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Messaggi del 28/04/2021

Ritrovamento di un trilobite preistorico.

Post n°3394 pubblicato il 28 Aprile 2021 da blogtecaolivelli

Fonte: le libere risorse dell'Internet
L'occhio moderno di un trilobite di 429 milioni di anni

Il trilobite Aulacopleura kionickii.

La lunghezza reale dell'esemplare è di

circa un centimetro (© Brigitte Schoenemann) 

L'analisi in microscopia digitale di un

antichissimo trilobite ha scoperto che la

struttura dell'occhio di questo animale

era del tutto simile a quella che caratteriz-

za gli occhi composti dei crostacei e degli

insetti di oggi.

La struttura dell'occhio dei crostacei moderni

e degli insetti è rimasta sostanzialmente

invariata dal tempo in cui, fra 542 a 251

milioni di anni fa, gli antichi trilobiti, artropodi

marini oggi estinti, dominavano gli ecosistemi

marini dell'era paleozoica.

La scoperta dimostra l'importanza delle

indicazioni che si possono ricavare anche

dalle più lontane testimonianze fossili per

la comprensione e la ricostruzione

dell'evoluzione dei principi funzionali dei

sistemi sensoriali negli animali odierni.

La scoperta - realizzata da Brigitte Schoenemann

dell'Università di Colonia, in Germania, e

da Euan N. K. Clarkson, dell'Università di

Edimburgo, e descritta in un articolo pubblicato

su "Scientific Reports" - ha permesso anche

di definire con maggior precisione il tipo di

ambiente in cui vivevano i trilobiti.

La definizione delle strutture sensoriali

degli antichi animali, come quelle degli occhi

composti, è un'impresa molto ardua, e si è

a lungo pensato che fosse molto improbabile

che i tessuti molli - e a maggior ragione le

singole cellule recettoriali - potessero

conservarsi nei reperti fossili.

Perché ciò accada sono necessarie condizioni

ambientali molto particolari: per esempio, la

carcassa dell'animale deve  restare sepolta in

condizioni anossiche (ossia in assenza di ossigeno)

e devono essere quasi assenti anche i batteri;

inoltre, per trovare traccia degli elementi cellulari,

le particelle dei sedimenti circostanti devono

essere di dimensioni inferiori a quelle delle

cellule stesse.

Il trilobite esaminato dai due ricercatori, risalente

a 429 milioni di anni fa, ha trovato proprio

queste condizioni in una formazione geologica

situata nei pressi della cittadina di Lodenice,

nella Repubblica Ceca.

L'esemplare studiato, appartente alla specie 

Aulacopleura koninckii, - un minuscolo trilobite

dello spessore non superiore ai due millimetri -

era in ottimo stato di conservazione, con

un'unica eccezione: uno dei due occhi era spezzato

a metà, una circostanza che ha permesso un

accurato esame del suo interno con sofisticate

tecniche di microscopia digitale, senza danneggiare

il reperto.

L'occhio sinistro, integro, di A. kionickii

 (© Brigitte Schoenemann)Gli autori hanno

osservato una serie di strutture interne simili

a quelle degli occhi composti di molti insetti

e crostacei moderni, tra cui le loro unità visive

note come ommatidi (che misurano 35

micrometri di diametro), che contengono cellule

fotosensibili raggruppate attorno a una

struttura tubolare trasparente, il rabdoma.

Ciascuna di queste unità visive è circondata

da un anello scuro, probabilmente composto

da cellule pigmentate, che le isola una dall'altra,

ed è sormontata da una sorta di lente a cono

che agiva da cristallino.

Questa struttura è di particolare interesse

perché in un esemplare di trilobite ancora

più antico (circa 500 milioni di anni fa) esaminato

nel 2017 dagli stessi ricercatori, non vi era traccia.

Le piccole dimensioni delle unità visive

di A. koninckii indicano che viveva in acque limpide

e poco profonde ed era probabilmente attivo

durante il giorno, poiché i cristallini di diametro

così piccolo sono efficienti solo in condizioni di

buona luminosità.

La presenza di barriere di cellule pigmentate

tra le unità visive suggerisce infine che il

trilobite avesse una visione a mosaico:

ciascuna unità visiva contribuiva a una piccola

porzione dell'immagine complessiva. (red)

 
 
 

Le ultime novità della genetica.

Post n°3393 pubblicato il 28 Aprile 2021 da blogtecaolivelli

Fonte: le libere risorse dell'Internet

La straordinaria ricchezza

genetica degli italiani affonda

le proprie radici al termine

dell'ultima glaciazione.

Superato il periodo di massima espansione dei

ghiacci, a partire da circa 19.000 anni fa, inizia

a delinearsi il quadro di sorprendente

eterogeneità genetica degli abitanti della penisola

italiana.

È la prima volta che un gruppo di scienziati riesce

a ricostruire la storia genetica degli italiani

spingendosi così indietro nel tempo

È noto che gli italiani sono il popolo con la

maggiore ricchezza genetica d'Europa: il gradiente

di variabilità del loro patrimonio genetico, che si

distribuisce da un estremo all'altro della penisola,

racchiude su piccola scala la stessa diversità

genetica che differenzia i popoli dell'Europa

Meridionale da quelli dell'Europa Continentale.

Una straordinaria eterogeneità che ha iniziato a

delinearsi già dopo il periodo di massima

espansione dell'ultima glaciazione, conclusosi

circa 19.000 anni fa.
 
A riferirlo è uno studio coordinato da ricercatori

dell'Università di Bologna e pubblicato sulla rivista

BMC Biology.

È la prima volta che un gruppo di scienziati riesce

a ricostruire la storia genetica degli italiani spingendosi

così indietro nel tempo.

E i risultati hanno fatto emergere anche alcune

peculiarità genetiche degli abitanti del Sud e del

Nord Italia, che si sono evolute in risposta a

differenti contesti ambientali.

Peculiarità che concorrono a ridurre la suscettibilità

a patologie come infiammazioni renali e tumori

della pelle da un lato, diabete e obesità dall'altro,

in alcuni casi favorendo anche la longevità.
 
"Studiare la storia evolutiva degli antenati degli

italiani ci aiuta a comprendere meglio quali sono

stati i processi demografici e di interazione con

l'ambiente che hanno modellato il mosaico di

ancestralità che osserviamo oggi nelle popolazioni

europee", spiega Marco Sazzini, professore di

Antropologia molecolare dell'Università di Bologna

e tra i coordinatori dello studio.

"Questa indagine ci fornisce inoltre informazioni

utili per comprendere le caratteristiche biologiche

della popolazione italiana attuale e le cause

profonde che contribuiscono ad influenzarne la salute

o la predisposizione a determinate patologie".
 
UN ESITO SORPRENDENTE

Per realizzare lo studio i ricercatori hanno sequenziato

l'intero genoma di quaranta individui, selezionati in

modo da rappresentare con una buona approssimazione

la variabilità biologica della popolazione italiana.

L'analisi ha permesso di individuare più di 17 milioni

di varianti genetiche.

Gli studiosi hanno quindi messo a confronto questi dati,

da un lato con le varianti genetiche già osservate in

altre 35 popolazioni europee e del bacino del

Mediterraneo, e dall'altro con quelle descritte dagli

studi condotti su quasi 600 reperti umani riconducibili

ad un arco temporale che si estende dal Paleolitico

Superiore (circa 40.000 anni fa) fino all'Età del Bronzo

(circa 4.000 anni fa).
 
Grazie all'elevato livello di risoluzione raggiunto

da questi confronti, è stato possibile per la prima

volta indagare la storia genetica degli italiani

fino ad epoche mai raggiunte in precedenza,

identificando tracce lasciate nel patrimonio genetico

italiano da eventi avvenuti dopo ultima glaciazione,

terminata circa 19.000 anni fa.
 
Si tratta di un risultato sorprendente.

La maggior parte degli studi condotti fino ad oggi

aveva infatti suggerito che gli eventi più antichi

di cui è rimasta una chiara traccia nel DNA degli

italiani fossero le migrazioni avvenute tra 7.000

e 4.000 anni fa, durante il Neolitico e l'Età del

Bronzo.

I risultati della nuova ricerca mostrano invece che

gli adattamenti biologici all'ambiente e le migrazioni

che hanno contribuito a porre le basi della

straordinaria eterogeneità genetica degli italiani sono

molto più antichi di quanto fino ad ora ipotizzato.
 
CAMBIAMENTI CLIMATICI E MIGRAZIONI POST-GLACIALI

Gli studiosi sono riusciti a ricostruire la storia

evolutiva di due gruppi posti agli estremi del

gradiente di variabilità genetica rilevato lungo

la penisola, cioè degli italiani originari delle regioni

del Sud e di quelli originari delle regioni del Nord,

stimando quando le piccole differenze osservabili

tra i loro patrimoni genetici hanno iniziato ad

essere evidenti.
 
"Le popolazioni antenate di questi due gruppi italiani

hanno mantenuto andamenti demografici pressoché

sovrapponibili a partire da oltre 30.000 anni fa e

per la restante parte del Paleolitico Superiore",

spiega Stefania Sarno ricercatrice dell'Università

di Bologna e co-prima autrice del lavoro.

"Una differenziazione significativa tra i loro pool genici

si può però osservare già dal periodo Tardoglaciale,

quindi diverse migliaia di anni prima delle grandi

migrazioni che hanno interessato l'Italia a partire

dal Neolitico".
 
L'ipotesi è che con l'aumento delle temperature e

la conseguente diminuzione dei ghiacciai presenti

nell'Italia settentrionale, alcuni gruppi che erano

sopravvissuti alla glaciazione in "aree rifugio"

dell'Italia centrale si siano spostati verso nord,

allontanandosi e isolandosi così progressivamente

dagli abitanti dell'Italia meridionale.
 
Il genoma degli abitanti dell'Italia settentrionale

mostra tracce di queste migrazioni post-glaciali.

Rispetto agli individui originari del Sud Italia,

gli italiani del Nord hanno infatti un'affinità genetica

maggiore con reperti associati ad antiche culture

europee come quella Magdaleniana e quella

Epigravettiana (datati rispettivamente tra 19.000

e 14.000 anni fa e tra 14.000 e 9.000 anni fa).

Nel pool genico degli Italiani del Nord si osserva

anche una maggiore presenza di componenti di

ancestralità ancora più antiche, come quelle

tipiche dei cacciatori-raccoglitori dell'Est Europa

che si suppone abbiano caratterizzato tutte le

popolazioni europee tra 36.000 e 26.000 anni fa,

e che si sono poi nuovamente diffuse

nell'Europa Occidentale tramite le migrazioni

dalle "aree rifugio" avvenute durante il periodo

Tardoglaciale.
 
Al contrario, nel DNA degli abitanti del Sud Italia

queste tracce legate a migrazioni post-glaciali

sembrano non essersi mantenute, a causa del notevole

rimodellamento del loro patrimonio genetico dovuto

ad eventi più recenti.

A testimoniarlo è la maggiore affinità genetica con

reperti neolitici dell'Anatolia e del Medio Oriente e

con reperti dell'Età del Bronzo rinvenuti nel Caucaso

Meridionale.

Questo perché l'Italia del Sud, a differenza delle

regioni settentrionali, ha rappresentato un punto

nevralgico delle rotte migratorie che prima hanno

diffuso l'agricoltura nel bacino del Mediterraneo

durante la transizione Neolitica e poi, durante

l'Età del Bronzo, hanno introdotto una componente

di ancestralità differente rispetto a quella associata

alle popolazioni delle steppe, che si è invece diffusa

nello stesso periodo in tutta l'Europa Continentale

e in Nord Italia.
 
ADATTAMENTI GENETICI: DIFFERENZE E PECULIARITÀ LUNGO LA PENISOLA

Dopo il periodo di massima espansione dell'ultima

glaciazione, a partire da circa 19.000 anni fa gli

antenati degli italiani del Nord e di quelli del Sud

hanno iniziato a sperimentare contesti ecologici e

ambientali sempre più diversi, che hanno via via

contribuito all'emergere di differenze e peculiarità

nel loro patrimonio genetico.
 
Le popolazioni che hanno ri-popolato l'Italia

settentrionale hanno continuato per millenni a

sopportare brusche variazioni climatiche e pressioni

ambientali simili a quelle dell'ultimo massimo

glaciale.

Una circostanza che ha portato all'evoluzione

di adattamenti biologici specifici.

Ad esempio, lo sviluppo di un metabolismo adatto

ad una dieta altamente calorica e ricca di grassi

animali, indispensabile per sopravvivere in un clima

rigido.

"Negli individui originari del Nord Italia abbiamo

individuato modificazioni a carico di reti di geni che

regolano la secrezione di insulina, la produzione

di calore corporeo e il metabolismo del tessuto

adiposo", spiega Paolo Garagnani docente di Patologia

generale dell'Università di Bologna.

"Questi adattamenti potrebbero rappresentare oggi

preziosi fattori protettivi nei confronti dello sviluppo

di patologie come il diabete e l'obesità".
 
Nello stesso periodo, le regioni del Centro e del Sud

Italia hanno visto invece instaurarsi un clima via via

più mite, che ha esposto le popolazioni a pressioni

ambientali diverse.

Nei genomi degli individui originari del Sud Italia

lo studio ha identificato ad esempio modificazioni

a carico di geni che codificano proteine presenti

sulle mucose dell'apparato respiratorio e gastro-

intestinale (chiamate mucine), il cui compito è

impedire l'ingresso dei patogeni nei tessuti.

"Questi adattamenti potrebbero essersi evoluti

per contrastare antichi microorganismi", afferma

Paolo Abondio dottorando dell'Università di Bologna

e co-primo autore del lavoro.

"Varianti di alcuni di questi geni sono state inoltre

associate ad una minore suscettibilità alla nefropatia

di Berger, la più comune patologia infiammatoria

che colpisce i reni e che presenta effettivamente

un'incidenza molto minore nel Sud Italia rispetto al

Nord".
 
Sempre guardano al genoma degli individui originari

dell'Italia meridionale, gli studiosi hanno evidenziato

anche altre caratteristiche peculiari.

Una di queste è relativa a modificazioni dei geni che

regolano la produzione di melanina, il pigmento

responsabile della colorazione della pelle, evolute

con ogni probabilità in risposta alle giornate di sole

frequenti e intense tipiche delle regioni mediterranee,

e che potrebbero contribuire ad una minore

predisposizione ai tumori della pelle degli italiani del

Sud. "Abbiamo inoltre notato che varianti di alcuni

di questi geni, così come di quelli responsabili di

altri adattamenti tipici degli Italiani del Sud e che

coinvolgono il metabolismo dell'acido arachidonico

e i fattori di trascrizione FoxO, da tempo sono

state associate ad una considerevole longevità",

spiega Claudio Franceschi professore emerito

dell'Università di Bologna.
 
I PROTAGONISTI DELLO STUDIO

La ricerca, coordinata dai docenti dell'Università

di Bologna Marco Sazzini, Claudio Franceschi e

Paolo Garagnani in collaborazione con Patrick

Descombes (Nestlé Research Center di Losanna,

Svizzera) e Massimo Delledonne (Università di

Verona), è stata pubblicata sulla rivista BMC Biology

con il titolo "Genomic history of the Italian population

recapitulates key evolutionary dynamics of both

Continental and Southern Europeans".
 
Per l'Università di Bologna hanno contribuito i

ricercatori del Dipartimento di Scienze Biologiche,

Geologiche e Ambientali (afferenti al Laboratorio di

Antropologia Molecolare e Centro di Biologia Genomica)

Marco Sazzini, Paolo Abondio, Stefania Sarno, che

hanno firmato il lavoro come primi autori, oltre a

Sara De Fanti, Claudia Ojeda-Granados, Cristina

Giuliani, Alessio Boattini e Davide Pettener; e

quelli del Dipartimento di Medicina Specialistica,

Diagnostica e Sperimentale Chiara Pirazzini,

Elena Marasco, Gastone Castellani, Claudio

Franceschi e Paolo Garagnani. Gli studiosi hanno

operato riuniti in un unico gruppo di ricerca

nell'ambito delle attività del Centro Interdipartimentale

"Alma Mater Research Institute on Global Challenges

and Climate Change".
 
Sempre per l'Università di Bologna ha collaborato

anche Donata Luiselli del Dipartimento di Beni Culturali.

Inoltre, hanno partecipato Guido Alberto Gnecchi

Ruscone del Max Planck Institute for the Science

of Human History di Jena (Germania), Massimo

Delledonne, Luciano Xumerle e Alberto Ferrarini

dell'Università di Verona e ricercatori del Nestlé

Research Center di Losanna (Svizzera), del

Policlinico di Milano, dell'Università degli Studi di

Firenze e dell'Università della Calabria.

 
 
 

Le leggi dell'universo.

Post n°3392 pubblicato il 28 Aprile 2021 da blogtecaolivelli

Fonte: dalle libere risorse dell'Internet

NOTIZIE SCIENTIFICHE

Ricerca per:


HOMESPAZIO E ASTRONOMIA

L'universo usa l'apprendimento

automatico per creare le proprie leggi?

11 Aprile 2021 Spazio e astronomia

Credito: ParallelVision, Pixabay, 6108201

L'universo, e dunque tutto ciò che ci

circonda, comprese le nostre vite, è

solo la rappresentazione di una simula-

zione di natura informatica?

È la domanda che molti scienziati si

stanno opponendo dopo che per diversi

anni questa ipotesi era stata relegata

solo alla fantascienza.

Un nuovo studio, scoperto da The Next

Web e pubblicato su arXiv, mostra che

non si tratta più di una tesi per realizzare

la sceneggiatura di qualche film fanta-

scientifico ma di una possibilità che potrebbe

essere reale. I

l nuovo studio, molto complesso e che si

estende su più di 80 pagine, è stato

realizzato da un team di fisici teorici che

lavorano con vari istituti tra cui anche

Microsoft.

Secondo i teorici che hanno realizzato

questo studio, l'intero universo potrebbe

essere considerato come un sistema di

apprendimento automatico delle leggi

evolutive.

L'apprendimento automatico è un algoritmo

che ha avuto enorme diffusione soprattutto

negli ultimi anni a seguito del miglioramento

tecnologico dell'hardware.

Questo algoritmo, che ha dato nuova linfa

all'intelligenza artificiale facendolo trovare

anche degli sbocchi utili e concreti, vede,

sostanzialmente, il computer "imparare"

da solo sulla base di grosse masse di dati

che gli vengono forniti.

Se le leggi che governano l'intero universo

sono guidate da un algoritmo di apprendimento

evolutivo, sostanzialmente l'universo può

essere considerato come un grosso computer

che, invece di esistere allo stato solido, come

i computer che conosciamo e che usiamo ogni

giorno, esiste in una sorta di dimensione

immateriale e si perpetua tramite le proprie

leggi.

Queste leggi vengono create dallo stesso

universo in essere e senza una supervisione,

in maniera simile ad una rete neurale di

tipo informatico che sostanzialmente

apprende senza la supervisione degli esseri

umani i quali si limitano a fornire alla stessa

rete i dati.

In questo modo l'universo stessosi evolve

e lo fa in maniera unidirezionale in quanto

quelle stesse leggi, oltre che "autodidattiche",

sono irreversibili.

"Ad esempio, quando vediamo strutture che

assomigliano ad architetture di apprendimento

profondo emergere in semplici sistemi autodidattici,

potremmo immaginare che l'architettura della

matrice operativa in cui il nostro universo

sviluppa delle leggi si è evoluta da un sistema

autodidatta che nasce dalle condizioni di partenza

più minime possibili?", riferiscono i ricercatori.

Secondo questo studio, dunque, la fisica

potrebbe essere rappresentata da un apparato

di leggi "in movimento" che possono evolvere

con il passare del tempo: la relatività, per esempio,

potrebbe aver avuto conseguenze sulla realtà

diverse 13,8 miliardi di anni fa, quando si è formato

lo stesso universo, rispetto ad oggi così come

potrebbe averne tra 100 trilioni di anni, sempre

rispetto ad oggi.

 
 
 

La composizione molecolare dei sistemi protoplanetari.

Post n°3391 pubblicato il 28 Aprile 2021 da blogtecaolivelli

Fonte: libere risorse dell'Internet

NOTIZIE SCIENTIFICHE

Ricerca per:


HOMESPAZIO E ASTRONOMIA

Quantità di molecole organiche in

sistemi protoplanetari possono

differire grandemente.

Un tempo si credeva che le molecole

organiche complesse fossero rare

nell'universo ma un un nuovo studio,

realizzato da un team guidato da Yao-Lun Yang,

membro dello Star and Planet Formation

Laboratory nel RIKEN Cluster for Pioneering

Research mostra ancora una volta che queste

molecole sono abbastanza comuni.

I ricercatori hanno infatti analizzato la composi-

zione chimica di 50 aree di formazione stellare

nella nube di Perseo, una regione fatta di gas

e di polvere che si trova a circa 980 anni luce

di distanza da noi, nella costellazione di Perseo.

I ricercatori hanno scoperto che le quantità

di molecole organiche complesse che contengono

i vari dischi protoplanetari intorno alle stelle

informazione nelle regioni che hanno analizzato

sono molto diverse, nonostante appartengano

alla stessa nube.

Ad esempio hanno scoperto grandi variazioni

nelle quantità di metanolo e di acetonitrile .

"Ciò implica che esiste un meccanismo di produ-

zione comune di queste due molecole, e

questo ci dà importanti suggerimenti su come

si formano nello spazio", spiega Yang.
Inoltre hanno scoperto che le quantità di

metilformiato e dimetil etere erano più alte,

rispetto al metanolo, nelle aree più dense.

Ciò, secondo gli scienziati, suggerisce che

c'è qualcosa in queste aree più dense che

ne fa alzare la quantità, altra informazione

molto interessante.

Hanno, infine, notato che dischi protoplanetari

più giovani e chimicamente più ricchi mostrano

composizioni abbastanza simili, sempre a

livello di molecole organiche, una cosa che fa

sorgere la domanda: i sistemi stellari simili

a quello solare hanno una chimica

relativamente uguale nelle prime fasi iniziali

della loro formazione?

 
 
 

La formazione dell'acqua nell'universo.

Post n°3390 pubblicato il 28 Aprile 2021 da blogtecaolivelli

Fonte: libere risorse dell'Internet

NOTIZIE SCIENTIFICHE.

Ricerca per:

HOMESPAZIO E ASTRONOMIA

Acqua nell'universo, nuovo studio conferma

che si forma su particelle di polvere

Un nuovo studio, condotto dall'astronomo

olandese Ewine van Dishoeck dell'Università

di Leida, Paesi Bassi, è stato pubblicato

sulla rivistaAstronomy & Astrophysics.

Si tratta di uno studio che riassume tutto

ciò che sappiamo per quanto riguarda la

presenza della formazione della quale

l'universo.

Lo studio utilizza i dati, tra gli altri, raccolti

dall'osservatorio spaziale Herschel.

Si tratta di un telescopio spaziale che è

stato lanciato dall'Agenzia Spaziale

Europea nel 2009 e che ha raccolto molti

dati nell'infrarosso, molti dei quali inerenti

proprio alla presenza dell'acqua

dell'universo.

In particolare in tal senso è stato lo

strumento HIFI a rilevarsi molto utile.

Questo strumento, noto anche come

"cacciatore di molecole", ha permesso,

nel corso degli anni, la pubblicazione di

diversi articoli scientifici incentrati sulla

ricerca e sulla presenza dell'acqua nello

spazio.

Uno nuovo studio reassume più o meno

tutti questi articoli e conferma che la gran

parte dell'acqua dell'universo si forma sotto

forma di ghiaccio su piccolissime particelle

di polvere nelle nuvole interstellari fredde

e tenui.

Quando queste nuvole collassano andando

a formare poi nuovi pianeti o nuove stelle,

l'acqua stessa viene preservata restando

ancorata alle particelle di polvere, crescendo

strato dopo strato.

Queste particelle sono poi i "mattoni "per la

formazione di nuovi pianeti che possono

contare sulla presenza dell'acqua.

Secondo Dishoeck, risulta affascinante

accorgersi che, nel momento in cui si beve un

bicchiere d'acqua, la maggior parte di

quell'acqua è stata prodotta più di 4,5 miliardi

di anni fa in quella nuvola che poi ha permesso

la formazione del nostro Sole e di tutti i

pianeti del sistema solare.

Verso la fine del 2021 dovrebbe essere lanciato

il telescopio spaziale James Webb da parte

della NASA.

Questo nuovo telescopio spaziale potrà contare

su uno strumento, denominato MIRI, che dovrebbe

fornire nuovi ed interessanti dati sulla presenza

dell'acqua nell'universo.

Lo strumento, infatti, potrà rilevare anche il

vapore acqueo più caldo presente nelle zone

più interne di dischi di polvere.

Secondo uno degli autori dello studio, Michiel

Hogerheijde, dell'Università di Leida e di quella

di Amsterdam, il telescopio spaziale Herschel

aveva in passato già mostrato che qui dischi

che poi permettono la formazione dei pianeti

sono particolarmente ricchi di ghiaccio d'acqua.

Con questo nuovo strumento si potrà

confermare questa ipotesi osservando quelle

regioni in cui sono presenti nuvole di polvere

i dischi protoplanetari che formeranno poi

pianeti simili alla Terra.

 
 
 

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