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A tavola con gli antichi Romani: ecco 6 alimenti tipici di quel tempo

Post n°2290 pubblicato il 29 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

A tavola con gli antichi

Romani: ecco 6 alimenti

tipici di quel tempo

I nostri avi amavano i sapori forti e speziati.

Ma erano anche bravi a riciclare gli scarti e a creare, con

poche risorse, alimenti nutrienti e (nei limiti del possibile!)

piacevoli.

antichi-romani-pranzo|

A leggerle oggi, le ricette dei piatti più diffusi tra gli antichi

Romanipotrebbero suscitare più di una perplessità per i

nostri palati raffinati da secoli di storia.

Ma è anche vero che il cibo dei nostri avi, dal pulsalla posca,

dal pregiato garum al defrutum, rivela anche un uso sapiente

(e sostenibile) degli ingredienti, che tutto sommato non farebbe

storcere il naso ai nutrizionisti.

IL PULS DEI SOLDATI. È risaputo che i cereali fossero

l'alimento base della dieta romana.

E il cibo più facile da produrre dalla farina di grano

(oppure miglio o farro) era il puls, una specie di 

porridge salato o di polenta, preparato lasciando

bollire il grano in acqua finché l'acqua non veniva

assorbita.

A quel punto si aggiungevano sale e altri ingredienti

a piacere. I

l puls più pregiato, quello punico, conteneva anche

miele, formaggio e uova.

Il puls si diffuse nella società romana grazie ai soldati: nell'esercito

romano il cibo veniva preparato nel contubernio, la tenda in cui

vivevano, mangiavano e dormivano i soldati (a gruppi di 8/10).

Tra questi ultimi, un paio si occupava della cucina, e non avendo

a disposizione molto tempo e nemmeno un forno per trasformare

la farina in pane, ne facevano una saporita poltiglia (parola che

deve proprio a puls la sua etimologia).

PANIS QUADRATUS. Se il puls era il cibo romano più facile

da preparare, il pane era il più diffuso, soprattutto negli ultimi

anni dell'impero quando la fornitura gratuita di cereali cominciò a

essere sostituita da pane già pronto. Il pane veniva prodotto su

scala industriale in grandi panifici e la forma standard era il panis

quadratus, una pagnotta circolare incisa esternamente in modo

da ottenere otto fette.

Secondo l'archeologa Farrell Monaco, i solchi venivano fatti con

un oggetto somigliante ad una ruota di carro (a otto raggi) in

miniatura che veniva impressa sull'impasto.

Il motivo? «Gli otto spicchi sulla parte superiore della

pagnotta probabilmente erano fatti per essere spezzati

più facilmente e usati come "utensili da cucina commestibili"

per accompagnare stufati, zuppe e legumi».

Pompei gli archeologi hanno portato alla luce diversi

esempi carbonizzati di panis quadratus e molti affreschi

che lo raffigurano.

A giudicare dalla documentazione archeologica, il panis

quadratus era comunemente consumato in ambienti

urbani, dove molte persone preferivano acquistare il

cibo piuttosto che coltivarlo e cucinarlo da soli.

Il pane più economico era molto scuro, mentre quello

più costoso era anche più leggero, essendo prodotto con

farina più fine.

IL GARUM DI PESCE. 

«Si pongono le interiora dei pesci in un recipiente e si

salano; anche piccoli pesci, soprattutto latterini o trigliette

o menole o 'bocche di lupo', o ciò che sembri piccolo; si

sala tutto allo stesso modo e si fanno macerare al sole,

girandoli spesso.

Quando risultano macerati per effetto del caldo, si estrae

da essi il garum...». La ricetta di una salsa a base di

interiora di pesce fermentate per mesi (il garum, appunto)

oggi potrebbe fare storcere il naso a molti, ma ai tempi dei

romani non era così: il garum era anzi una salsa molto

apprezzata, ritenuta persino una golosità, se preparata

con le interiora dei pesci pregiati e con particolari combinazioni

di erbe e spezie.

Il segreto però era nella giusta quantità di sale: usandone

troppo poco, infatti, si correva il rischio di mandare il pesce

in putrefazione; mettendone troppo, invece, si rischiava

di interrompere il processo di fermentazione.

Secondo Plinio il Vecchio, il miglior garum era quello che

si preparava nel sud della Spagna: il garum sociorum.

UN SORSO DI POSCA. 

Oggi l'Italia è uno dei maggiori esportatori di vino al mondo.

Ma quella del vino era un'industria rilevante già nell'antica Roma

e, come tutte le industrie, produceva i suoi rifiuti.

Il principale prodotto di scarto era il vino andato a male o

non invecchiato correttamente, che diventava così aceto o

acetone.

Ma i Romani erano attenti a riciclare i loro rifiuti e questo

aceto veniva destinato a molti usi.

La posca era quello principale: una bevanda a base di acqua

e aceto diffusa tra le classi inferiori e nell'esercito per la sua

disponibilità e il prezzo accessibile e forse anche per il

suo potere disinfettante.

Se fosse disgustoso bere aceto? Sì, decisamente.

E infatti i romani cercavano di renderlo più

appetibile aggiungendovi alcuni ingredienti: la

posca più economica era un mix di aceto e vino,

mentre quella di alta qualità veniva preparata

con miele e spezie come il coriandolo, che ne

mascherava il gusto amaro e acido.

Secondo alcuni storici quest'ultima aveva un

sapore simile alla cola, dolce, aspro e leggermente

acidulo.

LA DOLCEZZA DEL DEFRUTUM. 

L'aceto non era l'unico residuo del vino, prodotto

dall'industria vinicola romana.

C'era anche il mosto e altri avanzi che i romani

usavano per produrre un dolcificante a buon mercato

chiamato defrutum o sapa, a seconda della quantità

di mosto utilizzata. Ma - come scrive Cathy K.

Kaufman in Cooking in Ancient Civilizations - gli

stessi autori che ne riportavano la ricetta sui libri

non fossero quasi mai d'accordo sulle dosi esatte.

Ad ogni modo, quale che fosse il contenuto di mosto,

il defrutum era fondamentalmente una salsa

dolciastra a buon mercato che poteva essere

aggiunta ai pasti per dare loro sapore e calorie.

Certo, il miele era un dolcificante migliore, ma

era anche più costoso e prodotto solo in certe

regioni, mentre il vino veniva prodotto in quasi

tutti gli angoli dell'Impero.

Il che spiega perché il defrutum fosse più diffuso.

UNA QUESTIONE DI GUSTUM! Uno dei migliori

esempi del gusto romano per piatti che fossero

dolci e salati allo stesso tempo era il gustum

de praecoquis, un antipasto assai apprezzato

dalle famiglie patrizie. Viene descritto nel libro 

De Re Coquinaria di Marco Gavio Apicio. 

I cuochi lo preparavano portando a ebollizione

delle albicocche cui aggiungevano poi pepe

macinato e menta, salsa di pesce, vino passito,

vino e aceto, insieme a un po' di olio d'oliva.

Una volta che il liquido si riduceva a salsa, dopo

circa 20 minuti, il cuoco aggiungeva dell'altro

pepe e lo serviva. Questo piatto nasceva dolce

e avrebbe potuto facilmente essere servito come

dessert. Ma l'aggiunta di pepe, aceto e salsa di

pesce ne faceva una portata da servire prima d

el pasto principale. Anche ai tempi dei romani

gli chef sapevano essere creativi!

 
 
 

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