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Messaggi di Marzo 2019

Č davvero l'impronta di uno degli ultimi Neanderthal?

Post n°2058 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

21 febbraio 2019

È davvero l'impronta di uno degli ultimi Neanderthal?

Un'impronta fossilizzata risalente a 28.000 anni fa,

scoperta a Gibilterra in un'antica duna di sabbia,

potrebbe essere stata lasciata da uno degli ultimi

neanderthaliani rimasti.

Ma non tutti sono d'accordo con questa interpretazione,

che si inserisce nell'annoso dibattito sull'epoca esatta

in cui si estinsero i nostri arcaici cuginidi

Kate Wong / Scientific American

Neanderthalantropologiapaleontologia

I ricercatori hanno scoperto una serie di impronte

fossilizzate in un'antica duna di sabbia a Gibilterra,

il piccolo territorio britannico sulla punta sud occidentale

della penisola iberica. Una delle impronte, suggeriscono,

potrebbe essere quella di un Neanderthal.

Se hanno ragione, si tratta di un ritrovamento molto

significativo: è noto solo un altro sito di Neanderthal,

in Romania, con una serie di impronte di 62.000 anni fa.

Se, come riferito, l'impronta di Gibilterra fosse molto

più recente, potrebbe essere stata lasciata da uno degli

ultimi Neanderthal a camminare sulla Terra.

Ma altri esperti non sono altrettanto sicuri di questa

interpretazione. La scoperta si inserisce così nella

vecchia diatriba su quando l'Homo sapiens anatomicamente

moderno ha colonizzato l'Europa e quando si è estinto

l'arcaico Neanderthal.

L'analisi delle tracce ha rivelato nella duna cinque tipi

di impronte. Per identificare gli animali che le hanno

lasciate, Fernando Muñiz dell'Università di Siviglia, in

Spagna, e colleghi, ne hanno studiato le dimensioni e

le forme, confrontandole con altre tracce conservate e

correlandole con resti di animali fossilizzati trovati in

altri punti di Gibilterra.

È davvero l'impronta di uno degli ultimi Neanderthal?

Immagine in falsi colori dell'impronta (Cortesia Universdad de Sevilla)

Le tracce sembrano appartenere a vari tipi di mammiferi,

tra cui un elefante, un cervo e un leopardo.

Tuttavia, anche se mal conservata, una delle impronte ha

un aspetto decisamente umano: il calco rivela un piede

destro più largo nella parte anteriore che in quella posteriore

ed ha cinque dita allineate.

E le dimensioni suggeriscono che sia stata lasciata da

un giovane adolescente. Ma a quale specie umana apparteneva?

Le caratteristiche fisiche dell'impronta potevano essere

associate sia ai Neanderthal che agli esseri umani moderni:

impossibile decidere tra i due candidati in base alle

dimensioni e alla forma. Così, i ricercatori hanno guardato

all'età e alla posizione.

Usando una tecnica nota come luminescenza a stimolazione

ottica, che può determinare quando i granelli di sabbia sono

stati esposti alla luce solare per l'ultima volta, il team ha

datato le tracce a circa 28.000 anni fa.

In precedenza, sulla base di resti trovati altrove a Gibilterra,

i ricercatori - compresi alcuni membri del team dell'impronta -

avevano sostenuto che i Neanderthal erano vissuti nella regione

anche in quell'epoca tarda, sopravvivendo migliaia di anni più

a lungo che in qualsiasi altra parte dell'Eurasia. H. sapiens 

finì per soppiantare i Neanderthal e altri esseri umani

arcaici in tutto il mondo, ma la nostra specie sembra aver

raggiunto Gibilterra piuttosto tardi.

Considerando la forma dell'impronta e il fatto che risale

a un'epoca in cui i Neanderthal - ma non gli esseri umani

moderni - vivevano a Gibilterra, a lasciare l'orma fu quindi

probabilmente un Neanderthal, concludono Muniz e i suoi

colleghi, che riferiscono i loro risultati in un

 articolo in stampa su "Quaternary Science Reviews".

La loro tesi ha suscitato reazioni contrastanti da parte

degli esperti non coinvolti nel nuovo studio.

È davvero l'impronta di uno degli ultimi Neanderthal?

L'impronta nel luogo del ritrovamento (Cortesia Universdad de Sevilla)"

Le proporzioni dei piedi [di H. sapiens e Neanderthal] sono

più o meno le stesse, e questo rende davvero difficile capire

dal profilo di un'impronta se a calpestare quelle dune sabbiose

28.000 anni fa sia stato un uomo moderno o un Neanderthal",

osserva Jeremy DeSilva del Dartmouth College, esperto di piedi

umani fossili. Ma data l'età della traccia e dove è stata trovata,

l'ipotesi che sia stato un Neanderthal è "del tutto ragionevole",

dice.

Il paleoantropologo William Harcourt-Smith del Lehman College,

anch'egli specializzato nell'anatomia del piede, è più prudente.

"Per quanto ne sappiamo 28.000 anni fa è proprio l'epoca del

crepuscolo dei Neanderthal", dice.

E benché a Gibilterra non siano stati ancora trovati resti umani

moderni risalenti a quel periodo, questi erano ampiamente

presenti in altre parti d'Europa.

"È possibile che sia stato un Neanderthal a lasciare l'impronta,

ma onestamente, da un punto di vista anatomico, la scarsa

qualità dell'orma rende molto difficile dimostrarlo", dice.

Altri esperti sono restii a far dipendere l'attribuzione

dell'impronta dalla sua datazione. Thomas Higham,

dell'Università di Oxford, e colleghi, hanno datato un certo

numero di siti neanderthaliani e dei primi umani moderni in

tutta Europa. Cercando di determinare l'età dei resti archeologici

dei Neanderthal di Gibilterra, non sono riusciti a replicare le

date ottenute in precedeza per alcuni di quei materiali.

Inoltre, l'epoca dei resti di Neanderthal provenienti dal sud

della Spagna si è rivelata molto più antica di quanto

supposto inizialmente, suggerendo che la sopravvivenza

protratta dei Neanderthal nel sud della penisola iberica

in realtà sia un artefatto del metodo di datazione usato

Secondo il team di Higham, i Neanderthal sarebbero

invece scomparsi circa 39.000 anni fa.

È davvero l'impronta di uno degli ultimi Neanderthal?

Cranio di Neanderthal (a sinistra) a confronto con il

cranio di un essere umano anatomicamente moderno

(Science Photo Library / AGF)A complicare le cose,

nuovi dati suggeriscono che gli esseri umani moderni

potrebbero aver raggiunto la penisola iberica meridionale

prima di quanto si pensava.
In un articolo pubblicato all'inizio di questo mese su "

Nature Ecology and Evolution", Miguel Cortes-Sanchez,

dell'Università di Siviglia, e colleghi, riferiscono le loro

datazioni di un sito a Malaga, la grotta di Bajondillo,

i cui depositi archeologici coprono il periodo di

transizione Neanderthal-umani moderni.
I loro risultati suggeriscono che a Bajondillo l'uomo moderno

abbia sostituito i Neanderthal circa 43.000 anni fa. 

E se gli esseri umani moderni si trovavano nel sud della Spagna

già allora... beh, in linea d'aria Gibilterra è appena aun

centinato di chilometri da Malaga.
Tutto sommato, "sarei molto scettico sul fatto che in

questo caso [la datazione a 28.000 anni fa] dia peso

all'identificazione di un Neanderthal", dice Higham

dell'impronta di Gibilterra.
(L'originale di questo articolo è stato

 pubblicato su "Scientific American" il 15 febbraio 2019.

Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione

autorizzata, tutti i diritti riservati.

 
 
 

Antichi fantasmi umani nel DNA moderno

Post n°2057 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte:Le Scienze

11 febbraio 2019

Con l'aiuto di tecniche di apprendimento profondo,

i paleoantropologi hanno trovato prove di rami perduti

da tempo sul nostro albero genealogico, identificando

alcuni eventi potenziali di incroci e di ibridazioni tra

specie umane estinte e lontani antenati della nostra

speciedi Jordana Capelewicz/QuantaMagazine

L'apprendimento profondo potrebbe aiutare paleontologi

e genetisti a cercare fantasmi?

Quando gli esseri umani moderni migrarono per la prima

volta dall'Africa 70.000 anni fa, almeno due specie affini,

ormai estinte, li stavano già aspettando sul continente

eurasiatico. Erano i Neanderthal e i Denisoviani, esseri

umani arcaici che si sono incrociati con quei primi moderni,

lasciando frammenti del loro DNA nei genomi delle persone

di origine non africana.

Ma ci sono sempre più indizi di una storia ancora più contorta

e colorita: la scorsa estate, per esempio, un gruppo di ricercatori

ha riferito su "Nature" che un frammento osseo trovato in una

grotta siberiana apparteneva alla figlia di una donna Neanderthal

e di un uomo Denisoviano. La scoperta è la prima prova fossile

di un ibrido umano di prima generazione.

Neanderthal al Neanderthal Museum di Mettmann, in Germania.

(© Arco Images / AGF)Purtroppo, è molto raro trovare fossili del

genere (la nostra conoscenza dei Denisoviani, per esempio, si basa

sul DNA estratto da un osso di un dito). Molti altri accoppiamenti

ancestrali avrebbero potuto verificarsi facilmente, compresi quelli

che coinvolgono gruppi ibridi provenienti da incroci precedenti, che

però potrebbero essere praticamente invisibili quando se ne cercano

prove fisiche. Gli indizi della loro esistenza possono invece sopravvivere

nel DNA di alcune persone, ma in questo caso potrebbero essere più

sfuggenti delle tracce genetiche lasciate dai Neanderthal e dai Denisoviani.

I modelli statistici hanno aiutato gli scienziati a dedurre

l'esistenza di un paio di queste popolazioni anche in assenza

di dati fossili: secondo una ricerca pubblicata a fine 2013,

per esempio, modelli di variazione genetica negli esseri umani

antichi e moderni indicano che una popolazione umana sconosciuta

si è incrociata con i Denisoviani (o con i loro antenati).

Ma gli esperti ritengono che questi metodi trascurino

inevitabilmente molte cose.

Chi altri ha contribuito ai genomi di oggi? Che aspetto avevano

queste cosiddette popolazioni fantasma, dove vivevano e con

quale frequenza interagivano e si accoppiavano con altre specie

umane?

In un articolo pubblicato il mese scorso su "Nature Communications",

i ricercatori hanno mostrato il potenziale di tecniche di

apprendimento profondo per aiutare a colmare alcune lacune,

di cui gli esperti potrebbero non essere nemmeno a conoscenza.

Hanno usato l'apprendimento profondo per scandagliare le

prove dell'esistenza di un'altra popolazione fantasma: un antenato

umano sconosciuto in Eurasia, probabilmente un ibrido

Neanderthal-Denisoviani o un parente della linea denisoviana.

Il lavoro suggerisce che in futuro l'intelligenza artificiale potrà

servire in paleontologia non solo per identificare fantasmi

imprevisti, ma anche per scoprire le impronte molto sbiadite

dei processi evolutivi che hanno plasmato chi siamo diventati.

Alla ricerca di esili tracce
I metodi statistici attuali prevedono l'esame di quattro genomi

alla volta per individuarne i tratti comuni.

È un test di somiglianza, ma non necessariamente di antenati reali,

perché ci sono molti modi diversi di interpretare le piccole

quantità di miscela genetica che il test trova.

Per esempio, le analisi potrebbero suggerire che un europeo

moderno, ma non un africano moderno, condivide alcune caratteristiche

con il genoma dei Neanderthal.

Ma ciò non significa necessariamente che quei geni provengano

da incroci tra i Neanderthal e gli antenati degli europei.

Questi ultimi, per esempio, avrebbero potuto invece

incrociarsi con una popolazione diversa, strettamente

legata ai Neanderthal, non con i Neanderthal stessi.

Non lo sappiamo. In assenza di prove fisiche che indichino

quando, dove e come sarebbero vissute quelle antiche ipotetiche

fonti di variazione genetica, è difficile dire quale delle tante

possibili ascendenze sia la più probabile.

La tecnica, ha detto John Hawks, paleoantropologo all'Università

del Wisconsin a Madison, "è potente per la sua semplicità,

ma dal punto di vista della comprensione dell'evoluzione lascia

molti punti irrisolti".

Il nuovo metodo di apprendimento profondo è un tentativo

di fare un passo avanti, cercando di spiegare livelli di flusso genico

che sono troppo piccoli per i normali approcci statistici e offrendo

una gamma molto più vasta e complicata di modelli.

Attraverso l'addestramento, la rete neurale può imparare a

classificare vari modelli nei dati genomici, basandosi sulle storie

demografiche che hanno maggiori probabilità di averli originati,

ma senza che chiarire in che modo ha stabilito quelle connessioni.

Questo uso dell'apprendimento profondo può svelare "fantasmi"

di cui non si sospettava neppure l'esistenza.

Intanto, non c'è motivo di pensare che Neanderthal, Denisoviani

ed esseri umani moderni fossero le uniche tre popolazioni

sulla scena. Secondo Hawks, ce ne potevano benissimo essere

decine.

Jason Lewis, antropologo della Stony Brook University

a New York, condivide questa opinione.

"La nostra immaginazione è stata limitata dalla nostra attenzione

alle persone viventi o ai fossili che abbiamo trovato in Europa,

Africa e Asia occidentale", ha detto.

"Quello che le tecniche di apprendimento profondo possono fare,

in un modo peraltro strano, è riorientare le possibilità.

L'approccio non è più limitato dalla nostra immaginazione".

Il valore reale delle storie simulate
L'apprendimento profondo potrebbe sembrare una soluzione

improbabile ai problemi dei paleontologi, perché normalmente

il metodo richiede enormi quantità di dati per l'addestramento.

Prendete una delle sue applicazioni più comuni, la classificazione

di immagini. Quando gli esperti addestrano un modello a identificare,

per esempio, le immagini dei gatti, hanno migliaia di foto con cui

possono addestrarlo e sanno se funziona perché sanno come dovrebbe

essere un gatto.

Ma la scarsità di dati antropologici e paleontologici rilevanti disponibili

ha forzato i ricercatori che volevano usare l'apprendimento profondo

a fare i furbi, creando loro dei dati. "In un certo senso abbiamo giocato

sporco", ha detto Oscar Lao, ricercatore al National Center of Genomic

Analysis di Barcellona e uno degli autori dello studio.

"Potevamo usare una quantità infinita di dati per addestrare il motore di

apprendimento profondo per il semplice fatto che stavamo usando

simulazioni".

I ricercatori hanno generato decine di migliaia di storie evolutive

simulate, basate su diverse combinazioni di dettagli demografici:

numero di popolazioni umane ancestrali, loro dimensioni, quando

differivano l'una dall'altra, loro tassi di mescolanza e così via.

Da queste storie simulate, gli scienziati hanno generato un gran

numero di genomi simulati per le persone di oggi.

Hanno addestrato il loro algoritmo di apprendimento profondo

con questi genomi, in modo che imparasse quali tipi di modelli

evolutivi hanno maggiori probabilità di produrre determinati

modelli genetici.

gine la scritta "Xe" indica dove dovrebbe essere avvenuto l'incrocio

fra umani moderni e una popolazione "fantasma" secondo la

ricostruzione delle antiche migrazioni fatta dal sistema di intelligenza

artificiale. (Cortesia Mayukh Mondal, Jaume Bertranpetit, Oscar Lao)

Il gruppo ha quindi impostato l'intelligenza artificiale in modo che fosse

libera di dedurre le storie che meglio si adattano ai dati genomici reali.

Alla fine, il sistema ha concluso che all'ascendenza delle persone di

origine asiatica aveva contribuito anche un gruppo umano non identificato

in precedenza. Secondo quei modelli genetici, probabilmente quegli esseri

umani erano una popolazione distinta nata dall'incrocio di Denisoviani e

Neanderthal circa 300.000 anni fa oppure un gruppo che discendeva

dal lignaggio dei Denisoviani subito dopo.

Non è la prima volta che l'apprendimento profondo è stato usato

in questo modo. Una manciata di laboratori ha applicato metodi

simili per affrontare altri filoni delle indagini evolutive.

Un gruppo di ricerca, guidato da Andrew Kern dell'Università

dell'Oregon, ha usato un approccio basato sulla simulazione e sulle

tecniche di apprendimento automatico per cogliere le differenze

nei vari modelli evolutivi delle specie, esseri umani compresi. Kern

e colleghi hanno scoperto che la maggior parte degli adattamenti

favoriti dall'evoluzione non hanno bisogno dell'emergere di nuove

mutazioni benefiche nelle popolazioni, ma dell'espansione di varianti

genetiche già esistenti.

L'applicazione dell'apprendimento profondo "a queste nuove domande

- ha detto Kern - sta dando risultati entusiasmanti".

Dubbi e speranze
Naturalmente, ci vuole molta cautela. Innanzitutto, se la storia

evolutiva umana reale non fosse stata simile ai modelli simulati

su cui sono addestrati questi metodi di apprendimento profondo,

allora i risultati sarebbero errati. Questo è un problema che Kern

e altri hanno cercato di affrontare, ma resta ancora molto da fare

per fornire maggiori garanzie di accuratezza.

"Penso che l'intelligenza artificiale sia sopravvalutata nelle

applicazioni alla genomica", ha detto Joshua Akey, ecologo e biologo

evolutivo della Princeton University. L'apprendimento profondo

è uno strumento nuovo e fantastico, ma è solo un altro metodo.

Non risolverà tutti i misteri e le complessità dell'evoluzione umana".

Alcuni esperti sono ancora più scettici.

"Ritengo che la densità e la qualità dei dati non siano molto adatte

ad analisi che non siano ben ponderate e basate su un'intelligenza

non artificiale", ha scritto in una mail David Pilbeam, paleontologo

della Harvard University e del Peabody Museum.

Tuttavia, secondo altri paleontologi e genetisti, è un buon passo

avanti, qualcosa che potrebbe essere usato per fare previsioni su

possibili future scoperte fossili e su variazioni genetiche attese

che dovrebbero essersi verificate tra gli esseri umani migliaia di

anni fa. "Penso che l'apprendimento profondo darà davvero una

spinta alla genetica di popolazioni", ha detto Lao.

E potrebbe essere così anche per altri campi in cui disponiamo

di dati, ma non conosciamo il processo che li ha prodotti.

Nello stesso periodo in cui Kern e altri genetisti di popolazioni e

biologi evolutivi stavano sviluppando tecniche di intelligenza

artificiale basate sulla simulazione per affrontare le loro domande,

i fisici facevano lo stesso per capire come vagliare l'immensa mole

di dati prodotti dal Large Hadron Collider del CERN di Ginevra e

da altri acceleratori di particelle. Anche la ricerca geologica e i

metodi di previsione dei terremoti hanno iniziato a beneficiare

di questo tipo di approcci di apprendimento profondo.

"Dove porti, non lo so davvero. Vedremo", ha detto Nick

Patterson, biologo computazionale al Broad Institute del

Massachusetts Institute of Technology e della Harvard

University. "Ma è sempre bello considerare nuovi metodi.

Useremo tutto quello che possiamo se sembra essere buono

per rispondere alle domande a cui vogliamo rispondere."

---------------------------
(L'originale di questo articolo è stato 

pubblicato il 7 febbraio 2019 da QuantaMagazine.org,

una pubblicazione editoriale indipendente online promossa

dalla Fondazione Simons per migliorare la comprensione

pubblica della scienza. Traduzione ed editing a cura di

Le Scienze.Riproduzione autorizzata,

tutti i diritti riservati)

 
 
 

Quel segnale di materia oscura che non si riesce a replicare

Post n°2056 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

25 marzo 2019

I ricercatori dell'esperimento DAMA ai Laboratori del Gran

Sasso affermano da tempo di aver rilevato segnali di materia

oscura, la massa mancante del cosmo che scienziati in tutto

il mondo tentano di identificare.

Ma due esperimenti fotocopia di DAMA non sono stati in

grado di replicarne i risultatidi Davide Castelvecchi/Nature

materia oscurafisica delle particellePer più di due decenni, un

solo esperimento al mondo ha costantemente riferito di aver

rilevato un segnale di materia oscura, la massa mancante

dell'universo che i fisici cercano da tempo di identificare.

Ora, due esperimenti progettati per replicare i risultati

usando la stessa tecnologia di rilevazione hanno presentato

i loro primi dati. Una risposta definitiva rimane elusiva:

anche se i dati iniziali di un esperimento sembrano essere

compatibili con i risultati originali, i risultati dell'altro

rivelatore vanno in direzione opposta.

Ma gli scienziati dicono che grazie a questi esperimenti e

ad altri che, secondo i programmi, saranno presto attivi,

na risposta definitiva sulla natura del segnale misterioso è

ora a portata di mano.

Quel segnale di materia oscura che non si riesce a replicare

Il profilo della Via Lattea ripreso dalla Terra. (CC0 Public Domain)

"Non c'è davvero alcuna conclusione da trarre a questo punto,

se non il crescere della suspense", dice Juan Collar, fisico

dell'Università di Chicago, che ha lavorato a diversi esperimenti

sulla materia oscura. "Ma gli strumenti sembrano avere una

sensibilità sufficiente per dare al più presto risultati conclusivi",

afferma Collar.

Interazioni ordinarie
Le osservazioni di come ruotano le galassie e del fondo cosmico

a microonde - il "bagliore residuo" del big bang - suggeriscono

che la maggior parte della materia nell'universo è invisibile.

Questa materia "oscura" mostrerebbe la sua presenza quasi

esclusivamente tramite le interazioni gravitazionali con altri

oggetti, ma una serie di esperimenti ha cercato per decenni

di raccogliere i segni delle sue altre interazioni con la materia

ordinaria.

Dal 1998, il rilevatore sotterraneo DAMA presso il Laboratorio

nazionale del Gran Sasso dell'Istituto nazionale di fisica nucleare

e il suo successore DAMA/LIBRA hanno registrato una variazione

stagionale nei dati. Il rivelatore registra lampi di luce creati quando

le particelle collidono con i nuclei atomici in un cristallo di ioduro

di sodio altamente purificato.

Questi lampi potrebbero essere segnali di materia oscura o di

radiazione di fondo vagante - ma i fisici dell'esperimento affermano

che la variazione stagionale si verifica perché la Terra si muove

attraverso un alone di particelle di materia oscura che circonda

la Via Lattea, determinando uno schema ripetitivo.

Nel marzo 2018, la collaborazione DAMA ha presentato i primi

risultati del rivelatore dopo che è stato aggiornato nel 2010.

La firma della materia oscura sembrava essere ancora lì.

Nel corso degli anni, diversi esperimenti con varie tecniche

hanno prodotto risultati apparentemente in contraddizione

con DAMA. Ma COSINE-100 e ANAIS sono i primi progetti

attivi che mirano a testare le affermazioni di DAMA usando

gli stessi materiali, ed entrambi sono operativi da più di un anno.

ANAIS nel Laboratorio sotterraneo Canfranc nei Pirenei, in

Spagna, ha riferito i suoi primi risultati l'11 marzo.

Sulla base di 18 mesi di dati, i risultati sembrano essere in

disaccordo con quelli di DAMA. I dati di ANAIS mostrano

fluttuazioni, ma non sono le stesse del ciclo annuale di DAMA

, in cui i segnali raggiungono il picco all'inizio di giugno e il

minimo all'inizio di dicembre.

Vicini ma non del tutto
Un altro esperimento che usa ioduro di sodio chiamato

COSINE-100, sotto una montagna in Corea del Sud, ha svelato

un'analisi simile di a quella di ANAIS nel corso di conferenze

di questo mese. Anche questo rivelatore vede una fluttuazione

nei suoi dati. Tuttavia, "la nostra è un po' più vicina a quella

di DAMA", afferma Reina Maruyama, co-coordinatrice di

COSINE-100 e fisica della Yale University. (I risultati sia

di ANAIS sia di COSINE-100 sono ancora preliminari e

non sono stati ancora sottoposti a peer review).

Quel segnale di materia oscura che non si riesce a replicare

Un momento della preparazione del rivelatore DAMA/LIBRA

presso i Laboratori Nazionali del Gran Sasso. (Credit: DAMA-LIBRA

Collaboration/LNGS-INFN)L'analisi di ANAIS non ha "alcun impatto"

sui risultati di DAMA/LIBRA e dei suoi predecessori: i dati sono

già stati confermati in oltre 20 cicli annuali indipendenti, afferma

Rita Bernabei, fisica dell'Università di Roma Tor Vergata che ha

guidato a lungo la collaborazione DAMA.

Anche se un esperimento dovesse trovare prove forti contro il

risultato di DAMA/LIBRA, per molti rivelatori sarebbe utile

continuare a raccogliere dati per diversi anni, dice Collar:

"Quando un esperimento sta vedendo una cosa come questa e un

altro no, ci si chiede se qualcuno ha sbagliato".

I ricercatori concordano sul fatto che saranno necessari anni di

registrazione dei dati da più esperimenti per sistemare veramente

la questione. "Con qualche anno in più di dati, dovrebbero essere

in grado di fare una dichiarazione definitiva", spiega David Spergel,

il cosmologo che per primo nel 1986 ha previsto l'oscillazione

stagionale con due colleghi.

La portavoce di ANAIS Marisa Sarsa, che è anche una fisica

dell'Università di Saragozza, in Spagna, afferma che qualunque

sia l'esito finale, il suo esperimento dovrebbe aiutare a spiegare

che cosa ha causato il segnale stagionale al Gran Sasso.

"Ho il desiderio di capire DAMA/LIBRA - dice - non solo per

escludere il risultato".

(L'originale di questo articolo è stato 

pubblicato su "Nature" il 19 marzo 2019. Traduzione ed editing

a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata,

tutti i diritti riservati)

 
 
 

Nuovi neuroni crescono anche nel cervello adulto

Post n°2055 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

27 marzo 2019

Nuovi neuroni crescono anche nel cervello adulto

Uno studio appena pubblicato aggiunge altre prove alla

nascita di nuovi neuroni nel cervello umano adulto anche

in età avanzata, suggerendo che la perdita di questa capacità

possa essere un indicatore precoce della malattia di

Alzheimerdi Karen Weintraub/Scientific American

neuroscienzememoriadisturbi mentali

Se il centro della memoria del cervello umano potesse far

crescere nuove cellule, sarebbe in grado di aiutare le persone

a riprendersi dalla depressione e dal disturbo da stress

post traumatico (PTSD), ritardare l'insorgenza dell'Alzheimer,

approfondire la nostra comprensione dell'epilessia e offrire

nuove conoscenze sulla memoria e sull'apprendimento.

Altrimenti, beh, è solo un'altra cosa in cui le persone sono

diverse dai roditori e dagli uccelli.

Per decenni, gli scienziati hanno discusso sulla possibilità

della nascita di nuovi neuroni - chiamata neurogenesi -

in un'area del cervello responsabile dell'apprendimento, della

memoria e della regolazione dell'umore.

Un numero crescente di ricerche ha suggerito questa possibilità,

ma poi l'anno scorso 

un articolo su "Nature" aveva sollevato alcuni dubbi.

Nuovi neuroni crescono anche nel cervello adulto

Illustrazione di neuroni interconnessi (Science Photo Library RF/AGF)

Ora, un nuovo studio pubblicato nei giorni scorsi su "Nature Medicine"

, riporta l'equilibrio verso il sì. Alla luce di nuovi dati, "direi che c'è

una prova schiacciante della neurogenesi lungo tutta la vita negli

esseri umani", ha scritto in una e-mail Jonas Frisén, professore del

Karolinska Institute, in Svezia, che firma con altri 

un commento allo studio sull'ultimo numero della stessa rivista.

Non tutti sono rimasti convinti. Arturo Alvarez-Buylla era

l'autore senior dell'articolo di "Nature" dell'anno scorso che ha

messo in dubbio l'esistenza della neurogenesi.

Alvarez-Buylla, professore di neurochirurgia dell'Università

della California a San Francisco, dichiara di dubitare ancora

che dopo l'infanzia nell'ippocampo si sviluppino nuovi neuroni.

"Non penso che questo risolva tutto", dice.

"Ho studiato la neurogenesi adulta per tutta la vita.

Vorrei poter trovare negli esseri umani un posto dove avvenga

in modo convincente".

Alcuni ricercatori hanno pensato per decenni che i circuiti

cerebrali dei primati, esseri umani compresi, sarebbero rimasti

troppo sconvolti dalla crescita di un numero considerevole

di nuovi neuroni. Alvarez-Buylla ritiene che il dibattito

scientifico sull'esistenza della neurogenesi dovrebbe continuare.

"La conoscenza di base è fondamentale.

Il solo sapere se i neuroni adulti vengono sostituiti è un problema

fondamentale e affascinante", ha detto.

Le nuove tecnologie in grado di localizzare le cellule nel c

ervello vivente e misurare l'attività individuale delle cellule,

nessuna delle quali è stata utilizzata nello studio di "Nature

Medicine", potrebbero porre fine a qualsiasi domanda

ancora aperta.

Un certo numero di ricercatori ha elogiato il nuovo studio

come ponderato e condotto in modo attento.

È un "tour de force tecnico" e affronta le questioni sollevate

dall'articolo dell'anno scorso, afferma Michael Bonaguidi,

assistente professore alla Keck School of Medicine della

University of Southern California.

I ricercatori spagnoli hanno testato vari di metodi per

conservare il tessuto cerebrale prelevato da 58 persone appena

decedute, scoprendo che metodi di conservazione diversi

portavano a conclusioni differenti sul possibile sviluppo di

nuovi neuroni nel cervello adulto e in età avanzata.

Il tessuto cerebrale deve iniziare il processo di conservazione

entro poche ore dopo la morte e per preservarlo occorre

utilizzare specifiche sostanze chimiche, altrimenti le proteine

che identificano le cellule appena sviluppate andranno

distrutte, spiega Maria Llorens-Martin, autore senior dell'articolo.

Altri ricercatori hanno perso la presenza di queste cellule,

perché il loro tessuto cerebrale non era conservato

accuratamente, dice Llorens-Martin, neuroscienziato

dell'Università Autonoma di Madrid in Spagna.

Jenny Hsieh, professore all'Università del Texas di San

Antonio che non era coinvolta nella nuova ricerca, ha detto

che lo studio fornisce una lezione a tutti gli scienziati che

si affidano alla generosità delle donazioni cerebrali.

"Se e quando andiamo a osservare qualcosa postmortem

in un essere umano, dobbiamo essere molto attenti a questi

problemi tecnici".

Nuovi neuroni crescono anche nel cervello adulto

Localizzazione nell'ippocampo nel cervello umano

(Science Photo Library RF/AGF)Llorens-Martin ha detto

di aver iniziato a raccogliere e conservare con cura i campioni

di cervello nel 2010, quando si è resa conto che molti cervelli

conservati nelle banche del cervello non erano stati preservati

adeguatamente per quel tipo di ricerca.

Nel loro studio, lei e i suoi colleghi hanno esaminato il cervello

di persone che sono morte con la loro memoria intatta e quello

di persone decedute in diversi stadi della malattia di Alzheimer.

Hanno scoperto che il cervello delle persone con Alzheimer

mostrava pochi o nessun segno di nuovi neuroni nell'ippocampo,

con sempre meno segni via via che le persone erano avanti nella

progressione della malattia.

Questo suggerisce che la perdita di nuovi neuroni - se potesse

essere rilevata nel cervello vivente - sarebbe un indicatore

precoce dell'insorgenza dell'Alzheimer e che promuovere

nuova crescita neuronale potrebbe ritardare o prevenire

la malattia.

Rusty Gage, presidente del Salk Institute for Biological

Studies dove è anche neuroscienziato e docente, afferma

di essere rimasto colpito dall'attenzione ai dettagli dei ricercatori.

"Dal punto di vista metodologico, la ricerca fissa gli standard

per gli studi futuri", dice Gage, che non era coinvolto nella

nuova ricerca, ma nel 1998 era l'autore senior di un articolo

che ha trovato le prime prove della neurogenesi.

Gage dice che questo nuovo studio risponde alle questioni

sollevate dalla ricerca di Alvarez-Buylla.

"Dal mio punto di vista, questo mette a tacere quel contrattempo

che si è verificato", dice. "Questo articolo, in modo molto bello.

.. valuta sistematicamente tutti i problemi universalmente

considerati molto importanti."

La neurogenesi nell'ippocampo è importante, dice Gage, perché

le prove negli animali dimostrano che è essenziale per la separazione

dei pattern, "consentendo a un animale di distinguere tra due

eventi strettamente associati l'uno all'altro".

Negli esseri umani, aggiunge, l'incapacità di distinguere tra due

eventi simili potrebbe spiegare perché i pazienti con sindrome

da stress post traumatico continuano a rivivere le stesse

esperienze, anche se le circostanze sono cambiate.

Inoltre, molti deficit osservati nelle prime fasi del declino cognitivo

sono simili a quelli osservati negli animali la cui neurogenesi

è stata fermata, dice.

In animali sani, la neurogenesi promuove la capacità di recupero

in situazioni stressanti, dice Gage.

Anche i disturbi dell'umore, inclusa la depressione, sono stati collegati

alla neurogenesi.

Nuovi neuroni crescono anche nel cervello adulto

Microfotografia in fluorescenza di neuroni dell'ippocampo

(Science Photo Library RF/AGF)Hsieh afferma che la sua ricerca

sull'epilessia ha scoperto che i neuroni appena formati si

interconnettono in modo scorretto, interrompendo i circuiti

cerebrali e causando convulsioni e potenziali perdite di memoria.

Nei roditori con epilessia, i ricercatori prevengono le convulsioni

se impediscono la crescita anormale di nuovi neuroni, dice Hsieh,

il che le dà speranza che qualcosa di simile possa un giorno aiutare

i pazienti umani. L'epilessia aumenta il rischio di Alzheimer,

depressione e ansia in alcuni casi, dice.

"Quindi, è tutto collegato in qualche modo.

Crediamo che i nuovi neuroni svolgano un ruolo vitale nel

collegare tutti questi pezzi".

Nei topi e nei ratti, i ricercatori possono stimolare la crescita

di nuovi neuroni facendo in modo che i roditori facciano più

esercizio o fornendo loro ambienti più stimolanti dal punto

di vista cognitivo e sociale, dice Llorens-Martin.

"Questo non potrebbe essere applicato a stadi avanzati della

malattia di Alzheimer.

Ma se potessimo agire in fasi precedenti in cui la mobilità

non è ancora compromessa", dice," chissà, forse potremmo

rallentare o prevenire parte della perdita di plasticità del cervello".

(L'originale di questo articolo è stato 

pubblicato su "Scientific American" il 25 marzo 2019. 

Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione

autorizzata, tutti i diritti riservati.)

 
 
 

L'influenza culturale sui suoni delle lingue

Post n°2054 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

14 marzo 2019

L'influenza culturale sui suoni delle lingue


Antichi cambiamenti nella dieta - in particolare la diffusione

dell'agricoltura e di alimenti ben cotti - hanno influito sulla

diffusione nelle lingue di alcuni suoni consonantici, come

quelli delle consonanti "f" e "v"

linguaggioantropologiaI suoni presenti nelle lingue sono

stati in parte plasmati da cambiamenti nella biologia umana

indotti a loro volta da cambiamenti culturali, e in particolare

da modificazioni nella dieta.

E' la la conclusione a cui è giunto un gruppo internazionale

di linguisti e antropologi coordinati da Damian E. Blasi

dell'Università di Zurigo, che firmano un articolo 

pubblicato su "Science".

Secondo la teoria prevalente, le strutture fonatorie che

permettono il linguaggio umano si sarebbero formate in

coincidenza con l'emergere diHomo sapiens,

circa 300.000 anni fa, e sarebbero rimaste immutate da allora.

Questa ricostruzione non spiega però il fatto che i suoni

presenti nelle diverse lingue sono tutt'altro che uniformi.

Alcuni di essi si ritrovano pressoché in tutte le lingue,

come le vocali di base e consonanti come la "m", ma

svariate consonanti - come la "f" e "v" - pur essendo

molto diffuse nelle lingue moderne, lo sono molto meno

in altre lingue, e altre ancora, come i "click"

(ottenuti facendo schioccare la lingua contro il palato) sono

presenti solo in alcune etnie dell'Africa meridionale e orientale.

L'influenza culturale sui suoni delle lingue

L'uso di modelli biomeccanici ha mostrato come la produzione

di suoni come la "f" sia facilitato dall'assetto delle strutture

orofacciali che si sviluppo in seguito all'abitudine di consumare

cibi morbidi (a sinistra) rispetto a quello favorito da cibi più

duri e resistenti. (Cortesia Scott Moisik)Blasi e colleghi hanno

ripreso un'ipotesi avanzata nel 1985 dal linguista Charles F.

Hockett, che aveva osservato come le cosiddette consonanti

labiopalatali - come "f" e "v" - fossero molto più frequenti

nelle lingue di popolazioni che avevano accesso a una dieta

a base di cibi più morbidi.
Attraverso una serie di misurazioni delle strutture mascellari

e mandibolari di crani di varia epoca e origine geografica e di

simulazioni biomeccaniche di diverse strutture orofacciali

umane, i ricercatori hanno ora fornito una conferma di questa

ipotesi, ma individuando un meccanismo di modificazione

delle strutture fonatorie più complesso di quello originariamente

suggerito da Hockett.
Via via che i frutti della caccia e della raccolta riducevano la

loro presenza nella dieta, spiegano i ricercatori, e l'introduzione

della ceramica rendeva possibile cottura accurata dei cibi, la

forza da imprimere con il morso - e quindi la sua importanza

- diminuiva.
Un morso potente però aiuta a mantenere anche da adulti

una posizione sostanzialmente allineata dei denti superiori

e inferiori, quale quella che si presenta nei bambini.

Di fatto, la perdita dell'abitudine a dare morsi potenti per

incidere e strappare gli alimenti determina un leggero

avanzamento dei denti dell'arcata superiore rispetto a quelli

dell'arcata inferiore.

Questo facilita notevolmente l'emissione dei suoni labiopalatali,

che vengono prodotti sfiorando o toccando con il labbro

inferiore i denti superiori, e quindi la loro diffusione in

una lingua. (red)

 
 
 

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