nel corso di poco più di 13 milioni di anni queste variazioni estreme provocarono una rapida successione di diversificazioni di nuove specie - ossia una serie di quelle che sono dette "radiazioni" - e di estinzioni. A dimostralo è stato uno studio effettuato da un gruppo internazionale di ricercatori coordinato da Graham A. Shields dello University College di Londra, che firmano un articolo su "Nature Geoscience". L'esistenza di una stretta relazione fra livelli di ossigeno ed esplosione cambriana era sospettata da molto tempo; finora però non era stato possibile dimostrarla a causa dell'assenza di qualsiasi registrazione diretta dell'ossigeno atmosferico durante quel lontano periodo geologico (fra 540 e 480 milioni di anni fa circa). Un artropode gigante del generePhytophilaspis (Cortesia Andrey Zhuravlev, Lomonosov Moscow State University),Shields e colleghi sono ora riusciti a determinarli in modo indiretto analizzando gli isotopi di carbonio e zolfo presenti in campioni di rocce calcaree che un tempo costituivano i sedimenti del fondale di un antico mare poco profondo e che ora formano parte del bacino in cui scorrono i fiumi siberiani Lena e Aldan. "La piattaforma siberiana - spiega Benjamin Mills, dell'Università di Leeds e coautore dello studio - offre una finestra unica sui primi ecosistemi marini. Quest'area contiene oltre la metà di tutta la diversità fossile dell'esplosione del Cambriano attualmente conosciuta". matematico, i ricercatori sono risaliti all'andamento dei livelli di ossigeno durante quel periodo; in questo modo hanno prima osservato una serie di picchi e crolli di quell'elemento in atmosfera, poi hanno confrontato quelle variazioni con la quantità e varietà di fossili nei corrispondenti strati rocciosi, trovando una perfetta corrispondenza. particolarmente intenso di ossigeno e di radiazione delle specie fra 524 e 514 milioni di anni fa, a cui è seguito un crollo e un'estinzione diffusa fra 514 e 512 milioni di anni fa. Secondo gli autori proprio questo andamento a "impulsi" dei livelli di ossigeno ha contribuito a una più vasta e complessa diversificazione delle forme di vita. (red) |
Post n°2257 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze I cavalli moderni sono geneticamente diversi da quelli vissuti anche solo pochi secoli fa: caratteristiche come la velocità e l'ambio sono il frutto di una selezione recente. Lo ha stabilito uno studio che si è basato sulla più vasta collezione di genomi mai creata per un organismo non umano La ricostruzione di 5000 anni di storia genetica del cavallo domestico ha riservato diverse sorprese: dalla scoperta che due lignaggi molto diffusi nell'antichità non hanno lasciato traccia nei cavalli moderni a quella che molti dei tratti che associamo di solito a questi animali, come la velocità, sono stati selezionati piuttosto di recente. A realizzare lo studio,pubblicato su "Cell", è stata un'ampia collaborazione internazionale che ha visto impegnati ben 121 ricercatori, coordinati da Ludovic Orlando, direttore di ricerca del CNRS a Tolosa e professore di archeologia molecolare all'Università di Copenaghen. La domesticazione del cavallo è stato un evento di primaria importanza nella storia dell'umanità che, a partire dall'età del bronzo, ha rivoluzionato la velocità degli spostamenti di persone e merci e le tecniche di combattimento.
così come sui legami fra i primi cavalli domestici e i cavalli moderni. Le prime testimonianze archeologiche di mungitura, imbracatura e recinzione di cavalli risalgono a circa 5500 anni fa, e sono state trovate nelle steppe dell'Asia centrale, dove prosperava la cultura Botai. I cavalli botai, però, sono gli antenati diretti dei cavalli di Przewalski, ma non dei moderni cavalli domestici, la cui ascendenza genetica è rimasta controversa. genoma di 278 esemplari di cavalli provenienti da tutta l'Eurasia, 129 dei quali prelevati da antichi reperti. Hanno così scoperto che le radici più antiche dei cavalli domestici risalgono a una razza equina attualmente presente solo in poche regioni, come l'Islanda, le isole Shetland e l'Estonia. Il genoma di questi cavalli subì però un drastico rimodellamento fra il VII e il IX secolo, in corrispondenza dell'espansione islamica, per il contributo di cavalli provenienti dal Medio Oriente, tanto che i cavalli attuali sono molto più simili a quelli di cui sono stati trovati resti nei siti archeologici dell'antica Persia, risalenti al periodo dell'impero Sassanide. oggi sono noti come cavalli arabi, spiega Orlando, "hanno avuto un grande successo e un'influenza preponderante perché erano portatori di una nuova anatomia e probabilmente di altri tratti favorevoli", come una maggiore propensione alla corsa veloce. (il movimento simultaneo in avanti o indietro degli arti di uno stesso lato), legata a una particolare variante genica, forse si diffuse molto grazie a questi cavalli, ma seguì probabilmente anche altre strade, dato che, comparsa poco più di 700 anni fa nelle steppe mongole, è presente anche nel cavallo "islandese". come quella dei cavalli da corsa, invece è un tratto ancora più recente, che si è sviluppato negli ultimi 200-300 anni con l'affermarsi del concetto di razze "pure" e la diffusione di nuove pratiche di allevamento per valorizzarle. A questo nuovo passaggio della storia evolutiva del cavallo ha però corrisposto un netto declino della diversità genetica complessiva, soprattutto nell'ultimo secolo. lignaggi di cavalli, uno della penisola iberica e uno della Siberia, che si sono estinti fra 4.000 e 4.500 anni fa, non sono imparentati né con il cavallo domestico, né con quello di Przewalski: "Sono una sorta di equivalente equino dei Neanderthal per gli esseri umani moderni", dice Orlando. icercatori, ci sono ancora lacune geografiche e temporali nella storia di questo animale, e in particolare, una chiara definizione di quando e dove il cavallo domestico sia diventato tale per la prima volta. |
Post n°2256 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 26 febbraio 2018 Non esistono più cavalli selvaggi: lo dice la genetica Nuove analisi genetiche mostrano che i cavalli di Przewalski, orginari del Kazakistan, non sono gli ultimi cavalli selvaggi esistenti, come ritenuto finora. Discendono anch'essi dai primi cavalli domesticati circa 5500 anni fa dagli antenati della popolazione Botai(red) I cavalli di Przewalski, una popolazione residuale di circa 2000 individui, originari delle steppe dell'Eurasia, sono l'ultima specie di cavalli selvaggi esistenti sul pianeta. O almeno, così si credeva finora. Una nuova analisi genetica pubblicata su "Science" da Sandra Olsen ricercatrice dell'Università del Kansas, e colleghi di un'ampia collaborazione internazionale ha rivelato che si tratta invece dei più diretti discendenti dal primo caso noto di domestica- zione del cavallo, avvenuta circa 5500 anni fa, nel Kazakstan settentrionale, per opera del popolo Botai. Inoltre, i moderni cavalli attuali non discendono dai cavalli Botai, come invece sostenuto da molti scienziati. Ciò significa che non ci sono più cavalli selvaggi viventi sulla Terra: questa è la parte triste del r isultato", ha spiegato Olsen. "Molti biologi che si occupano di evoluzione degli equidi hanno studiato in passato i Przewalski, e questo sarà un grande shock per loro: pensavano di studiare gli ultimi cavalli selvaggi, ma ora sappiamo tutti i cavalli selvaggi si sono estinti". dei Przewalski a partire da una serie di reperti fossili, ossa e denti, scoperti in due siti della cultura tradizionale Botai, in Kazakistan. Il materiale genetico recuperato è stato sufficiente per il sequenziamento dei genomi di 20 cavalli Botai. Questi sono stati confrontati con i genomi di altri 22 cavalli originari di tutta l'Eurasia e vissuti negli ultimi 5.500 anni e con genomi equini già pubblicati, relativi a 18 cavalli antichi e 28 moderni. dai primi cavalli domesticati dagli antenati dei Botai. Questi erano inizialmente cacciatori nomadi, ma divennero sedentari circa 5500 anni fa proprio grazie ai primi allevamenti di cavalli, che venivano usati per il consumo di carne e latte, e come ausilio nei lavori pesati e infine come mezzi di trasporto. vivessero principalmente di carne di cavallo e non avessero agricoltura", ha continuato Olsen. "Questa conclusione è suffragata dai ritrovamenti archeologici: il 95 percento delle ossa scoperte nei siti Botai è di cavalli e sono molto concentrate; altre 'pistole fumanti' che tutta questa civiltà fosse basata sull'allevamento equino vengono dalle alte concentrazioni di sodio e azoto nel terreno, provenienti probabilmente da letame e urine, e da vasellame con resti di latte". dei cavalli sulla base delle analisi ha mostrato che i cavalli domestici non formano un singolo gruppo omogeneo, come invece dovrebbe essere se discendessero tutti da cavalli Botai. documentati due diversi eventi di domesticazione da specie leggermente diverse, o sottospecie separate", ha concluso Olsen. |
Post n°2255 pubblicato il 27 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 14 giugno 2019Comunicato stampa Materiale organico e striature da impatto: ecco gli inediti anelli di Saturno Immagini in falsi colori degli anelli di Saturno. Il mosaico mostra la luna Dafni nel gap (zona vuota) di Keeler sul lato illuminato degli anelli. I colori rossastri indicano una frazione maggiore di componenti diversi dal ghiaccio d'acqua Nuovi, sorprendenti risultati arrivano dall'analisi dei dati raccolti dagli strumenti della sonda Cassini prima del Grand Finale La sonda Cassini, frutto di una collaborazione tra NASA, ESA e ASI, ci fornisce ancora una volta una vista senza pari sul sistema di Saturno, grazie all'analisi dei dati raccolti dai suoi strumenti durante le fasi finali della missione e prima del fatale tuffo nell'atmosfera del sesto pianeta del Sistema solare avvenuto il 15 settembre 2017. Al centro dello studio, pubblicato oggi sulla rivista Science e guidato da Matthew S. Tiscareno del SETI Institute, ci sono le proprietà spettrali (cioè la composizione chimica) degli anelli principali attorno al gigante gassoso e la loro struttura (cioè il processo che li ha modellati coinvolgendo le diverse masse che orbitano nel sistema saturniano, dalle lune agli impattatori). Dalle immagini emergono dettagli senza precedenti, come i colori, la chimica e la temperatura risolti attraverso gli anelli D, C, B, la divisione di Cassini, A ed F in ordine di distanza da Saturno. Da queste strutture composte in prevalenza da ghiaccio d'acqua, i ricercatori possono apprendere molto sui processi e sulle dinamiche attraverso i quali il sistema è evoluto, dalla sua formazione a oggi. Nel team di ricercatori coinvolti, anche Gianrico Filacchione dell'Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) di Roma. utilizzato, tra gli altri strumenti, lo spettrometro VIMS (Visual and Infrared Mapping Spectrometer), per il quale L'Agenzia Spaziale Italiana (ASI) ha fornito il canale visibile, che ha potuto osservare gli anelli con risoluzioni spaziali senza precedenti (fino a 20-30 km per pixel) permettendo di investigare le variazioni di composizione insieme alle immagini ottenute dalla camera (risoluzione di 3 km per pixel). L'ASI ha inoltre sviluppato, per la sonda Huygens, lo strumento HASI che ha misurato le proprietà fisiche dell'atmosfera e della superficie di Titano. «In generale abbiamo osservato che gli assorbimenti del ghiaccio d'acqua nell'infrarosso e la slope spettrale in luce visibile sono strettamente correlati con la profondità ottica: le zone più dense degli anelli appaiono più ricche di ghiaccio d'acqua e di contaminanti, e sono generalmente più fredde. Pur essendo dominati entrambi dal ghiaccio d'acqua, lo spettro degli anelli appare molto più arrossato di quello dei satelliti ghiacciati di Saturno per via della maggiore concentrazione di contaminanti». popolazioni di contaminanti sono necessarie per modellare gli spettri osservati da VIMS: la prima, responsabile dell'arrossamento dello spettro visibile è riconducibile a materiali organici (toline e idrocarburi policiclici aromatici) o nanoparticelle di ferro. La seconda invece è un assorbitore neutro compatibile con particelle di carbone amorfo o di silicati». organici durante i passaggi attraverso l'anello D utilizzando lo spettrometro di massa (Ion and Neutral Mass Spectrometer - INMS) a bordo di Cassini. «Le osservazioni ottenute durante il Grand Finale ci hanno permesso di estendere lo studio della composizione e delle proprietà fisiche degli anelli su scale spaziali mai raggiunte in precedenza e di correlarne le variazioni con le strutture morfologiche osservate a queste scale (onde di densità ed onde verticali causate dalle risonanze con i satelliti)», specifica Filacchione. 2016 ad aprile 2017 (durante la fase "ring-grazing", cioè le 20 orbite ravvicinate al bordo esterno dell'anello F) e da aprile a settembre 2017, quando Cassini ha sorvolato le nuvole dell'atmosfera di Saturno ("proximal orbits") ad appena 1000 km di distanza, prima dell'impatto con il gigante gassoso avvenuto nel Grand Finale che ha segnato la fine della missione. possibile, inoltre, esaminare da vicino anche le piccole lune che orbitano tra di essi, come Dafni, nella Keeler gap, e la struttura fisica degli anelli, scoprendone le diverse trame - grumose, lisce e striate. Da cosa dipendono? Gli scienziati hanno osservato che una serie di strutture a strisce da impatto rilevate sull'anello F presentano la stessa lunghezza e lo stesso orientamento, dimostrando che sono state probabilmente causate da un gruppo compatto di impattori che ha colpito l'anello nello stesso momento. Da ciò si evince che gli anelli esterni possano essere stati modellati da flussi di materiale orbitante attorno a Saturno piuttosto che, per esempio, da detriti cometari che si muovono attorno al Sole, come teorizzato in passato. Le immagini di Cassini hanno infine permesso di osservare in dettaglio i "propellers" (eliche), le tipiche strutture a forma di S allungata, di circa 1 km di diametro, che sono gli embrioni di accrescimento di nuove piccole lune in formazione all'interno dell'anello A. gli anelli in vari modi forniscono una finestra sulla formazione stessa del Sistema solare», considerando che «i dischi protoplanetari si evolvono sotto l'influenza delle masse incorporate al loro interno», sottolinea Matt Tiscareno. degli anelli di Saturno, è stato reso possibile dai dati ad altissima risoluzione spaziale raccolti durante le orbite finali della missione Cassini, un programma nato dalla sinergia tra NASA, ESA ed ASI», afferma Christina Plainaki, Planetary and Solar System Scientist dell'Agenzia Spaziale Italiana. «Lo studio fornisce informazioni importanti per una più profonda comprensione del sistema degli anelli di Saturno e i processi che hanno luogo al loro interno. Il lavoro, in generale, dimostra quanto importante sia caratterizzare con alto dettaglio spaziale le proprietà di questi sistemi e le possibili loro cor- relazioni per comprendere la loro evoluzione nel tempo. In vista di future missioni ai sistemi dei pianeti giganti è fondamentale comprendere il più possibile l'interazione delle particelle e dell'ambiente con gli anelli e i satelliti, anche attraverso lo studio delle proprietà fisiche e chimiche di questi oggetti», conclude Plainaki. rings during Cassini's ring grazing orbits and grand finale" di Matthew S. Tiscareno (Carl Sagan Center for the Study of Life in the Universe, SETI Institute) et al. è stato pubblicato sulla rivista Science. in collaborazione tra NASA, ESA (Agenzia Spaziale Europea) e ASI (Agenzia Spaziale Italiana). La missione consisteva di due elementi: la sonda Cassini fornita dalla NASA e il lander Huygens fornito dall'ESA. Dato che nessun lanciatore esistente avrebbe potuto inviare direttamente su Saturno un manufatto di 5600 chilogrammi (tanto era il peso complessivo al lancio della sonda), la missione è riuscita ad arrivare nel sistema saturniano grazie alla tecnica di navigazione spaziale della "gravità assistita": per effettuare viaggi interplanetari è necessario sfruttare la cosiddetta fionda gravitazionale, cioè la spinta data da altri corpi nello spazio. La sonda Cassini ha usufruito di ben quattro spinte gravitazionali planetarie: due con passaggi ravvicinati su Venere, una sulla Terra e una su Giove. L'Italia ha contribuito alla missione con la fornitura del canale visibile dello spettrometro VIMS impiegato in questo studio, oltre che con l'antenna di alto guadagno di 4 metri di diametro, con parte dell'elettronica del Cassini-Radar e con l'esperimento di Radioscienza. del Sistema solare, Cassini ha accesso il suo motore principale per rallentare la sua corsa ed è entrata nell'orbita del pianeta Saturno dove è iniziata la prima fase di missione inizialmente prevista della durata di 4 anni (ma effettivamente la missione è andata avanti per 13 anni), dedicata allo studio del pianeta, delle sue lune, degli anelli e del suo campo magnetico. Nel corso di oltre un decennio, gli strumenti scientifici a bordo di Cassini hanno permesso di approfondire la conoscenza della composizione, della struttura e delle proprietà fisiche e dinamiche del sistema di Saturno. (il 15 settembre 2017), l'enorme mole dei dati scientifici trasmessi a terra dalla missione sono tuttora in fase di analisi da parte degli scienziati. |
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