Creato da giuliosforza il 28/11/2008
Riflessione filosofico-poetico-musicale

Cerca in questo Blog

  Trova
 

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Ottobre 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
  1 2 3 4 5 6
7 8 9 10 11 12 13
14 15 16 17 18 19 20
21 22 23 24 25 26 27
28 29 30 31      
 
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 3
 

Ultime visite al Blog

CarmillaKgiuliosforzafamaggiore2gryllo73pino.poglianidiogene_svtPisciulittofrancesco_ceriniper_letteranorise1fantasma.ritrovatom12ps12patrizia112maxnegro
 

Ultimi commenti

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

 

« Inno alla VitaValéry e la danza. Ninna... »

Morte a Venezia. Cultura a Ciciliano. "Non andar mai oltre un bacio" (Pico della Mirandola

Post n°788 pubblicato il 26 Agosto 2014 da giuliosforza

Post 744

 

Rivisto con immenso piacere il film di Luchino Visconti Morte a Venezia,  un’opera tre le più riuscite del Maestro, ove le sue doti originarie di lussuoso e sensuale e sensuoso descrittore, mai morbosamente compiaciuto, di situazioni psicologicamente ardue e complesse,  si rivelano in tutta la loro raffinatezza, sia che tratti di temi come   la natura educativa dell’arte sia di quello assai delicato dell’innamoramento,  mai travalicante i limiti  della pura sfera platonica, di un artista per un efebo. La contaminazione poi tra Morte a Venezia  e Doctor Faustus è così ben riuscita da far venire la voglia di rileggere i due capolavori manniani quasi in sinopsi, per godere l’effetto di un’iperiteratività, con pignoleria ricercata, che non risulta mai tediosa ma  esalta ed arricchisce via via di nuovi sensi il già detto. Mai come in questo caso repetita iuvant.

 

Mi interessai delle implicazioni educative dell’opera manniana in un convegno internazionale del 1989 intitolato “ I fratelli Mann a Palestrina”, i cui Atti uscirono in italiano ed in tedesco. Io fui invitato a riferire su un tema ritenuto a me consono, quello educativo. In realtà io, more meo solito, presi solo degli spunti dall’opera per poi divagare per mio conto per i miei sentieri privilegiati, Ne vennero fuori delle riflessioni che non dispiacquero e che ancora a me, nella rilettura, non dispiacciono. Per questo intenderei parteciparle, in tre o quattro puntate, ai miei cinque lettori, tra una narrazione e l’altra degli eventi cultural-musicali che hanno dato senso alle mie vacanze che né afe cittadine né temporali montani ed inverni anticipati son riusciti a rovinare. Una gran bella estate, finalmente imprevista ed imprevedibile, prova che v’ha ancora nell’universi qualcosa non soggetto alle leggi ferree della necessità ed ancora v’è posto per le impennate del santissimo Caso.

 

*

Ciciliano è un paese non distante da Roma sulla via empolitana, situato su uno dei cucuzzoli che guardano da est il monte Guadagnolo dei Prenestini e da Ovest i Monti Lucretili. Il piccolo centro storico si aggruma, a nido di vespa, attorno a ciò che resta della Rocca Teodoli ed il paese nuovo via via discende, più o meno disordinatamente, verso la valle che Pisoniano, Cerreto, Gerano, e più in lontananza ed in alto san Vito Romano (nei primi anni postbellici rinomato luogo di villeggiatura), Rocca Santo Stefano e Bellegra coronano, e che i resti dell’antica Trebula Suffenas arricchiscono (la villa dell’attore Manni quasi tutta se ne struttura).

Ciciliano è un luogo che ha molto spazio nella mia memoria. Cognomi come Cioffarelli e Pascucci furono famigliari alla mia infanzia di collegiale,  Marchetti e Lombardi lo furono alla mia maturità e lo sono  alla mia vecchiezza. Per non dire di un amore, nato tra le mura dell’università e finito sotto le mura di quella rocca.

Or sono circa venti anni, Ciciliano accolse più d’una delle nostre “Giornate Internazionali Itineranti di Studi e d’Arte”, ospitate da una amministrazione comunale illuminata che aveva in una splendida ventenne, Francesca Lombardi, il suo assessore alla cultura, quella stessa che ora, assai più splendidamente due volte ventenne, ritrovo nello stesso ruolo, di fresco rieletta. Assistita da un gruppo di giovani come lei illuminati, Francesca ha dato all’agosto cicilianese un carattere marcatamente culturale, redimendo e nobilitando, se non abolendo, le sagre mangerecce alle quali agosto è, in questi nostri benedetti colli, fatalmente destinato: ha aperto il mese con  Harry de Luca, l’ha concluso con un  giovane il cui nome fino a ieri a me non diceva nulla: Daniele Sanzone, napoletano di Scampia, laureato in filosofia alla Federico II, di professione musicista (è la voce del gruppo A67) e giornalista ed ora scrittore. Proprio per  presentare il suo libro egli è qui, nel suggestivo spazio all’aperto ricavato alla base della scalinata del Castello sub tegmine fagi, pardon alla la vasta ombra d’un platano: Camorra Sound. ‘O sistema nella canzone popolare napoletana tra giustificazioni, esaltazioni e condanna.

Che dire. Troppo presto per poter avanzare una obiettivo giudizio. Per ora posso solo prendere atto che convincente e brillante si è dimostrato l’oratore, che il suo libro (159 pagine, Magenes editore in Milano, recentissimo di stampa) si presenta con ottime credenziali (“ La domanda di Daniele è  potente, un confine oltre il quale cessano le innumerevoli giustificazioni del trauma storico di una capitale senza più la sua nazione. Perché i cantautori napoletani non hanno esplicitamente preso posizione contro la camorra”. Dalla prefazione di Marcello Ravveduto);  che contiene interviste a ‘O Zulù (99 Posse), Raiz (Almamegretta), Edoardo Bennato, Caparezza, Giancarlo De Cataldo. Teresa De Sio, Dario fo, Frankie hi-nrg mc.; che l’ho comprato con piacere e che più che al prof ecc., come nelle intenzione dell’Autore, fosse  dedicato A Giulio Sforza, nonostante l’Università di Roma, con affetto. Che, infine, sono ripartito soddisfatto, pur senza aver assaggiato le  prelibatezze contadine  del chiosco gastronomico.

Da Francesca attendo sempre più interessanti iniziative. E presto: ché non so quanto sia ancora il tempo a mia disposizione, prima che il buon Dio mi chiami alla presentazione  del suo libro sull’eternità e me lo dedichi con le parole “al mio Dio Giulio, con affetto infinito”.

 

*

Il paragrafo che segue è sconsigliato ai minori.

Ho sempre ritenuto il bacio l’unico, il sublime, il più intenso momento dell’atto d’amore. Il solo in cui una parte ha bisogno assoluto dell’altra, il solo in cui non è possibile evitare il contatto, e due parti nobili del corpo, che non siano gli orifizi escrementizi, si uniscono “esteticamente”; il solo che ha la sua pienezza in sé stesso, che ha negli atti susseguenti (i cui esiti orgasmici sono raggiungibili senza congiunzione carnale) una appendice possibile, ma non necessaria. Un gran giro per tessere le lodi della masturbazione? Non direi. Semplicemente una variazione intorno ad un nobile tema pichiano, quello trattato nella lunga citazione che qui appresso riporto.

Nel suo inserto culturale di domenica 24 agosto, il Sole 24 Ore reclamizza in prima pagina l’uscita, presso Einaudi, del volume “Giovanni Pico della Mirandola. Mito, magia, qabbalah” (pagg.CIV, 454, euro 80) a cura di Giulio Busi e Raphael Ebgi, e cita un brano dal “Commento ad una canzone d’amore”, dal titolo ‘Non andar mai oltre il bacio’ . Eccolo nella sua integralità.

«Qualche volta si dice l’anima essere separata dal corpo, ma non el corpo da lei; e questo è quando ciascuna delle potenze dell’anima, eccetto quella che ‘l corpo nutrisce, chiamata vegetativa, è ligata e non opera niente come se in tutto non fusse; il che,come è detto, accade quando la parte intellettuale, regina dell’anima, è in atto e opera, che per la sua dignità non compatisce in sé l’atto di alcuna altra potenza, eccetto quella della potenza nutritiva, le cui operazioni, per la grande distanza sua da lei, non sono dall’atto di quella del tutto annullate, benché grandemente debilitate. Ma se molto si fortifica e si prolunga l’operazione intellettuale, bisogna che eziandio con questa parte ultima vegetativa l’anima si separi talmente che e lei dal corpo e il corpo da lei sia separato.

Può dunque per la prima morte, che è separazione solo dell’anima dal corpo, e non per l’opposto, vedere lo amante l’amata Venere celeste e a faccia a faccia con lei, ragionando della divina immagine sua, e’ suoi purificati occhi felicemente pascere; ma chi più intrinsecamente ancora la vuole possedere, e, non contento del vederla e udirla. Essere degnato dei suoi intimi amplessi e anelanti baci, bisogna che per la seconda morte dal corpo per totale separazione si separi, e allora non solo vede e ode  la celeste Venere, ma con nodo indissolubile a lei s’abbraccia, e con baci l’uno in l’altro la propria anima trasfondendo, non tanto cambiano quelle. Quanto sì perfettamente insieme si uniscono, che ciascheduna di loro due anime e ambedue una sola anima chiamare si possono. E nota che la più perfetta e intima unione che possa l’amante avere della celeste amata si denota per la unione di bacio, perché ogni altro congresso o copula più in là usata nello amore corporale n on è licito per alcuno modo per traslazione alcuna usare in questo santo e sacratissimo amore; e perché e’ sapienti cabalisti  vogliono molti degli antichi padri in tale ratto d’intelletto essere morti, troverai appresso di loro essere morti di binsica, che in lingua nostra significa morte di bacio, il che dicono di Abraam, Isaac, Iacob, Moyse, Aaron, Maria, e di qualcun altro.

E chi il predetto nostro fondamento non intende,, mai la loro intenzione perfettamente intende; né più ne’ loro libri leggerai se non che binsica, cioè morte di bacio, è quando l’anima nel ratto intellettuale tanto alle cose separate si unisce, che dal corpo elevata in tutto l’abbandona; ma perché a simil morte tale nome convenga non è stato da altri, per quanto ho letto, insino ad ora esposto. Questo è quello che il divino nostro Salomone nella sua Cantica desiderando esclama: “Baciami coi baci della bocca tua”. Monstra nel primo verso Salomone la intenzione totale del libro e l’ultimo fine del suo amore; e questo Platone significa ne’ baci del suo Agatone e non quel che molti, riguardando in se stessi Platone, credono di lui; né più oltreche al bacio vedrai mai andare né Salomone né Platone né chiunque d’amore parlando del celeste ha ragionato”.

Pensatene quel che volete. Ma mi par Pico concordi con quanto io, ben più prosaicamente, ho scritto. E il Conte dalla memoria proverbiale era un giovanotto nel pieno delle sue forze (morì ad appena 31 anni nel 1494), quando così scriveva, non un vegliardo al quale ormai a risponder la matera è sorda.

 

_______________

 

Chàirete Dàimones!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
Vai alla Home Page del blog
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963