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Messaggi del 16/04/2019

I tre gemelli di Nettuno...

Post n°2121 pubblicato il 16 Aprile 2019 da blogtecaolivelli

fonte: Le Scienze

Spazio: scoperti tre "gemelli" di Nettuno

22 23 Febbraio 2019HD 23472 B,

C e GJ 143 b sono i tre pianeti,

molto simili a Nettuno,

scoperto grazie a TESS.

Tre pianeti con una massa simile a Nettuno sono stati

scoperto dal telescopio spaziale TESS, il nuovo strumento

lanciato di recente dalla NASA. Si tratta di GJ 143 b, pianeta

di dimensioni doppie rispetto a Nettuno ed orbitante intorno

ad unastella di categoria K, di colore arancione collocata a 53

anni luce dal Sole.

Altri due pianeti hanno preso il nome di 

HD 23472 b e c, due oggetti molto simili e vicini, orbitanti ad

una distanza di 127 anni luce dalla nostra posizione.

Quelli appena scoperti risultano solo gli ultimi ritrovamenti

effettuati grazie al nuovo TESS, il Transiting Exoplanet Survey

Satellite, lanciato nell'aprile 2018, ed in grado di individuare nuovi

lontani corpi celesti, attraverso il transito di questi oggetti di

fronte alla loro stella.

La scoperta dei tre pianeti è stata, poi, confermata da una

serie di telescopi da Terra.

I tre pianeti "gemelli di Nettuno" si aggiungono ad un altro

interessante pianeta appena scoperto, questa volta orbitante

a 4.200 anni luce dalla Terra. Si tratta di HATS-70 b, oggetto

con una massa pari a 13 volte quella di Giove, un vero e

proprio gigante, probabilmente una stella fallita che in origine

non possedeva una massa sufficiente per innescare le reazioni

nucleari delle stelle.

 
 
 

Nella biosfera terrestre....

Post n°2120 pubblicato il 16 Aprile 2019 da blogtecaolivelli

fonte: Le Scienze

Terra: nelle profondità c'è più vita di quanto credevamo

La biosfera scoperta nelle

profondità del nostro pianeta

è incredibilmente varia e

abbondante.

I dati della scoperta.

La Terra è molto più viva di quanto si pensasse in precedenza.

A dimostrarlo è una ricerca dell'Osservatorio Deep Carbon,

realizzata da un team di esperti specializzati.

Dati alla mano, spiegano gli studiosi, la biosfera che "vive"

sotto ai nostri piedi si compone di 23 tonnellate di

microrganismi. 

Tutto ciò nonostante il caldo estremo, la luce, la scarsa

possibilità di nutrizione e l'intensa pressione.

Si tratta di un ambiente ancora in gran parte incontaminato

visto che l'esplorazione umana deve ancora sondare gran

parte del sottosuolo. Secondo l'Università del Tennessee a

Knoxville quella appena scoperta è nuova riserva di vita, 

così diffusa da superare quella presente in superficie.

Terra: nelle profondità c'è più vita di quanto credevamo

I dati saranno mostrati nel corso dell'annuale della 

American Geophysical Union e si basano sui campioni

prelevati da pozzi trivellati ad oltre cinque chilometri di

profondità.

Ma di cosa si compone questa vita sotterranea?

I risultati suggeriscono che il 70% dei batteri e archaea

terrestri esistono nel sottosuolo, inclusi gli Altiarchaeal

spinosi che vivono nelle sorgenti sulfuree e il Geogemma

barossii, un organismo unicellulare trovato poco lontano

dalle fonti idrotermali sul fondo del mare.

"La cosa più strana - dichiarano gli esperti - è che alcuni

organismi possono esistere per millenni.

Sono metabolicamente attivi ma in stasi, con meno energia

di quanto pensassimo possibile sostenere la vita. "

 
 
 

La vita su Marte....

Post n°2119 pubblicato il 16 Aprile 2019 da blogtecaolivelli

fonte: Le Scienze

Sono davvero tanti gli aspetti da tene conto per le missioni su Marte.

Dalla traiettoria da tenere alle caratteristiche del terreno fino

alle condizioni meteo, le missioni sul pianeta rosso devono

analizzare di un'infinità di elementi. 

Marte, infatti, nasconde una miriade di insidie che possono

mettere a repentaglio anche le più attrezzate missioni.

Per questo motivo un team di studiosi ha realizzato uno

studio approfondito sulle caratteristiche della superficie in

modo da rendere più efficiente ed agevole la ricerca della vita.

marte vita

Marte, individuata l'area dove ricercare la vita Fonte: ESA

Il bacino di Argyre è, ad esempio, uno dei più adatti per ospitare

 esseri viventi.

Sono davvero tanti gli elementi che fanno pensare alla presenza

degli ingredienti base per lo sviluppo di microrganismi in questa

particolare area. La presenza di depositi idrotermali, i pingo

(depositi di ghiaccio ricoperti dal terreno) tutti a distanza

ravvicinata, permetterebbe alla sonda di esaminarli in poco tempo.

La forma del bacino, inoltre, consentirebbe una discesa agevole

del veicolo.

Il bacino di Argyre, chiamato anche Argyre Planitia, è un ampio

cratere presente sulla superficie di Marte. Circondato da una serie

di alte catene montuose, ha una profondità di 5,2 chilometri e

deve la sua formazione ad un antichissimo impatto meteorico.

 
 
 

gigantesco buco coronale

Post n°2118 pubblicato il 16 Aprile 2019 da blogtecaolivelli

fonte: Le Scienze

Torna a farsi sentire il Sole con un  nuovo gigantesco buco coronale.

 Un enorme canyon di circa 700mila chilometri si è aperto sulla

 corona solare generando unosciame di particelle diretto

anche verso il nostro pianeta. Particelle cariche sono in viaggio

ad una velocità di 600 chilometri al secondo verso la ionosfera

terrestre con il 45% delle possibilità che si generino tempeste

magnetiche ai poli di classe G1, la più bassa nella giornata di

domani, martedì 24 ottobre.

buco coronale

Sole: nuovo gigantesco buco coronale, tempesta magnetica in arrivo

Le possibilità salgono all'80% il prossimo 25 ottobre, giorno in cui

la classe dovrebbe salire a G2.

Possibili interruzioni delle comunicazioni, al segnale Gps oltre alla

fornitura elettrica potrebbero registrarsi nelle regioni polari. 

La formazione gigantesca appare comunque di dimensioni notevolmente

minori rispetto albuco coronale che negli ultimi giorni di settembre

provocò aurore polari fino in centro Europa.

Un buco coronale si genera quando una zona dell'atmosfera solare

registra una diminuzione del campo magnetico permettendo ai gas di

liberarsi nello spazio. Il fenomeno appare dagli strumenti terrestri come

una sorta macchia scura sulla superficie del Sole.

 
 
 

Marte ha una coda magnetica:

Post n°2117 pubblicato il 16 Aprile 2019 da blogtecaolivelli

fonte: Le Scienze

Una coda magnetica è stata scoperta generarsi da Marte.

Si tratta di una formazione che a contatto con il vento

solare si attorciglia.

La scoperta è il frutto di una serie di ricerche della sonda

Maven della Nasa e conferma come anche ilpianeta più s

tudiato del Sistema Solare possa nascondere ancora delle

sorprese.

La "Mars Atmosphere and Volatile Evolution Mission" è

stata lanciata nel novembre del 2013 con lo scopo di analizzare

i dati e le caratteristiche di Marte, in particolare dell'atmosfera

e di come si sia dispersa nel corso del tempo, insieme all'acqua

, rendendo il pianeta rosso un luogo inospitale.

 La coda magneticaconsente, inoltre, all'atmosfera, già molto

debole, di sfuggire dal pianeta verso lo spazio.

marte coda magnetica

Marte ha una coda magnetica: la scoperta grazie alla sonda Maven

Si tratta di un fenomeno unico nel Sistema Solare, come

spiegato dagli esperti del Goddard Space Flight Center di

Greenbelt nel corso della conferenza organizzata dall'American

Astronomical Society's Division for Planetary Sciences.

Il pratica è come se Marte producesse una significativa quantità

di energia magnetica lasciandola dietro di sé mentre il vento solare

 ne influenza la forma. Quando si trova all'opposto rispetto alla

direzione del campo magnetico marziano, il vento solare si unisce

al campo magnetico del pianeta attraverso la  generando la strana

coda del pianeta.

 
 
 

Cratere di Darvasa:

Post n°2116 pubblicato il 16 Aprile 2019 da blogtecaolivelli

fonte:Le Scienze

Cratere di Darvasa: drone riprende le profondità

della 'Porta dell'Inferno'.

Il videoDrone si tuffa all'interno del Cratere di Darvasa,

in Turkmenistan. Ecco la "Porta dell'Inferno" ripresa da

vicino in un video di Alessandro Belgiojoso.

E' un video davvero spettacolare quello realizzato dal

fotografo italiano Alessandro Belgiojoso che ha ripreso,

grazie ad un drone, il cratere Darvasa, la cavità

perennemente incendiata e nota anche come anche come

la "Porta dell'Inferno".

Temperature fino a 1.000 gradi vengono registrate all'interno

della formazione, definita dai tanti turisti che l'hanno visitata

come una delle aree più suggestive al mondo.

Il cratere di Darvasa si trova nel deserto del Karakum, in

Turkmenistan ed è il frutto dell'attività estrattiva sovietica

degli anni Settanta.


Cratere di Darvasa: drone riprende le profondità della 'Porta dell'Inferno'. Il video
Foto: Tormod Sandtorv

Durante i lavori di scavo per l'estrazione di petrolio, in pratica,

la grotta si riempì improvvisamente di gas naturale proveniente

dal sottosuolo, con il rischio di avvelenare l'area circostante.

I geologi decisero, quindi, di incendiare il gas pensando che

le fiamme si sarebbero estinte in pochi giorni.

La sotanza, però, non ha mai smesso di fuoriuscire dalle

profondità della terra producendo un incendio attivo

perennemente da oltre quaranta anni. Da allora la "Porta

dell'inferno" è una meta turistica.

 
 
 

Grecia: scoperta una tomba intatta della civiltà micenea

Post n°2115 pubblicato il 16 Aprile 2019 da blogtecaolivelli

fonte: Le Scienze

Una tomba del quattordicesimo secolo avanti

Cristo è stata scoperta a Prosilio, inGrecia.

Si tratta di una struttura davvero imponente con

una superficie totale di 42 metri quadrati, la nona

più grande in assoluto.

Alla tomba si accedeva attraverso un lungo

corridoio scavato nella roccia per ben venti metri di lunghezza.

La scoperta è davvero importante per le condizioni

in cui la struttura è giunta ai giorni nostri.

La sepoltura, infatti, è una delle poche a non essere

stata oggetto di furti nel corso dei tanti secoli dall'edificazione

e conteneva, ancora oggi, i doni dati al defunto, posti

accanto al corpo.

Grecia: scoperta una tomba intatta della civiltà micenea

Grecia: scoperta una tomba intatta della civiltà micenea

Si tratta di una condizione eccezionale perché permette

agli esperti di ricostruire lemodalità di sepoltura dei micenei

e delle condizioni sociali dell'uomo, senza dubbio un personaggio

ricco. Nell'antichissima tomba micenea sono stati scoperti

diversi recipienti in argilla, alcune frecce, dei pettini e dei gioielli.

L'uomo aveva un'età compresa tra i quaranta ed i cinquanta anni

ed aveva costruito egli stesso la tomba per l'intera famiglia.

Il crollo del tetto ha impedito agli altri componenti del nucleo

familiare di essere seppelliti all'interno della tomba, ma ha protetto

gli oggetti contenuti.

 
 
 

Scoperto un pianeta immortale

Post n°2114 pubblicato il 16 Aprile 2019 da blogtecaolivelli

fonte: Le Scienze

 

Scoperto un pianeta immortale

Composto in gran parte di ferro e nichel,

orbita a distanza molto ravvicinata - più di

quanto si ritenesse possibile - attorno a

ciò che resta della stella originaria.

Si trova a 410 anni luce da noi, e alla sua

scoperta, descritta oggi su Science, hanno

preso parte anche due ricercatrici e un

ricercatore dell'Istituto Nazionale di Astrofisica

Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

astrofisica

È un frammento di pianeta sopravvissuto

alla morte della sua stella e contiene elevate

quantità di ferro e nichel. Lo ha scoperto -

in un disco di detriti formato dai pianeti distrutti

durante le ultime fasi di vita della loro stella -

un team internazionale di astronomi, guidato

dall'Università di Warwick (Regno Unito), del

quale fanno parte due ricercatrici e un ricercatore

dell'INAF di Napoli, Palermo e Torino.
 
Il planetesimo - così si chiamano questi corpi

rocciosi, in questo caso il residuo di un pianeta

più grande - è in parte sopravvissuto alla

catastrofe provocata dalla "morte" della sua

stella.

La stella in questione è oggi una nana bianca,

chiamata SDSS J122859.93 + 104032.9, a 410

anni luce da noi.

Stando agli indizi raccolti, il pianeta orbitava

in una regione esterna del suo sistema planetario.

È probabile che la distruzione del pianeta abbia

coinciso con le fasi iniziali del processo di

raffreddamento della nana bianca.

A rendere ancor più sorprendente la sua già

improbabile sopravvivenza è la sua orbita:

è più stretta di quanto si ritenesse possibile,

così vicina alla nana bianca da compiere una

rivoluzione ogni due ore. 

Gli astronomi calcolano che il diametro del

planetesimo debba essere di almeno un

chilometro, ma potrebbe anche raggiungere

alcune centinaia di chilometri, rendendolo

dunque paragonabile ai più grandi fra gli

asteroidi presenti nel nostro Sistema solare.
 
«Le nane bianche sono ciò che resta di stelle

come il nostro Sole una volta che hanno

esaurito tutto il loro combustibile e disperso

i loro strati esterni», spiega Melania Del Santo

dell'INAF IASF di Palermo. «Man mano che

invecchiano, le stelle di questo tipo diventano

giganti rosse, e crescendo spazzano via buona

parte del loro sistema planetario, lasciandosi 

ùalle spalle soltanto un nucleo denso: una nana

bianca, appunto.

Anche il Sole, in futuro, si espanderà fino

a raggiungere l'orbita della Terra, inglobando

Mercurio, Venere e probabilmente la stessa Terra.

Marte, invece, sopravvivrà, finendo però per

essere spostato verso l'esterno, insieme a

tutto ciò che gli sta oltre».
 
«In origine doveva trattarsi di una stella con

massa pari a circa due volte quella del nostro

Sole», aggiunge il primo autore dello studio,

Christopher Manser, dell'Università di Warwick,

«ma ora la massa della nana bianca si è ridotta

ad appena il 70 per cento di quella solare.

Al tempo stesso, è anche molto piccola -

grosso modo ha le dimensioni della Terra -

e questo la rende estremamente densa, come

del resto tutte le nane bianche.

La gravità di una nana bianca è così forte -

circa centomila volte quella della Terra -

che un normale asteroide, se dovesse passarle

troppo vicino, verrebbe squarciato dalle potenti

forze mareali».
 
«Il planetesimo che abbiamo scoperto orbita

nelle profondità della buca di potenziale

gravitazionale della nana bianca, vicinissimo

alla stella, molto al di là del limite oltre il quale

ci attendevamo che non ci fosse più alcunché.

L'unica spiegazione è che debba trattarsi di

un oggetto molto denso, oppure che ci sia una

forza interna che lo tiene insieme.

La nostra ipotesi è che sia composto in gran

parte di ferro e nichel», dice uno dei coautori

dello studio, Boris Gaensicke dell'Università

di Warwick.
 
Se fosse costituito soltanto da ferro il

planetesimo potrebbe sopravvivere dove si

trova ora, così come potrebbe riuscirci anche

se fosse solo molto ricco di ferro, purché una

forza interna contribuisca a tenerlo insieme -

una possibilità, questa, compatibile con

l'ipotesi che il planetesimo sia il frammento

piuttosto massiccio del nucleo di un pianeta

denudato di crosta e mantello per effetto

delle forze mareali esercitate dalla nana bianca.

«Se l'ipotesi è corretta», aggiunge Gaensicke,

«il pianeta originario dovrebbe avere un

diametro di almeno qualche centinaia di

chilometri e il pianeta originario essere molto

massiccio.

Infatti, solo questo tipo di pianeti si differenziano,

un po' come l'olio nell'acqua, con gli elementi più

pesanti che affondano fino a formare un nucleo

metallico.
 
Riportata oggi su Science, la scoperta è avvenuta

grazie a una tecnica di analisi spettroscopica: gli

scienziati hanno identificato la scia di gas lasciata

dal pianeta osservando lievi variazioni presenti

nella luce emessa dal sistema.

Mai prima d'ora un corpo solido in orbita attorno

a una nana bianca era stato scoperto in questo

modo.

Scoperto un pianeta immortale

Usando il Gran Telescopio Canarias di La Palma,

alle Canarie, gli scienziati stavano osservando il

disco di detriti in orbita attorno alla nana bianca,

prodotto dalla frantumazione di corpi rocciosi

composti da elementi come il ferro, il magnesio,

il silicio e l'ossigeno: i quattro "mattoncini" fondamentali

della Terra e della maggior parte dei corpi rocciosi.

Ma all'interno del disco hanno notato la presenza

di un anello di gas che fluiva da un corpo solido,

come la coda di una cometa.

Un gas che potrebbe essere generato dal corpo

stesso, o da polvere che evapora, man mano che

si scontra con detriti di piccole dimensioni presenti

nel disco.

 
«La tecnica utilizzata è innovativa e si basa sullo

studio delle variazioni di alcune righe di emissione

del calcio ionizzato nella regione rossa dello spettro»,

spiega Domitilla de Martino dell'INAF - Osservatorio

Astronomico di Capodimonte.

«È necessaria alta risoluzione spettrale e

temporale per questo scopo.

Infatti le variazioni osservate in intensità e in

velocità dei profili mostravano una periodicità di

appena 123 minuti, indice di un'orbita molto stretta.

Questa nuova tecnica è quindi molto promettente

per aumentare in modo significativo il numero di

sistemi di nane bianche con planetesimi.

Le conseguenze di questa scoperta possono

essere estremamente importanti per conoscere

le fasi finali dell'evoluzione dei sistemi planetari».
 
«Tempo 5 o 6 miliardi di anni e il Sistema solare

avrà una nana bianca al posto del Sole, e in

orbita attorno a essa ci saranno Marte, Giove,

Saturno, i pianeti più esterni, asteroidi e comete.

Simili sistemi planetari sono soggetti a forti

squilibri dinamici in cui le interazioni gravitazionali,

con i pianeti più grandi possono spingere i corpi

più piccoli su un'orbita che li avvicina alla nana

bianca, dove finiscono per venire distrutti dalla

sua enorme gravità», aggiunge Manser.
 
«Quello che abbiamo scoperto è il secondo

planetesimo solido mai trovato in orbita stretta

attorno a una nana bianca», conclude Roberto

Silvotti dell'INAF - Osservatorio Astrofisico di Torino.

«Quello precedente era stato individuato dal

telescopio spaziale Kepler (nella seconda parte

della sua missione, nota come K2) con il "metodo

dei transiti", un metodo ampiamente usato per

scoprire pianeti attorno a stelle simili al Sole.

Per vedere i transiti, però, occorre una configurazione

geometrica ben precisa: un allineamento perfetto

fra stella, oggetto in transito e noi osservatori.

E in effetti, in quel caso, i detriti che bloccavano

parte della luce stellare passavano proprio fra

noi osservatori e la stella.

La tecnica spettroscopica utilizzata nella nostra

ricerca è invece in grado di rilevare planetesimi i

n orbita stretta senza la necessità di un

allineamento specifico. Già conosciamo molti altri

sistemi con dischi di detriti assai simili a SDSS J122859.93

+ 104032.9. Studiandoli con la stessa tecnica,

sicuramente scopriremo altri planetesimi in orbita

attorno a nane bianche, che ci permetteranno di

conoscere sempre meglio le loro proprietà.

Conoscere le masse degli asteroidi o dei frammenti

planetari che si avvicinano a una nana bianca ci offre

indizi anche sui pianeti che orbitano più lontano ma che,

al momento, non abbiamo modo di rilevare».

 
 
 

I fatti dell'antichità...

Post n°2113 pubblicato il 16 Aprile 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

22 febbraio 2018

Una "valanga" di DNA antico chiarisce il popolamento dell'Europa

Una


Il più grande studio sul DNA antico finora realizzato,

condotto su 625 genomi, getta nuova luce sulla storia

del popolamento dell'Europa e testimonia gli enormi

progressi di questa branca della genetica, che in appena

otto anni è passata da un solo genoma sequenziato a un

totale di oltre 1300

archeologiagneticaantropologia

Due grandi migrazioni attraverso l'Europa e un significativo

rimescolamento fra le popolazioni autoctone di cacciatori

-raccoglitori e i primi gruppi di agricoltori giunti

sul continente sono state confermate da due studi archeologia

genetica appena pubblicati su "Nature".

Questi studi sono la più chiara espressione degli enormi

passi in avanti fatti negli ultimissimi anni nel campo

dell'analisi del DNA antico. In appena otto anni, infatti,

si è passati da un unico genoma antico sequenziato a oltre

1300, 625 dei quali proprio in occasione degli studi ora

pubblicati, che hanno visto impegnati più di cento archeologi

e genetisti cooordinati da David Reich, della Harvard Medical

School.

Una Ricostruzione di un antico Yamnaya. (Cortesia 
Manuel Rojo-Guerra/ Luis Pascual-Repiso)
Uno dei due studi ha dimostrato che circa 5300 anni fa le

culture di cacciatori-raccoglitori che vivevano in Europa

furono sostituite in molti luoghi da pastori nomadi, soprannominati

Yamnaya, arrivati dalle steppe dell'Asia centrale, a nord

del Mar Nero e del Caspio, e che riuscirono a espandersi

rapidamente sfruttando i cavalli e la nuova invenzione del carrello.

Era noto da tempo che alcune delle tecnologie utilizzate dai

Yamnaya si erano poi diffuse in Europa, ma l'analisi del DNA

antico ha dimostrato che che non fu solo un contagio culturale,

ma il frutto di una vera migrazione.

Il secondo articolo traccia invece la storia genomica dell'Europa

sud-orientale rivelando un'ulteriore migrazione, avvenuta in due fasi.

"L'evidenza archeologica mostra che quando i contadini si sono

diffusi per la prima volta nell' Europa settentrionale, si sono

fermati a una latitudine dove i loro raccolti non crescevano bene",

ha detto Reich. "Di conseguenza, la separazione tra agricoltori e

cacciatori-raccoglitori resistette per circa duemila anni".

Durante questo lungo periodo, per qualche dinamica sociale o

di potere le donne dei cacciatori-raccoglitori iniziarono a essere

integrate nelle comunità degli agricoltori. In seguito, la tendenza

si invertì e le donne contadine tendevano ad essere integrate in

comunità di cacciatori-raccoglitori.

Complessivamente, questi studi confermano sempre più l'opinione

dei paleoantropologi che fin dalla più remota antichità le popolazioni

umane si muovono e si mescolano in continuazione.

 
 
 

Le differenze tra l'antico e il moderno

Post n°2112 pubblicato il 16 Aprile 2019 da blogtecaolivelli

fonte: Le Scienze

Le differenze genetiche e cerebrali tra noi e i Neanderthal

Confrontando la forma dei crani dei Neanderthal e

quella degli umani moderni, una complessa ricerca

interdisciplinare è riuscita a risalire a differenze

genetiche che influiscono su due strutture cerebrali

che controllano in primo luogo il movimento ma che

potrebbero aver avuto un riflesso anche sull'evoluzione

del linguaggio(red)

Partendo dalla differenza di forma del cranio dei

Neanderthal e degli uomini moderni, un gruppo di

ricercatori è riuscito, grazie a una complessa ricerca

interdisciplinare, a risalire ad alcune possibili differenze

nello sviluppo cerebrale nelle due specie.

La ricerca, diretta dal paleoantropologo Philipp Gunz

del Max Planck Institut per l'antropologia evoluzionistica

a Lipsia, e dai genetisti Simon Fisher e Amanda Tilot del

Max Planck Institut per la psicolinguistica a Nijmegen,

nei Paesi Bassi, èpubblicata su "Current Biology".


Le differenze genetiche e cerebrali tra noi e i Neanderthal

Cranio fossile di Neandertal (a sinistra) e di un umano

moderno (a destra). (Philipp Gunz, CC BY-NC-ND 4.0 )

La forma del cranio degli umani moderni si caratterizza

per una particolare globosità, che si distingue non solo da

quella di tutti gli altri primati, ma anche di tutti gli altri ominidi,

Neanderthal compresi, la cui struttura del cranio è più allungata.

I ricercatori sospettano che questa differenza rispecchi

cambiamenti evolutivi nelle dimensioni del cervello e nelle

connessioni cerebrali.

Gunz e colleghi hanno scansionato con tomografia

computerizzata crani fossili di Neanderthal e crani di esseri

umani moderni, rilevando anche le impronte endocraniche

del cervello, per poi ricavare un indice che rispecchiava la

globosità del cranio nelle due specie.

I ricercatori hanno poi analizzato il genoma di circa 4500

umani moderni cercando di identificare i frammenti di DNA

di origine neanderthaliana che sono presenti in varia misura

in tutte le persone di ascendenza non africana.

Grazie alla quantità dei dati raccolti Gunz e colleghi sono

riusciti a mettere in relazione alcuni di questi frammenti,

localizzati sui cromosomi 1 e 18, proprio con la globosità

del cranio.

Le differenze genetiche e cerebrali tra noi e i NeanderthalImmagini tomografiche di un cranio fossile di Neandertal (a sinistra)

con la tipica impronta endocranica allungata (in rosso) e di

un umano moderno (a destra) dalla caratteristica forma

endocranica globulare (blu). (Philipp Gunz, CC BY-NC-ND 4.0 )

L'analisi dei segmenti di DNA identificati ha permesso di 

scoprire che due di questi influiscono sull'attività di altrettanti

geni a essi vicini, i geniUBR4 PHLPP1, già noti per avere

un ruolo in importanti aspetti dello sviluppo cerebrale.

In particolare, i due geni contribuiscono alla neurogenesi

(la generazione dei neuroni) e alla mielinizzazione dei neuroni,

cioè della guaina isolante che protegge gli assoni di alcuni neuroni.

I ricercatori hanno anche scoperto che la versione neanderthaliana

del segmento che influisce su UBR4 fa sì che questo sia leggermente

meno espresso nel putamen, mentre la versione neanderthaliana

attiva suPHLPP1 fa sì che sia leggermente sovraespresso

nel cervelletto.

"Entrambe queste regioni cerebrali - ha spiegato Gunz - ricevono

un input diretto dalla corteccia motoria e sono coinvolte nella

preparazione, nell'apprendimento e nella coordinazione senso-

motoria dei movimenti." Ma il putamen fa anche parte di una

rete di strutture cerebrali dette gangli della base che, ha proseguito

Gunz, "contribuiscono anche a diverse funzioni cognitive, come

la memoria, l'attenzione, la pianificazione, l'apprendimento delle

abilità e, potenzialmente, l'evoluzione del linguaggio e il linguaggio

stesso".
Secondo i ricercatori, questa scoperta può portare a sviluppare

ipotesi sulle differenze neuronali, e potenzialmente cognitive,

fra umani moderni e Neanderthal, ipotesi che potrebbero

essere testate sperimentalmente, ricorrendo per esempio a

campioni di tessuto neuronale umano coltivabile in laboratorio.

 
 
 

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