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Riflessioni varie

Post n°1206 pubblicato il 07 Settembre 2024 da giuliosforza

1097

   Appena riprecipitato nell'inferno romano, un guaio appresso all'altro. Non solo il mio nuovo cellulare non squilla o lo fa a piacimento, ma l'acqua dello sciacquone discende placida come un ruscello e non precipita ad uragano come sarebbe suo compito. Di più, ho passato tutta una notte a discutere con Goethe, adagiati (!) su una ferrea panchina del parco Talenti, sulla fallacia del suo Femminino Eterno, l''Ewigweibliche' che ' zieht uns hinan', ci trae all'alto, con cui si conclude il "Faust".

Che faccio, mi impicco?

Augusto Cara:

   Torna al Frainile 

Giuseppe Chiapponi:

   "Professo' me sa che era meglio se te stii agliu Juaru"!

Paul Robin:

   Caro Professore per le questioni filosofico esistenziali non saprei dire, ma per lo sciacquone basta dare un colpo secco al pulsante (se è una Geberit o similari)... Ma forse, ripensandoci, la soluzione all'acqua che scorre incessantemente può valere anche come riflessione filosofica... chissà 

Raffaele Napolitano:

   No vivi

Luciano Pranzetti:

   Lascia che lo sciacquone fluisca con calma e goditi Goethe.l

Roberto Maragliano:

   Per il cellulare, prova a spegnerlo, lascialo un po' riposare e poi riaccendilo. E' umano (o quasi) e ha bisogno di riposo. Risvegliandosi si aggiorna e forse squilla di più. Il caso dello sciacquone è all'opposto, l'hai fatto riposare troppo. Sollecitalo, come ti suggerisce Paul Robin. Quanto a Goethe, sapete voi che fare, e infatti lo fate egregiamente

Antonello Cerini:

   Goethe vincerà i fastidiosi disturbi della infuocata e orrida città , forza maestro! 

 Maria Salvi:

   Caro Giulio, i rientri a Roma sono sempre tragici, non funziona niente, l'anno scorso mi si è allagato il bagno... chissà quest'anno?!?!  Perché non sei rimasto ancora un po' al fresco della fonte Nocchia? Salutoni

Paola Margutti:

   Coraggio Maestro!!! Il ritorno crea sempre problemi…ma per un geniaccio come te… avranno paura !!!! Un abbraccio con tanto affetto!!! 

Francesca Romana Menichini:

   Direi di no! Per carità! Mi porrei,ancora e comunque, in attesa osservante . Né uscirà di certo fuori qualcosa di bellissimo ,come sempre . 

Paolo Statuti:

   No, leggi anche Aleksandr Blok sull'Eterno Femminino 

*

   Chiosa al dibattito notturno Goethe-Sforza al parco Talenti sul 'Femminino eterno', 'das Ewigweibliche,' che chiude il "Faust". Vinse, incredibile dictu, Sforza con la maschilista trapassatissima tesi dell''hinab.' Non 'hinan', in alto, trae , 'zieht uns', 'das 'Evigweibliche', ma 'hinab', in basso, ci trascina.

    Il Francofortese convenne sull'urgenza di una riscrittura del 'Faust'.

*

   E vai, Sforza! Che vuoi di più? Hai fatto ancora in tempo a iniziare, sdraiato sulla tua poltroncina di plastica traforata nell'angusto ma fresco terrazzino che dà sul Parco delle Tartarughe, nonostante il caldo assassino, la lettura del primo e unico romanzo di Elias Canetti (1936) che da sempre avresti voluto leggere, sempre rimandando, preso da più immediati interessi: "Auto da fé". Esulto come al mio primo libro. Mi sento il bambino protagonista Franz Metzger e il professor Kien insieme.

   Buon viaggio, fanciullo Giulio!

*

   A proposito di primo libro, ecco in breve la storia del mio.

   Era l’ottobre  del  1935/36, io avevo due tre anni, papà era appena partito ‘volontario’ per l’Africa, mamma aveva appena ‘liberamente’ donato il suo oro alla Patria e per mano a lei mi recavo al negozio dello zio Amedeo per ritirare i libri dei fratelli più grandi, e urlavo piangendo con  la mia bella voce argentina (quella che avrei conservato tutta la vita) lo voglio anch’io, lo voglio anch’io, e pestavo i piedi tanto da destare l’attenzione del “Maestro”, il maestro per antonomasia, il maestro unico per la scuola unica quale era stata anche al mio paesello quella elementare fino alla Riforma Gentile. Perché piange? chiese il Maestro a mamma. Perché dice di voler anche lui il libro, mamma rispose. Aspetta Savina, disse ‘il Maestro’, ci penso io. E dopo un poco si ripresentò sulla porta di casa (quella che ora è del Municipio, da qualche anno amministrato da una certa signora che alle grane dell’insegnamento, per scontare i suoi peccati ha voluto unire quelle dell’amministrazione, che in un borgo quale quello, ridotto una decina di mesi l’anno quasi  a città-fantasma, non son poche) con un bel Sillabario tra le mani sulla cui copertina campeggiava una magnifica Lupa romana nell’atto di allattare due ‘Figli della lupa’, come venivano detti i bimbi della prima età scolare. Ricordo i miei salti e le mie grida di gioia, strappai il sillabario dalle mani di mamma e lo tenni stretto fino al ritorno a casa. Purtroppo io che conservo tutto, fra i miei primi libri scolastici non ritrovo più quel Sillabario, che mi iniziò alla Conoscenza, anche se non a quella vera, non guidata, non incanalata, quella che fa, nonostante e contro la volontà degli indottrinatori, degli uomini liberi.   La mia innata brama di Conoscenza crebbe con gli anni, e ancora adesso mi divora. e una parte del merito, sarebbe immorale negarlo, va anche al sillabario della lupa che allatta i suoi figli. “List der Fernunft”, “Astuzia della Ragione”!  Con l’avanzare della vecchiezza non s’attenua, direi invece si vada accrescendo coi giorni (non oso più parlare di anni), tanto da corroborare in me l’ipotesi (popperianamente fallibilissima) che da anni vado maturando circa la possibile esistenza di una immortalità dell’anima personale, ipotesi (postulato, lo direbbe Kant) da Kant  collegata alla necessità che l’uomo avverte di dare un senso alla tensione morale che lo anima. Ecco, all’ansia di Conoscenza prima che alla tensione morale io amo collegare l’ipotetica esistenza della mia immortalità personale: non avrebbe senso la mia sete di Conoscenza se fosse destinata a spegnersi.

   Semplice postulato. Non certezza. Ma Aliud mihi scire  non datur. Se non per fede.

P. S.

   Se avessi incontrato il parroco, don Vincenzo, mi sarebbe stato regalato il …“Catechismo di Pio X”. Tanto passava il convento!    

________________  

 Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 


 
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Riletture,nostalgie adolescenziali,, Ronsard e Werther......

Post n°1205 pubblicato il 23 Agosto 2024 da giuliosforza

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   Procedo con la rilettura dei romantici tedeschi e ho ormai quasi esaurito la scorta estiva.

   Ho purtroppo dovuto trascurare il caro De Musset e i suoi colleghi romantici francesi, che peraltro in un clima meno torrido avevo rispolverato in parte l’anno passato, come due anni fa mi ero ridedicato a Voltaire e i suoi amici, amici si fa per dire, enciclopedisti.

   Rileggere in tardissima età gli autori con entusiasmo divorati, idealizzandoli, in giovinezza, fa uno stranissimo effetto. Il dis-incanto circa tutte le vicende della vita che è caratteristico della mia età coinvolge anche, direi soprattutto, le vicende letterarie: molti miti decadono, molti entusiasmi se non si spengono si attenuano, non ci si stempera più in lacrime per gli eroi e le eroine dei romanzi e delle raccolte poetiche. Insomma, crollano i monumenti e si fruga tra le macerie per cercare di salvare il salvabile. Quante delusioni, amici miei, quanti dèi scacciati dai loro olimpi, quanti re denudati, quanti monumenti spezzati, quanti santi abbattuti dai loro piedistalli e snidati  dalle loro nicchie. Quest’anno poi, la contemporanea lettura, una lettura dovuta, di Saramago, autore d’un provocatorio, anche stilistico, che più provocatorio non si può, e di invenzioni fantastiche d’un tale verismo da sconfinare nel nauseabondo e nell’osceno, ha di più avvelenato le pietanze e mi sono spesso levato dal desco con conati di vomito. Eppure, paradosso, ho goduto: osservare la mia carne flaccida, la mia pelle raggrinzita, le mie ossa intorpidite, il mio cervello che inizia a dar di volta, e nel contempo desantificati gli Humboldt e gli Schlegel, i Tieck, i Fichte, gli Schelling, gli Hegel, i Goethe,  gli Herder le Caroline  le Dorothee  gli Heine se non gli Hӧlderlin e i Novalis, vederli litigare, invidiarsi, calunniarsi, amarsi e tradirsi e sfottersi  dalle cattedre jenensi, sui giornali  e sulle varie riviste letterarie e filosofiche, mi ha dato il gusto sadico di godere delle loro sventure, in punizione delle delusioni, veri e propri tradimenti, che mi hanno procurato.

   La realtà è un’altra: più geni e più uomini nel contempo mi sono  apparsi: tanto più geni quanto più uomini.     

    

*

    Piangete genti e lacrimate forte, il Re dei Noci è condannato a morte.
   Lugete Nymphae, Dryades Satyrique, et quantum est hominun venustiorum, Nux mea mortua est... Nacque con la casa nel mio giardino, or sono quarantasei anni, mio quarantacinquesimo anno. Ora la maledizione biblica l'ha raggiunta né io sono un manzoniano fra Galdino per arrestarla. Ma io so chi è stato lo strumento della maledizione divina, ne so nome e cognome e farò vendetta. Per ogni foglia morta crepitante sotto le mie scarpe una maledizione satanica echeggerà per i colli e le valli intorno, e raggiungerà il reo, la rea, i rei, le ree, fin nelle porte dell'Ade, e gliele spalancherà. E voi, mie Foglie morte, verrà Yves Montand a cantarvi nella veglia funebre le sue 'Feuilles mortes'  

*

   Avevo appena finito di dire dei miei sentimenti per la morte del noce, quando mi sono imbattuto nella descrizione di ben altri sentimenti, quelli vissuti da Werther al ricordo dell’abbattimento dei noci attorno alla sua parrocchia. Ecco le sue parole (ivi, pp.231-233):

   Verrebbe voglia di fare un patto col demonio, Wilhelm, se si pensa alle canaglie che Dio tollera su questa terra, prive della minima sensibilità per quel poco che ha ancora valore in questo mondo. Tu conosci gli alberi di noce presso la casa del pastore sotto la cui ombra stavo seduto con Lotte, quei magnifici noci che, Dio lo sa, mi hanno sempre riempito l’animo della più intima felicità. Come rendevano familiare e raccolta la corte della canonica, e come erano freschi e maestosi i loro rami! E poi il ricordo degli onesti parroci che li avevano piantati tanti anni prima. Il maestro di scuola ci aveva detto spesso il nome di uno di loro, sentito da suo nonno, una gran persona per bene, e la sua memoria mi è sempre stata cara, là sotto quegli alberi. Ecco, ti dico, al maestro di scuola scendevano le lacrime dagli occhi, quando ieri ci ha raccontato che quegli alberi sono stati abbattuti. - Abbattuti! Mi pare di impazzire, sarei tentato di ammazzare quel cane che ha dato il primo colpo di scure. Io che, ne sono certo, potrei impazzire di dolore se avessi nel mio cortile due alberi come questi e se uno morisse per vecchiaia, io, io dovevo vedere una cosa simile, Ma una cosa almeno rimane, mio carissimo! Rimane ciò che si chiama sentimento umano! Tutto il paese ne parla e spero che la moglie del parroco capirà dal burro, dalle uova, e dagli altri doni che le verranno meno, capirà la ferita che ha inferto a questo posto. Perché è stata lei, la moglie del nuovo parroco, anche il buon vecchio è morto, una bestia rinsecchita e malaticcia che ha tanti buoni motivi per non occuparsi del mondo, perché nessuno si occupa di lei. Una stupida, che si dà delle arie da erudita, che mette becco nella interpretazione dei testi canonici, che anzi si dà un gran daffare per la riforma clerico-morale del cristianesimo secondo l’ultimo grido della moda, e che assume atteggiamenti di sufficienza di fronte a quelle che chiama le fantasticherie di Lavater; che ha una salute molto rovinata e per questo non può provare nessun piacere a stare sulla terra di nostro Signore. Solo un tipo così poteva abbattere i miei noci. Vedi, non riesco a farmene una ragione. Ma pensa un po’, le foglie cadute dall’albero le facevano sporcizia e umidità nel cortile; gli alberi gli toglievano la luce del giorno, e poi, quando le noci erano mature, i ragazzi le prendevano a sassate, e questo le dava ai nervi e la disturbava nelle sue profonde meditazioni, mentre stava comparando Kennikot, Semler e Michaelis. Vedendo poi la gente del villaggio così contenta, e specialmente i vecchi, ho provato a chieder: ma perché mai avete permesso una cosa del genere? – Se lo vuole il sindaco, risposero, che possiamo fare noi qui in campagna! Però una cosa almeno è andata per il verso giusto. Il sindaco e il pastore, anche lui voleva ricavar qualcosa dai grilli di sua moglie che certo non gli rendono più saporita la minestra, pensavano di spartirsi la legna, ma il Demanio, venuta a sapere la cosa, ha detto: qua la roba! E ha venduto gli alberi al miglior offerente, Ormai giacciono a terra! Oh, se fossi il principe! Li sistemerei io, i preti, il sindaco e anche la camera demaniale. – Sì, se fossi il principe! – Sì, ma se fossi principe, che cosa me ne importerebbe degli alberi del mio paese”.

   Che in una delle mie vite trascorse mi sia toccato di essere anche Werther? Ho incontrato Werther a braccetto di Ronsard, quello della lunga ode “contro i taglialegna della foresta di Gastine “, che però non è un invettiva ribollente d’odio come il brano di Werter, ma uno struggente compianto lirico-filosofico-monistico-panteistico per la distruzione di un’entità viva e palpitante della natura quale un bosco che le ninfe e gli dei inabitano ed animano del loro stesso respito. “Écoute, bûcheron, arrête un peu le bras / Ce ne sont pas des bois que tu jettes en bas. / Ne vois-tu pas sang lequel dégoutte à force /   des nymphes qui vivvaient dessous la dure écorce”. Così la strofa centrale dell’ode ronsardiana, più pacatamente romantica di quella dello sturmista dei Leiden. Ma in ambedue v’è spazio per lacrime amare che non sono ahimé liberatorie.

 *

   Ero in piena adolescenza, sedici anni compiuti, già da alcuni anni precocemente esiliato in terra allobroga, remotissima dalle mie ridenti regioni sabino-equo-marsicane, il mio animo si struggeva di nostalgia e trascorrevo i miei giorni e le mie notti a rimpiangere la mia pur sofferta fanciullezza, tutta trascorsa tra gli incubi e gli orrori della guerra. Tra le nostalgie più ricorrenti era quella della sorgente della Nocchia che all’epoca sgorgava ancora libera sotto due immensi pioppi ai piedi di quel ‘colle San Biagio’ che da millenni la alimenta. Un giorno che più acuta era la mia romantica Sehnsucht, durante una noiosissima lezione di filosofia tomistica, mi alienai e volai alla  ‘Nocchia’ su una decina di tetrastici di cui amo trascrivere gli ultimi cinque, mentre solitario me ne sto seduto presso l’attuale fonte rusticamente incanalata a rileggere i Leiden des jungen Werthers e il Borgo festeggia, tra processioni, fuochi d’artificio e  marcette di una volenterosa banda velletrana, la sua Patrona Maria Santissima dal bel titolo di ‘Illuminata’,  titolo che sacrilegamente, voltairianamente, un giorno osai trasformare in ‘illuminista’: oltraggio  che non mi sarà mai perdonato. Ecco le cinque ingenue, pateticamente cospicue, quartine:

   “ ………

   “O Fonte della Nocchia che ristori / le forze e dai dolcezza blanda al cuore / quant’era bello il tempo in cui alle aurore / non susseguiva il tramontar del sol! /

    Quando il sereno rimaneva terso / per tutto il giorno, quando alla mattina / non si scorgeva ancor troppo vicina / la tetra notte con i suoi terror!

………

   Dimmelo fonte, dimmi, sai il segreto / per rimanere sempre bimbi? Sai / quale è il segreto per non morir mai? / Dimmelo, se lo sai, dimmelo tu /

   che sgorghi sotto il pioppo sempre nuova, / nata dal monte ch’ora mi ridesta, / come una volta nei bei dì di festa, / il desiderio di salire su /

   con la brigata spensierata a cogliere / tra i folti rovi nido delle serpi / nude le gambe tra

i pungenti sterpi / il dolce frutto che non gusto più”.

  

________________  

 

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
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'André Chénier', Illica e Carducci, 'Chénier' alla Malpensa, "Amleto" '63...

Post n°1204 pubblicato il 28 Luglio 2024 da giuliosforza

 

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   Chi fra noi non ha scritto nella sua adolescenza melanconici versi dal sentore di morte? Per quel che mi riguarda esiste un sonetto, tra la produzione di quell’epoca mia adolescenziale, che non ha naturalmente trovato posto nella vasta, troppo vasta, produzione successiva data alle stampe, che così si conclude: …m’avvio / verso la tetra morte , ed ho un sol dì. Anche Carducci (si licet parva …) a 15 anni aveva composto il suo bel Sonetto (Iuvenilia III XXXIV) stilisticamente impeccabile nel quale la vita è paragonata a una nave che affrontando onde ora calme ora tempestose, s’avvia “alla scogliera bianca della morte”. Chissà se il bravo librettista Illica, che alla fine del terzo atto dell’Andrea Chénier di Umberto Giordano (che mi sono rigoduto stamane come non mai e che non ha nulla da invidiare al miglior Puccini), mettendo nel famoso assolo in bocca al poeta condannato alla ghigliottina quasi alla lettera tutti versi del Maremmano, ebbe coscienza del plagio, che, se plagio fu, fu azzeccatissimo. Ma non mi risulta che Carducci, pur venutone, immagino, a conoscenza (nel 1896, prima rappresentazione, aveva 61 anni), se ne risentisse. Spero se ne compiacesse. Il poeta dunque davanti ai suoi giudici, pur essi future vittime della rivoluzione (il rivoluzionario sveglia il drago giustiziere che dorme il suo sonno nell’antro della storia e ne è spesso la prima vittima) canta:

   Si, fui soldato
e glorioso affrontato ho la morte
che, vile, qui mi vien data.
Fui letterato,
ho fatto di mia penna arma feroce
contro gli ipocriti!
Con la mia voce ho cantato la patria!
Passa la vita mia come una bianca vela:
essa inciela le antenne
al sole che le indora
e affonda la spumante prora
ne l'azzurro dell'onda ...
Va la mia nave spinta dalla sorte
a la scogliera bianca della morte?
Son giunto? Sia!
Ma a poppa io salgo
e una bandiera trionfale
sciolgo ai venti, e su vi è scritto: Patria!
A lei non sale il tuo fango!
Non sono un traditore.
Uccidi? Ma lasciami l'onor!

  Il quindicenne Carducci aveva scritto:

  Passa la nave mia, sola, tra il pianto

De gli alcïon, per l’acqua procellosa;
E la involge e la batte, e mai non posa,
De l’onde il tuon, de i folgori lo schianto.

Volgono al lido, omai perduto, in tanto
Le memorie la faccia lacrimosa;
E vinte le speranze in faticosa
Vista s’abbatton sovra il remo infranto.

Ma dritto su la poppa il genio mio
Guarda il cielo ed il mare, e canta forte
De’ venti e de le antenne al cigolío:

 Voghiam, voghiamo, o disperate scorte,
Al nubiloso porto de l’oblio,
A la scogliera bianca de la morte.

*

   J. S. Bach, Suite numero 6 in Re Maggiore per violoncello solo opera 1012. Epilogo de Le intermittenze della morte di Saramago. La Musica nel violoncellista vince la morte. Epilogo degno di quello del Flauto magico.

*

   Rai 5.  

   Evento nefasto. "L'Elisir d'amore" approda alla Malpensa. Nemorino si fa aviatore. Poiché non sono amato io mi farò soldato” diventa “poiché non sono amato io mi farò aviere”, senza nemmanco uno straccio di rima. Ridicolo, esempio della ridicolaggine del tutto, del totale scempio scenografico. A morte dunque tutti, dallo scenografo al regista, al direttore Luisi che tutto sopporta, che non vede e non sente i cantanti, i quali a loro volta non sentono il direttore né si sentono a vicenda. Ho visto il fantasma di Gaetano sacrare nel gran casino aeroportuale, e con lui più di un protagonista. Non lo ripeterò mai abbastanza: la massa ha già la sua opera, i concerti sovraffollati dei cantatori che riempiono stadi e piazze. Lasciategliela tutta. Per favore. A noi pochi lasciateci la nostra, nella sua integralità. Altro non ci resta nel fracasso avanguardista che nessun tentativo di post o neoavanguardia ormai potrà redimere.

   Bon dieu de la France sauvez l'Italie car son dieu est en vacance!

*

   Era un giorno del 1963, anno per me cruciale: riprendevo, con una decisione terribilmente sofferta, in mano le redini del mio destino, decidendo di affrontare, solo con la mia fragile barca, i marosi di un mondo sconosciuto. Tremendo e grande 1963! L’Arte fu la pronuba delle mie nozze con una nuova vita, che furono anche rinascita, e da allora l’ebbi più di prima definitivamente  mia compagna fedele, madrina e pronuba. Fu Shakespeare il padrino del mio nuovo battesimo, con un Amleto allestito non ricordo se al Valle o all’Eliseo, con una appena diciannovenne Anna Maria Guarnieri-Ofelia  e un Gassmann-Amleto  già riconosciuto mattatore.

   Ho rivisto quell’Amleto in tv. Dire stesse emozioni è dir poco. Ad esse vanno sommate quelle di sessanta anni di vagabondari per un mondo sempre più nuovo e misterioso, tragicamente vivo e comicamente insensato, sempre più somigliante a quella “favola raccontata da un idiota e che non significa nulla”. Ma l’Arte è sempre qua, a dar esistenza e senso a ciò che senza di lei non sarebbe, l’Io, il Mondo, Dio . 

*

   “Les Romantiques Allemands" di Ricarda Huch filosofa e storica tedesca morta a 103 anni nel 1967. Versione francese di André Babelon. PANDORA/ESSAIS 1978, Volumi due-    Li rileggo dopo sessanta anni a spezzoni. Mi ritrovo ancora una volta a servire il caffè in un locale di Jena a tutti il cenacolari  jenensi-weimeriani e ad carpire incantato qualcosa dei  loro parlari, un tal Goethe moderatore. Semplicemente sublime. Dico parlari e non parole (come in Andreé Chénier pensari (pensers) e non pensieri (pensées): 'Sur des pensers nouveaux faisons des vers antiques'.

_____________  

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 
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Puccini e Verdi secondo Bistolfi

Post n°1200 pubblicato il 07 Luglio 2024 da giuliosforza

 

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 Ho conosciuto per caso in questi giorni, vagando inquieto wanderer per la Rete, un signore e studioso straordinario, di quelli che una volta in vita ti avviene, se sei fortunato, di incontrare. Si tratta di Luca Bistolfi, uno scrittore e un critico letterario e musicale non appigionato che scrive su varie testate e riviste, quelle che sono in grado di reggere la sua poliedrica cultura e le sue strepitose bordate. Io lo ho incontrato su Pangea, che si auto presenta come “Rivista avventuriera di cultura & idee”, fondata da Luca Alberto Lo Presti e diretta da Davide Brullo. Cercavo qualcosa di nuovo e diverso su Puccini nel suo centenario. E guardate un po’ che ti trovo? Leggete e stupite alla lettura di “Giacomo Puccini: sia lode al gigante della musica seria (ma la bibliografia è avvilente)”. La rivista è on line ed è gratuita.

   Io che in gioventù mi godetti gli stroncatori Papini Soffici Prezzolini Giuliotti ed altri in campo estetico-filosofico-letterario, ho goduto compiaciuto alla lettura di un lungo articolo del critico musicale Luca Bistolfi pubblicato sulla rivista on line di libera consultazione “Pangea. Rivista avventuriera di cultura e idee”. Lucidità, informazione, verve di tale genere non ci è dato più che rarissimamente incontrare in questi tempi di massificazione rimbecillente. Che poi le stroncature del pangeatico riguardino i denigratori di Puccini a vantaggio del Bussetano mi fa doppiamente piacere. Il Lucchese non ha niente, proprio niente da invidiargli, e tanto meno da dovergli. Altre arie egli respirò, frequentò altri lidi, quelli che spalancavano a Frau Musika e ai suoi devoti ben altri orizzonti. Diceva il vecchio Verdi del giovane Puccini, credendo gliene tornasse a disdoro, che era più un sinfonista che un melodista, e aggiungendo che un’opera lirica dove predomini l’armonia a scapito della melodia è come un monumento dalla grande base e dalla picciola statua. Immagine certo efficace ma inadeguata; lo stesso Verdi dall’Otello in poi se ne sarebbe accorto e faticò non poco per arrivare ad autosuperarsi e in qualche modo autonegarsi, che dio sia lodato, nel Fallstaff. Io che circa Verdi ho sempre quasi in tutto condiviso il giudizio irridente di Richard Strauss, e dai suoi cieli il grande Marzio Pieri me ne perdoni, Verdi, chi? Il musicista dello zumpapa zumpapa?, leggo con soddisfazione le bordate di Bistolfi contro certa critica musicale. I non verdiani andranno in sollucchero. Ma anche i verdiani ne usciranno, se non convertiti e meno inca, un poco, lo spero, illuminati.

   Nel suo lungo saggio Bistolfi parte da Virgilio Bernardoni e le sue riflessioni sul centenario puccininiano, e ne prende spunto per denunciare l’inadeguatezza, quando non la falsità e la malevolenza, della maggior parte della critica pucciniana, a partire da Massimo Mila, attraverso toscanini Alfano Berio e altri, per arrivare a Julian Budden e Dieter Schickling che salva dalla condanna videnziandone e lodandone i meriti e la sagacia. Ecco come presenta Schickling:

   "Quando nel 2008 su un quotidiano romano salutai l’arrivo dello Schickling, uscito per i centocinquant’anni della nascita e ad oggi il miglior libro in circolazione, chiudevo il contributo augurandomi di veder presto o tardi sorgere la monografia che rendesse giustizia al più grande operista italiano moderno. Sperai adesso di trovarla in Bernardoni. Ma a distanza d’oltre tre lustri debbo constatare ancora la presenza di lavori bensì volenterosi ma inutile fatica di praticoni e orecchianti. Sicché, oltre di leggervi lo Schickling, il mio consiglio è di farvi da voi il vostro Puccini, senza alcunché sperare da critici e storici. Qualche traccia adesso l’avete”.

 Buona lettura https://www.pangea.news/giacomo-puccini-centenario-morte/ 

 

*  

  Un sogno mai sognato   

  Uno stato totalitario politico-clericale non identificato bandisce un concorso senza tema per una carica non identificata. Partecipazione obbligatoria. Io cerco di esimermi fuggendo. Bloccato, son trascinato in manette alle segrete, come una volta si diceva. Obbligato a scrivere sotto lo sguardo minaccioso dei carcerieri scelgo il mio tema: All’inizio era il Non Senso, e il Senso era presso Dio, e il non Senso era Dio. Condannato al capestro per blasfemia e torturato, mi rifiuto di abiurare. Al momento dell’esecuzione un dardo infuocato, sceso come fulmine dal cielo, colpisce  la corda e la spezza:  son salvo per bontà di un …sensatissimo Iddio.

   Questo il mio sogno di stanotte. Son sano e non vaneggio.

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 Ho conosciuto per caso in questi giorni, vagando inquieto wanderer per la Rete, un signore e studioso straordinario, di quelli che una volta in vita ti avviene, se sei fortunato, di incontrare. Si tratta di Luca Bistolfi, uno scrittore e un critico letterario e musicale non appigionato che scrive su varie testate e riviste, quelle che sono in grado di reggere la sua poliedrica cultura e le sue strepitose bordate. Io lo ho incontrato su Pangea, che si auto presenta come “Rivista avventuriera di cultura & idee”, fondata da Luca Alberto Lo Presti e diretta da Davide Brullo. Cercavo qualcosa di nuovo e diverso su Puccini nel suo centenario. E guardate un po’ che ti trovo? Leggete e stupite alla lettura di “Giacomo Puccini: sia lode al gigante della musica seria (ma la bibliografia è avvilente)”. La rivista è on line ed è gratuita.

   Io che in gioventù mi godetti gli stroncatori Papini Soffici Prezzolini Giuliotti ed altri in campo estetico-filosofico-letterario, ho goduto compiaciuto alla lettura di un lungo articolo del critico musicale Luca Bistolfi pubblicato sulla rivista on line di libera consultazione “Pangea. Rivista avventuriera di cultura e idee”. Lucidità, informazione, verve di tale genere non ci è dato più che rarissimamente incontrare in questi tempi di massificazione rimbecillente. Che poi le stroncature del pangeatico riguardino i denigratori di Puccini a vantaggio del Bussetano mi fa doppiamente piacere. Il Lucchese non ha niente, proprio niente da invidiargli, e tanto meno da dovergli. Altre arie egli respirò, frequentò altri lidi, quelli che spalancavano a Frau Musika e ai suoi devoti ben altri orizzonti. Diceva il vecchio Verdi del giovane Puccini, credendo gliene tornasse a disdoro, che era più un sinfonista che un melodista, e aggiungendo che un’opera lirica dove predomini l’armonia a scapito della melodia è come un monumento dalla grande base e dalla picciola statua. Immagine certo efficace ma inadeguata; lo stesso Verdi dall’Otello in poi se ne sarebbe accorto e faticò non poco per arrivare ad autosuperarsi e in qualche modo autonegarsi, che dio sia lodato, nel Fallstaff. Io che circa Verdi ho sempre quasi in tutto condiviso il giudizio irridente di Richard Strauss, e dai suoi cieli il grande Marzio Pieri me ne perdoni, Verdi, chi? Il musicista dello zumpapa zumpapa?, leggo con soddisfazione le bordate di Bistolfi contro certa critica musicale. I non verdiani andranno in sollucchero. Ma anche i verdiani ne usciranno, se non convertiti e meno inca, un poco, lo spero, illuminati.

   Nel suo lungo saggio Bistolfi parte da Virgilio Bernardoni e le sue riflessioni sul centenario puccininiano, e ne pre nde spunto per denunciare l’inadeguatezza, quando non la falsità e la malevolenza della maggior parte della critica pucciniana della critica pucciniana, con esclusione di  a partire da Massimo Mila, attraverso toscanini Alfano Berio e altri per arriveare a Julian Budden e Dieter Schickling. Col quale egli schiude

Quando nel 2008 su un quotidiano romano salutai l’arrivo dello Schickling, uscito per i centocinquant’anni della nascita e ad oggi il miglior libro in circolazione, chiudevo il contributo augurandomi di veder presto o tardi sorgere la monografia che rendesse giustizia al più grande operista italiano moderno. Sperai adesso di trovarla in Bernardoni. Ma a distanza d’oltre tre lustri debbo constatare ancora la presenza di lavori bensì volenterosi ma inutile fatica di praticoni e orecchianti. Sicché, oltre di leggervi lo Schickling, il mio consiglio è di farvi da voi il vostro Puccini, senza alcunché sperare da critici e storici. Qualche traccia adesso l’avete”.

 Buona lettura https://www.pangea.news/giacomo-puccini-centenario-morte/ 

   

Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

   

  

 

 
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Le melodie di Bellini, Rigoletto al Circo Massimo, La Forza del Destino, Tibur Tivoli...

Post n°1199 pubblicato il 02 Luglio 2024 da giuliosforza

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     Ieri sera, stanco di intellettualismi, soprattutto se  musicali, mi sono addormentato lasciandomi dolcissimamente cullare dalle quattro melodie che ho in vita più amato ed amo, secondo me le più belle e struggenti della storia della lirica italiana, tutte di Bellini: “Casta Diva” e “Mira o Norma” dalla Norma e “Prendi l’anel ti dono” e “Ah non credea mirarti sì presto estinto o fiore” dalla Sonnambula, il cui pathos romantico  l’uso vocale e strumentale del controcanto esaspera ai limiti  dello sfinimento. Di quest’ultima trascrissi le prime note, le stesse impresse sul marmo delle tomba catanese (su quella ormai cenotafio del ‘Père Lachaise’ a Parigi avevo pregato, quando ancora l’anima non s’era inaridita, tanti tanti anni fa), su un grosso fusto di bambù trafugato a un giardino una mattina che, rousseauiano promeneur solitaire,  vagavo per le vie della città etnea addormentata sotto una spessa coltre di neve nera, la polvere lavica.

    Tengo molto al grosso bastone di bambù catanese che mi accompagnò a lungo sui monti -a cominciare dalla montagna officina di Efesto- che ora con la sua punta d’acciaio acuminato deve limitarsi a risuonar cupo per gli asfalti e i cementi arroventati delle strade della mia borgata. Stamane me lo sono portato con me al Frainile  dove intendo rimanere tutta l’estate, se il caldo tornerà (oggi fa un freddo quasi invernale, da indossare il cappotto) in compagnia di Saramago, del Goethe delle prime poesie e del Werther con testo originale a fronte (una recente edizione di Marsilio che ripropone per fortuna l’originale, quella non ancora in parte dallo stesso Goethe rimaneggiata per motivi di censura) per poi rituffarmi, con Alfred De Musset  e le storiche del movimento Ricarda Huch e Andrea Wulf, nel pieno del Romanticismo che amo. 

   Quanto bene ho dormito stanotte! 

   Altro che Xanax, altro che Prozac, altro che il Platone di Lou Marinoff le melodie di Bellini!

*

   Su 5 stamane. “Rigoletto al Circo Massimo”. quel che resta di un’opera lirica classica. La chiamano contaminazione moderna tra teatro televisione cinema. Non credeteci. Si tratta di un intruglio che non giova a nessuna delle tre forme di comunicazione. E un tale intruglio dovrebbe significare volontà di avvicinamento della folla (spregiativamente detto), del “popolo”, soprattutto quello dei giovani, all’Opera. Alla folla basta e avanza un concerto di Vasco Rossi con i suoi milioni di tifosi, in presenza o virtuali. Verdi, poi… Ci pensa da solo ad auto-castrarsi in molta della sua produzione lirica ridotta ad una serie di canzonette, di motivetti, i più assai gradevoli, va riconosciuto, che, giustapposti, l’uno all’altro ricuciti, senza una solida base sinfonica unificatrice, dovrebbero rappresentare un serio discorso musicalmente compiuto.

Euterpe piange, altro che eu-terpein, rallegrare!

   Un giorno dopo: La Forza del Destino

   Rilassato, per intero e senza prevenzioni (di cui mi sforzo di attenuare almeno l’impatto condizionante sull’ascolto, cosa difficile per un che non ha in Verdi il suo prediletto) seguo e mi godo su rai5 La Forza del Destino, parecchio riprendendomi dal gusto stroncatorio e dissacratorio di ieri mattina. Si tratta di quella di un Maggio musicale fiorentino degli anni Dieci diretta da Zubin Metha. Un Verdi composito che in quello che è indubbiamente uno dei suoi capolavori sa ben fondere (stava per sfuggirmi un volgare mescolare, che sarebbe stato davvero offensivo) in pagine sublimi sacro e profano, serio e faceto, guerra e pace, amore e morte. Inutile dire de “La Vegine degli angeli” e dei cori gregoriani risuonanti in lontananza (ma in tutta l’opera si respira un’aria di religiosità che ne fa, fra tutta la produzione verdiana, se non un unicum una testimonianza definitiva della innegabile religiosità di Verdi - religiosità dico, non religione, che è tutt’altra cosa -) ai quali sono da sempre per formazione assai sensibile. Particolarmente m’è piacito Nicola Alaimo nella lunga divertentissima parte di fra Melitone, ma anche il frate portinaio nel suo ruolo di distributore di minestre ai poveri. Ferruccio Furlanetto in quella seriosa del padre guardiano e Saloa Fernandez in quella di Leonora, ritirata nel suo eremo diventato per la solita dissennata scenografia modernista una grossa gabbia da zoo per scimpanzè, hanno decorosamente adempiuto al loro ruolo.

   P. S.

   Una piccola consolazione per i verdiani anti-pucciniani. Pur non dovendo, questo è chiaro, il Lucchese nulla al Bussetano, se non quel tanto che fatalmente un dopo deve a un prima, un involontario richiamo tra la figura del sagrestano di Tosca, di Fra Melitone e del frate distributore della minestra de La Forza del Destino indubbiamente c’è: quel tanto di scanzonato che fa dei rispettivi episodi di cui sono i protagonisti qualcosa di molto di più che semplici divertenti cammei.   

 *  

   Questa mi mancava.

   Stanotte alle 02:30 stato svegliato, e non si trattava di un sogno, da una telefonata del Soccorso stradale (così almeno la voce si dichiarava, ma chissà quale delinquente si celava dietro tal nome). Avrei voluto vedere voi. Le immediate scuse non furono sufficienti a impedire al mio antico muscolo cardiaco di riprendere la sua solita corsa, più del solito affannata e disordinata. Ora, placato il muscolo, mi sento stordito nella mente e stremato in ogni fibra del corpo, e senza fiato, come un Laocoonte stretto fra le spire dei due serpenti, che nel mio caso non Porcete e Caribea hanno nome ma Spazio e Tempo, i due mostri che s’apprestano a soffocarmi.

   Chi mi libererà dalla morsa di Spazio e Tempo?

*   

   Dalle nostre parti si dice di Tivoli (come a Firenze di Prato): “Tivoli del mal conforto. O piove, o tira vento, o suona a morto”. Orribile. Ma non fu la località (per la verità la nobile Tibur, non la volgaruccia Tivoli, stipatissima ma non certo vivibilissima) il luogo preferito da Poeti, Imperatori, Papi, principi, mecenati, artisti di ogni genere, che ne lasciarono imperiture memorie? Sarà solo questione di mutamento di clima meteorologico o soprattutto di mutamento di clima culturale? Che ne pensano i vari amici che con le parole e coi fatti si adoperano per la rinascita?

   Saluti e auguri da un umile ma verace tiburtino del contado.

   Due commenti che meritano:

   Gianni Andrei,

   Tibur, lustrissimo maestro, è qui a parlarci di storia e di storie, continuamente ad ammonirci, da secoli in verità, per spronarci in uno sforzo comune a concretizzare un nuovo possibile Rinascimento sociale ed etico. Ognuno per la sua parte.

   Filippo Greggi,

   Per noi di Montecelio Tivoli è sempre stata un punto di riferimento vuoi perché avevamo lì il Vescovo, il Pretore, le Scuole superiori, negozi attraenti, il mercato dei nostri ortolani ma non sono mancati gli sfottò. Ma anche grande rispetto in un nostro detto: "ROMA , CAPUT MUNDI, TIVULI PE' SECUNDI".

*

   Mi rigusto dopo un sessantennio il film restaurato El Cid del regista Mann con Sophia Loren, Charlton Heston e Raf Vallone, che narra le imprese di Rodrigo Diaz de Vivar soprannominato El Cid Campeador, il Signore Campione (+1099) perché eroico protagonista della lotta di liberazione della Spagna dai Mori. Non mi dispiacerebbe inserire, fra le ipotesi etimologiche più o meno fantasiose del nome del mio natio borgo selvaggio, quella che lo fa derivare dal nome di nascita del mitico Eroe valenciano.

 
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Linda Guerrini: D'Annunzio e Puccini

Post n°1198 pubblicato il 28 Giugno 2024 da giuliosforza

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   Ho conosciuto in rete una giovane seria e informata, studiosa poliglotta e …polimatica (risuscito il termine in senso positivo etimologico e non limitativo come oggi lo si intenderebbe) dal bel nome di Linda Guerrini, un nome che mi evoca uno dei poeti ai quali son dedicate le strade del nuovo quartiere Talenti di Roma: Olindo Guerrini. Che sia un suo avo? Guerrini, che fra i tanti suoi vari eteronimi usava firmarsi anche Lorenzo Stecchetti, nome col quale fu più conosciuto, fu un poeta non degli ultimi tra quelli della generazione seconda metà Ottocento - primo Novecento (1848-1949), ed io prima che la febbre dannunziana mi divorasse, lo ebbi fra i più frequentati. In questo anno pucciniano (è il Lucchese il musicista che con Wagner prediligo) sto approfondendo l’argomento dei rapporti tra Puccini e D’Annunzio mai conclusisi, nonostante i reciproci desideri, con un’opera che avrebbe potuto dare origine a un Gesamtkunstwerk a due unico al mondo. Non che i Mascagni, i Pizzetti, gli Zandanoi e i Debussy che misero in musica opere del Pesecarese, fossero da gettare. Ma Puccini è un’altra cosa!

   Di Linda Guerrini mi permetto di riprodurre qui, sperando non le dispiaccia,  un bell’articolo riguardante i rapporti epistolari D’Annunzio-Puccini, prezioso per gli amanti della Poesia dell’Uno e della Musica dell’Altro: due nomi che bastano da soli, pur ignorati dalle Accademie, a glorificare nel mondo Calliope ed Euterpe, come nessun altro mai; troppo grandi per le Accademie, come il Nolano achademici di nulla achademia.

    “Linda Guerrini, Il poeta e il maestro (Linda Guerrini, Il poeta e il maestro, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 35, no. 8, gennaio/aprile2014)”.

  “Agli studiosi dannunziani è cosa abbastanza nota che Gabriele D’Annunzio e Giacomo Puccini cercarono più volte di collaborare per la creazione di un’opera che unisse, come afferma Aldo Simeone, “il melodramma al dramma moderno”1). Tale collaborazione peraltro non avvenne mai, o, per meglio dire, non produsse mai risultati. Ci si è chiesti spesso il perché. Critici e studiosi di vario orientamento hanno tentato di fornire risposte, ma – a mio parere – il problema reale va individuato nella diversità di carattere dei due artisti: D’Annunzio mirava sempre a essere eccezionale tout court, mentre Puccini era più modesto, accontentandosi di “essere qualcuno”. Ma analizziamo per un attimo le due individualità. Pur avendo idee alquanto diverse sia sulla struttura di un’opera teatrale, sia in politica (D’Annunzio era filofrancese e interventista, Puccini filotedesco e neutralista), coltivavano interessi comuni: il dandismo, i motori, la concezione arte = merce e un’indubbia tendenza alle intense passioni amorose – un magnanimo eufemismo? Chissà. Le motivazioni che li spingevano a una collaborazione erano comunque differenti: il ‘Vate’, sempre in cerca di popolarità (e anche di danaro, vista la sua incontenibile propensione a sprecarlo), ambiva al vasto pubblico pucciniano, mentre il compositore ammirava lo spirito innovatore di D’Annunzio. A ogni modo, i due s’incontrarono grazie alle sollecitazioni di ‘operatori culturali’ come Tito e Giulio Ricordi, il procuratore Carlo Clausetti e altri, che fecero molto spesso, soprattutto all’inizio, anche da intermediari: proprio per questo, nella ricostruzione del carteggio, sono state indispensabili le lettere che i due artisti spedivano e ricevevano da tali personaggi. Queste, purtroppo, sono molto più numerose rispetto a quelle del carteggio diretto fra D’Annunzio e Puccini, poiché, soprattutto quelle scritte dal Poeta, sono in gran parte andate perdute – o eccessivamente deteriorate. Ciò ha determinato l’opinione secondo cui il poeta, spesse volte, evitasse di rispondere alle pressanti richieste pucciniane, negandosi con piccole scuse. Ora, pur conoscendo i comportamenti di D’Annunzio verso alcuni ospiti che definiva “sgraditi” all’epoca del soggiorno a Gardone, giova nondimeno ricordare che il il poeta e il maestro «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», ISSN 2280-8833, 35, gennaio/aprile2014 | 2) poeta nutriva per Puccini una grande stima: è improbabile dunque che gli si negasse. Inoltre, la collaborazione col maestro lucchese poteva essere occasione rara per dar vita ad una sorta di opera totale di respiro wagneriano, che unisse la totalità delle arti. In futuro, fallite le trattative con Puccini, D’Annunzio non abbandonerà questo progetto, mettendo in scena prima la ‘Pisanella’ (1913), musicata da Ildebrando Pizzetti, poi la ‘Parisina’ (1913), per la quale D’Annunzio collaborò con Mascagni e, infine, la ‘Francesca da Rimini’ (1914), tratta da una sua tragedia, scritta in forma di libretto da Tito Ricordi e musicata da Riccardo Zandonai. Entrambi i soggetti, come oggi è ben noto, erano stati pensati inizialmente per Puccini. I due furono in trattativa dal 1894 al 1913. Tutto iniziò quando D’Annunzio, che da qualche tempo si era affacciato sul panorama teatrale, decise d’intraprendere la carriera di librettista e quindi scrisse a Ricordi per trovare un musicista adatto alle sue esigenze. Il procuratore Carlo Clausetti lo mise in contatto con Giacomo Puccini, allora compositore emergente dotato di talento e capacità innovative non comuni, reduce dal successo della ‘Manon Lescaut’. All’inizio, le trattative sembravano impossibili, perché i costi dannunziani erano davvero eccessivi (chiedeva 40000 lire, cifra enorme per l’epoca). Nel 1889 D’Annunzio si trovava in pessime acque, a causa dei debiti contratti comprando la “Capponcina”, nonché per gli innumerevoli insuccessi delle sue tragedie. Già prima della loro conoscenza diretta, Puccini si era mostrato gentile con il poeta: ad esempio, in occasione della prima della ‘Città morta’ dannunziana – un vero fiasco –, il musicista toscano stese un encomio per l’opera, definendo fra l’altro l’autore “caro mio fratello d’arte”. Il primo tentativo di collaborazione risale, almeno dai documenti in nostro possesso, al 1900. Si tratta del ‘Cecco D’Ascoli’, opera della quale però non ci è pervenuta alcuna traccia, se non le righe che Puccini scrisse a Giulio Ricordi, ove si diceva impaziente di ottenere da D’Annunzio la traccia del primo atto. Questo non fu mai scritto e il soggetto fu abbandonato. Registriamo le successive trattative solo dopo sei anni, nel 1906. Questa volta i due sembrano molto più motivati, s’impegnano davvero reciprocamente. D’Annunzio scrive a Tito Ricordi: “Spero di poter offrire al Maestro Puccini un poema ove il più ardente soffio umano attraversi le visioni della più insolita poesia”2) . Sono decisi a trovare un compromesso, ossia a creare un’opera adatta all’indole di Puccini ma, nel contempo, conforme alla più schietta maniera dannunziana. L’homme de lettres abruzzese questa volta non gonfierà i costi: come egli stesso sostenne, la “Santa Poesia” cedeva volentieri il passo a “Madonna Equità”. È importante sottolineare, probabilmente, che il poeta offrì sempre al compositore progetti completamente nuovi, dichiarandosi inoltre disponibile a modifiche, cosa che non fece mai neppure con Debussy . Risale al 23 febbraio 1906 il primo contatto diretto fra i due artisti: qui inizia la collaborazione vera e propria. Frutto di questa sarà Parisina (che doveva far parte del “ciclo dei Malatesti” assieme alla Francesca da Rimini), un soggetto tratto dal celebre poemetto di Il poeta e il maestro «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», ISSN 2280-8833, 35, gennaio/aprile2014 | 3 Lord Byron. Ma anche questa volta, a causa del poeta, le trattative furono abbandonate: ritardava sempre la data di consegna del libretto; inoltre, trovandosi coperto di debiti e perseguitato da creditori, chiedeva di continuo prestiti a Ricordi. Per di più, D’Annunzio si negava talora al maestro, accusando una misteriosa “malattia”, di cui però non resta alcuna traccia negli epistolari. Non fu la sola causa delle fallite trattative: quando Puccini, già spazientito per il comportamento del ‘Vate’, vide finalmente il libretto di Parisina, non lo gradì affatto, considerandolo una mera “riscrittura della Francesca da Rimini”. Il 5 agosto dello stesso anno si registra un nuovo incontro fra i due, dal quale Puccini sembra congedarsi soddisfatto: il giorno dopo scrive a Giulio Ricordi che D‘Annunzio è “sempre un po’ nelle nuvole”, ma che comunque lo ritiene “sceso verso terra abbastanza”3 . Avevano così pianificato un nuovo progetto: La Rosa di Cipro. Questa volta il soggetto è del tutto inedito e D’Annunzio sembra avere idee molto chiare circa la stesura del libretto. Il ‘Vate’ crede in quest’opera: lo dimostra una lettera piena di “fiammeggianti ideazioni poetiche” che spedisce a Puccini, e un’altra, diretta a Giulio Ricordi, ove elogia il lavoro che sta per compiere. I due artisti s’incontrano e il poeta legge al maestro il primo atto della Rosa. Sembra la volta buona. Qualcosa però va storto: qualche giorno dopo, D’Annunzio riceve una lettera di Puccini (andata purtroppo perduta), in cui quest’ultimo annuncia un ripensamento. Il problema, questa volta, erano le loro differenti concezioni di poesia: il toscano propendeva per una poesia carnale, sorprendente, con un “razzo finale”, tutte caratteristiche che il primo atto della Rosa non possedeva, dal momento che l’abruzzese aveva posto al centro del suo lavoro la “pura rappresentazione estetica della bellezza”4 . In altri termini, al musicista era stata proposta una pura e semplice descrizione paesaggistica senza alcun’ombra d’azione! In futuro, questo scritto sarà utilizzato unicamente per lo scenario incluso nell’Allegoria d’Autunno, mentre il soggetto sarà ripreso per la Pisanella. Dopo questo ulteriore fallimento, Puccini e D’Annunzio continueranno a sentirsi sporadicamente, con missive che comunque rivelano grande stima reciproca, anche se in una lettera ad un amico il poeta scriverà: “I miei contatti col maestro lucchese sono stati sterili. Egli si sbigottisce di fronte alla forza della poesia!”5 . Ciò denota che il ‘Vate’, persona orgogliosissima e mai disposta – come ricordato prima – a modificare i propri testi, si era stancato dei continui ripensamenti di Puccini e delle sue critiche. Dal canto suo, il compositore non si rassegnava all’idea che non si potesse trovare un accordo fra loro, e continuava a scrivere lettere supplichevoli a D’Annunzio. A ogni modo, le trattative sfumarono di nuovo nell’autunno 1906. Il poeta non era, di fatto, più interessato a tale collaborazione, anche perché aveva, al momento, parecchi progetti da cui si aspettava successi. Non fu così: nell’ottobre dello stesso anno, ci fu la prima di Più che Il poeta e il maestro «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», ISSN 2280-8833, 35, gennaio/aprile2014 | 4 l’amore, una tragedia moderna che, di là dal ‘fiasco’, scatenò un vero e proprio pandemonio. All’uscita dalla sala, il pubblico, scorgendo un gruppo di forze dell’ordine, gridò a squarciagola: “Arrestate l’autore!”. D’Annunzio fu costretto a scappare dall’uscita di sicurezza. Non sappiamo se i due, nei cinque anni che seguirono, si incontrarono, dal momento che non ci è giunta alcuna corrispondenza. Questo, peraltro, è plausibile. Certo è che, nel 1911, i contatti fra i due ritornano assidui: ripartono le trattative per il quarto progetto, La Crociata degli Innocenti. Puccini, questa volta, mette le mani avanti, spiegando in più occasioni al poeta quanto desidera, ossia “amore, dolore, grande dolore in piccole anime”. E così sarà. La trama è molto più ‘tradizionale’, del tutto consona alle richieste pucciniane. Si narra di un pastore, Odimondo, che tradisce la fidanzata, Novella , con una prostituta lebbrosa, Vanna la Vampa. Quest’ultima, per guarire dalla malattia che l’affligge, deve bere il sangue di un innocente, e perciò il pastore sacrifica la sorellina Gaietta. Ma un mistico Pellegrino non solo risuscita l’uccisa, ma converte anche a vita spirituale la donna di malaffare; dopodiché tutti si mettono in viaggio con un gruppo di bambini (gli innocenti) verso la Terra Santa. La nave cade però in mano a briganti, che vogliono vender tutti come schiavi. Ad un certo punto c’è una colluttazione e, per disgrazia, Novella e Gaietta cadono in mare e muoiono. Questa è la punizione di Odimondo per il delitto commesso. La trama è talmente vicina al gusto del maestro lucchese che, più tardi, i critici insinueranno che l’opera possa avere suggerito l’atmosfera e alcuni caratteri della Turandot. A novembre Puccini viene ospitato per due giorni dal poeta ad Arcachon (D’Annunzio si era trasferito in Francia dal 1910 per cure odontoiatriche). Anche dopo questo periodo, in alcune lettere ad amici, il ‘Vate’ sembra piuttosto spazientito dall’incontentabilità del maestro circa i suoi scritti. Puccini però era già al lavoro per musicare il primo atto, benché questo tardasse ad arrivare. D’Annunzio lo terminerà solo nel 1913 e Puccini, leggendolo, ne sarà entusiasta, anche se con qualche riserva: “Caro Gabriele – ho nelle mani lo scritto tuo – l’ho letto e lo rileggo: mi penetra poco a poco – e voglio che mi trapassi! […] non mi stancherò mai di raccomandarti = laconismo = cioè l’economia delle tue belle parole – per la mia brutta musica!”6 . Ma, a prescindere da tali osservazioni, il primo atto gli era piaciuto davvero molto. Qualche giorno dopo, il poeta spedisce al maestro pure gli altri atti, mostrandosi entusiasta del proprio lavoro. Scrive: “Vedrai come io abbia conciliato l’elemento mistico con l’elemento drammatico (ed era difficilissima cosa!)”7. Ma quando Puccini riceve gli scritti non è affatto della stessa idea: quelle scene gli appaiono inaccettabili, alcuni elementi su cui si erano accordati sono stati cambiati radicalmente, tutto è diverso, in una parola, da quanto pattuito. In una lettera a un’amica, il maestro toscano definirà la Crociata una “piccola, informe mostruosità”. La colpa, questa volta, non Il poeta e il maestro «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», ISSN 2280-8833, 35, gennaio/aprile2014 | 5 può non essere attribuita a D’Annunzio: persino Tito Ricordi, dopo aver letto gli atti, lo accuserà di non averci creduto abbastanza e di non aver speso al massimo le sue potenzialità, a differenza di quanto fatto dal Maestro. Il progetto viene, per l’ennesima volta, abbandonato. Nello stesso anno, forse consapevole di aver sbagliato e desideroso di riparare, è il poeta a proporre a Puccini la creazione di un atto unico: rimase solo una proposta, anche perché il toscano era alle prese con altre opere (di futuro successo), e l’abruzzese aveva trovato, nel frattempo, due compositori che lo accontentavano in tutto e per tutto: Pietro Mascagni e Ildebrando Pizzetti. Nel 1914 cessano definitivamente le trattative fra due dei più grandi artisti del primo Novecento. Durante l’impresa fiumana, Giacomo Puccini, in una lettera a un amico, lascia trapelare il disappunto per l’estremismo dannunziano e commenta: “D’Annunzio non è contento e occupa”. Tuttavia, nel 1921, il maestro sentì il bisogno di scrivere al “recluso di Gardone” il proprio entusiasmo per la svolta del Notturno: “Auguri fervidi! Il tuo nuovo libro ha pagine di vibrazione e di sentimento che conquistano e affascinano”8 . Ma un episodio singolare, quasi inspiegabile, è quello della commemorazione del maestro alla sua morte (29 novembre del 1924). Il comitato per le onoranze funebri aveva scritto a D’Annunzio affinché componesse un discorso per il defunto, che avrebbe dovuto essere pronunciato all’inaugurazione di un monumento in suo onore. D’Annunzio non rispose. Prima di condannare il gesto, è opportuno tuttavia ricordare che il periodo del Vittoriale fu molto buio e che il poeta non fece mai uscire alcuna lettera dai cancelli di Gardone. D’altro canto, egli non era nuovo a questi episodi: un fatto simile era successo alla morte di Wagner. L’ultima parola sul loro rapporto toccò proprio al Vate, che nel Libro Segreto scrisse: “Ecco il lago di Massaciuccoli (a Lucca, terra natia di Puccini) tanto ricco di cacciagione quanto povero d’ispirazione”. Quell’ispirazione carente, sembra dire il poeta, avrebbe dovuto essere soccorsa dalla sua di “poeta immaginifico”: andava invece a inserirsi nel novero degli atti mancati, delle delusioni, dei rimpianti".

 Note 1. A. Simeone (a c. di), Gabriele D’Annunzio, Giacomo Puccini, Il carteggio recuperato (1894 – 1922), Carabba, Lanciano, 2009. 2. Lettera di D’Annunzio a T. Ricordi del 16 febbraio 1906. 3. Lettera di Puccini a G. Ricordi del 6 Agosto 1906; Lettera di D’Annunzio

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   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca, Anticoli Corrado

Post n°1197 pubblicato il 18 Giugno 2024 da giuliosforza

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   Ritrovo e pubblico con piacere: è il ricordo di uno dei mille eventi musicali che hanno costellato la mia vita, raccontato sulla sua rivista dal prof Luigi Scialanca, uno che fa cultura, che è cultura. E per questo la scuola sa redimre a  skolé.

 

“ScuolAnticoli

Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

“La Musica e il Canto popolare

nella Valle dell’Aniene

   Professor Giulio Sforza - associazione culturale Vivarium

   Civico Museo d’Arte Moderna di Anticoli Corrado, sabato 13 ottobre 200

 

 

“Sabato 13 ottobre 2007, in una sala dello splendido Museo di Anticoli Corrado, abbiamo partecipato a un evento che è stato anch’esso un’opera d’arte. E che, in quanto tale, ha suscitato in noi la fantasticheria di un futuro in cui sarà forse possibile “incorniciare” e conservare, nella loro sensuale pienezza, non solo il “testo”, ma le emozioni, quello che potremmo chiamare il “clima” personale e interpersonale, i colori, le scoperte, i silenziosi soprassalti dei momenti perfetti che di quando in quando ci sono offerti da persone eccezionali, o da persone comuni in un eccezionale istante di assoluta “grazia”, o da entrambi quando i primi, com’è accaduto in questo caso, riescono quasi per magia a dar vita nei secondi a una così rara condizione.

    Parliamo delle Riflessioni sul canto e la musica popolare che il professor Giulio Sforza ha generosamente condiviso con noi nel corso di uno dei più suggestivi appuntamenti di questo bel Festival degli Antichi Suoni che da settembre anima i finesettimana della Valle dell’Aniene. Riflessioni che non sono state oggetto solo di una “conferenza”, ma al tempo stesso anche di uno spettacolo e di un concerto; e nelle quali Giulio Sforza ha saputo così meravigliosamente coinvolgerci da trasformare anche noi in una sorta di “coro” interpretante e commentante: certo, non così esperto e versatile come il vero coro dell’associazione Vivarium che frattanto le illustrava con i suoi canti, alla ‘mbriachegna e non, ma in qualche modo altrettanto presente, altrettanto consapevole dell’importanza della propria funzione nell’assicurare la godibilità e il successo dell’evento.

  “Insegnanti” di questa fatta sono così rari che incontrandone uno viene spontaneo chiamarlo, piuttosto, Maestro. Poiché, presentando il volume I Vivaresi e il Canto Popolare, antologia di musiche e testi scelti e annotati da Beatrice Sforza e Francesco Petrucci, il professor Sforza ci ha letteralmente sollevato e portato con sé (con la parola, col gesto, col terribile sguardo animato non soltanto da implacabile intelligenza, ma anche, per fortuna nostra, da affabile levità ― non a caso è L’evità il titolo della sua ultima raccolta di liriche dell’immanenza) dalla Grecia dei culti dionisiaci alle osterie di Vivaro, dalla Bayreuth di Richard Wagner alla Pescara di Gabriele D’Annunzio, dai monti ove con lui dimorò Zarathustra (Giulio Sforza, Canti di Pan e Ritmi del Thiaso, Subiaco, 2005, p. 74) alle meno rischiose valli ove gli apprendisti come noi si accontentano e son già deliziati dal sentirne parlare così profondamente e voluttuosamente: pendevamo dalle sue labbra, né più né meno come il coro dell’associazione Vivarium pendeva dalla sua mano e dal suo diapason, e a poco a poco la parola e il canto si son fusi nelle nostre menti in quell’armonia così rara, così difficile da ottenere, che è dei sensi e dell’immaginazione insieme”.

Il prof Scialanca riproduce anche la quarta di copertina dei mei volumi poetici, aggiornata in Dis-Incanti. Fa piacere riprodurla amche a me a vantaggio di chi vorrebbe saperne di più sull’autore di queste …dianoie metanoie paranoie…Più paranoie, per la verità!

 

 

 

 

 

“Da una vita ormai Giulio Sforza, intellettuale non allineato, immanentista radicale, difende, nella sua attività di ricerca di insegnamento e di divulgazione, i diritti dell’Uomo totale minacciati, se non conculcati, da una società e da una cultura che è poco dire inestetiche ed anestetiche, affidando all’arte in generale come ragione partecipativa ed alla poesia ed alla musica in particolare il compito di sanare i guasti operati in ogni campo (da quello religioso a quello educativo) dallo spirito di oggettivazione e di trascendenza.

 Tra le cose che ha scritto, nelle quali tenta di teoreticamente giustificare la sua visione del mondo prevalentemente dionisiaca ma non priva di nostalgie per apollinee solarità, ha più care: Metaproblematico e PedagogiaLa Funzione didattica (spunti per un discorso sul metodo come episteme), Educazione e sinistra tra conformismo e liberazione (con Ettore Laurenzano), Studi Variazioni DivagazioniMusica in prospettiva europea (con Maria Teresa Luciani), Altre Variazioni con Spigolature e Polemiche, i volumi collettanei da lui curati L’educazione estetica oggiReligione ed educazioneMusica ed ecologia in prospettiva estetica, Variazioni sul Tema, Vitam impendere Pulchro (Atti delle omonime Giornate internazionali itineranti di Studi e d’Arte promosse dall’Associazione culturale di varia Umanità e Musica Vivarium da lui fondata).

Ha pubblicato tre raccolte di ‘poesia pensante, filosofia poetante’: Canti di Pan e ritmi del thiaso Liriche dell’Immanemza, L’Evità, Aqua nuntia Aquae iuliae. Ha tradotto Held, Lévy, Onimus, Daniélou, Bergounioux, Polin... e, dall’italiano con Jacqueline Held, Rodari (Poèmes au ciel e sur la terre). Per le edizioni ‘Atelier des Grames’ ha curato per la parte italiana l’edizione bilingue del poema in prosa L’a bordée, di Michaël Glück.

Ha pubblicato, per farne dono ad ex allievi ed amici, strappandoli all’etere impersonale e restituendoli all’amata carta, i tre primi volumi del suo blog Dis-Incanti. Il quarto volume è in via di pubblicazione”.

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  Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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Votazioni europee, Libertà della rete in un post di Sforza citato da Lorenzo Fortunati (2010)

Post n°1196 pubblicato il 13 Giugno 2024 da giuliosforza

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   Giornata uggiosa. Minaccia pioggia. Al mio borgo su 134 iscritti finora hanno votato in undici, me compreso anarchico conclamato. Ho ceduto alle richieste di una donna. Merito per questo condanna? Amici anarchici andate a votare, perché non debba troppo vergognarmi. Frattanto io mi rilasso con qualche strofetta metastasiana, che fab proprio al caso, come    

“Se a ciascun l’interno affanno

Si leggesse in fronte scritto

Quanti mai che invidia fanno

Ci farebbero pietà”.

   e con la lettura delle serissime facetissime genialissime comico-tragico-surreali “Intermittenze della Morte” di Saramago, che nel suo simpatico e comodo stile di scrittura, che elimina quasi tutti i punti di interpunzione, al quale sarei tentato di adeguarmi, ci dnarra delle conseguenze   che in uno Stato imprecisato  causa  un mattino di capodanno l’improvviso sciopero generale della morte.

   e per associazione di idee mi sovviene della Sibilla cumana che, impetrata dagli dei l’immortalità e ottenutala, avendo dimenticato di chiedere contemporaneamente la giovinezza eterna invecchiava a tal punto da diventare sempre più una sorta di larva e finire entro un’ampolla e ai devoti che le chiedevano Sybilla ti teleis Sibilla che desideri ripondeva con voce impercettibile come proveniente da lontananze siderali apothanein telo apothanein telo voglio morire voglio morire.

   Ed ora ‘Chairete’ se potete.

*

   Vagando per la rete mi sono per caso imbattuto nel seguente intervento di Lorenzo Fortunati che si pone il problema della libertà della rete, sempre ma in quel periodo particolarmente sentito e discusso: argomento che egli trovò trattato da me nel post 241 (26 gennaio 2010) di questo blog, e che volle, con parole assai elogiative nei miei riguardi di cui lo ringrazio, riproporre all’attenzione ei suoi lettori. È il caso che anche io qui lo riproduca, ritenendo il problema della libertà della rete dal recente episodio dello spegnimento del mio blog per alcuni giorni riposto, poiché mi sembra che in esso il tema sia trattato da me con una chiarezza che non mio è solita e in uno stile piano che non mi fu e non mi è troppo familiare.

Scrive dunque Lorenzo:

   “Settantasettenne e inattuale, da due anni blogger, uomo di rara cultura e sapienza, Giulio Sforza è capace di donare a noi internauti ‘consumati’ una interpretazione della libertà del Web che millenni luce avanti a quella dei tanti meschini Riottelli che abbiamo per l’aere digital televisivo, invocando filtri, cani e guardiani per le rete di domani.

   Stavolta le sue parole sono semplici, almeno in gran parte, per cui segue un invito alla lettura che rivolgo a voi amici. Riporto qui un post del suo blog Dis-Incanti, ma non commentate qui sotto, non solo almeno: vi chiedo di lasciare un piccolo commento, direttamente a lui, QUI. Anche un seplice ‘grazie’ avrà del valore”.

Post 241 di Giulio Sforza

“Verità, verità, verità, che è la Verità? Chi più esplicitamente, che implicitamente, tutti alla fatidica parola fanno riferimento. Ma quale la verità che si vorrebbe dalla rete? La verità di chi? Io credo che richiedere ad essa qualcosa di più che una pura e semplice precisione di dati, dico dati, e di opinioni, dico discutibili opinioni, sia prevaricante e prepari la strada alle censure indiscriminate o mirate (cosa che del resto già si sa avvenire o minacciarsi da più parti) dei regimi preoccupati solo della loro verità, cioè del loro potere. Chi di grazia dovrebbe controllare i contenuti del Web, le idee dei suoi utenti, magari i loro aborti di idee, le loro idee insanite od in sanie? E con quale diritto? Che una nostalgia strisciante per le sacre investiture e i diritti divini si stia impadronendo degli spiriti deboli? Che sia già pronto, da qualche parte l’Indice   dei siti e dei blog proibiti, in procinto di essere pubblicato e con violenza difeso dagli sgherri delle nuove Inquisizioni (laiche o religiose che siano), appena la vigilanza degli spiriti liberi e forti s’allenti? E che stia risorgendo un Istituto per la preservazione della fede? E che si preparino i roghi per i dissidenti e gli eretici, per i naviganti che amino vagare e ‘bacchabondare’, posseduti da ulisside smania di conoscenza, alla ricerca di mondi diversi, fuori dalle prescritte rotte? Simile ad una tavola imbandita sia il Web, ricolma di ogni ben di Dio e di ogni più diabolica, magari attossicante, pietanza, premessa ineliminabile, per altro sì per ogni pericolosa abbuffata ma anche per la più squisita delle autoeducazioni alimentari. Cornucopia ricolmo la rete cui ad ognuno sia consentito di accedere che fame e sete di conoscenza tormentino. Come si può pretendere che l’autoeducazione ( e tale è solo e sempre una verace educazione) alla continenza del sé (cum-teneo, tengo insieme unito) possa veramente avvenire? Non è l’abbondanza delle opportunità e delle disponibilità fondamentale perché una libera scelta sia pensabile? È forse possibilità di locupletazione ove non sia variegatissima offerta? Ed è possibilità di libertà ove non sia possibilità di totale libertà? Non è forse la libertà il più alto dei rischi? Ma non è forse il rischio della libertà pur sempre minima cosa al confronto dei danni certi che la mancanza di libertà assicura? So bene la libertà essere, in ogni campo, figlia di estremo rigore; e so di tutti i bla bla moralistici che i propugnatori delle scelte obbligate (ivi compreso il grande dandy dell’esistenzialismo engagé Jean-Paul Sartre) oppongono alle argomentazioni, per essi sofismi, di chi nega l’esito obbligatorio della libertà dover essere la scelta, in realtà della libertà sostanziale negazione. Atto supremo di libertà è anche, e non è più di tanto paradossale, morire, come l’asino di Buridano, di fame e di sete, non certo per incapacità di scelta, ma per non volontà di scelta, per ludica, orgiastica, débauchée fedeltà alla libertà di scelta, che è anche scelta della non scelta.

   Temo proprio, anzi non temo affatto, me ne compiaccio, doverci tener quell’universale Nous poietikòs ed insieme pathetikòs (che volgare dirlo contenitore!) che la Rete rappresenta tale quale è, e lottare perché tale e quale, salvi fatto gli auspicabili perfezionamenti tecnici che dilatino gli orizzonti e le opportunità, rimanga”.

Chàirete Dàimones

 
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'Sogno di una notte di mezza estate',

Post n°1195 pubblicato il 02 Giugno 2024 da giuliosforza

 

   

 

 

 

 

 

 

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   Guai a chi oserà stamane distrarmi dal  Sogno di una mezza estate shakespeariano tradotto in musica romanticissima da Schumann e  coreografata da quel genio di Balanchine. E poi con una Ferri che non tocca quasi più terra, una Ferri ancora più aerea, vittoriosa più del solito sulla forza di gravità, e un Bolle che non ti dico.

   Questa notte ho dormito male e malamente sognato. È giusto che dagli Amici  William Robert George Alessandra Roberto ne sia ripagato!

*

   Periodo ancora nero nero nero per me.

Oggi per placare un po' la rabbia, che non riesco ancora a smaltire, per l'oscuramento del mio blog, e la perdita, stamane, o il furto, del mio cellulare, mi sono inventato un risottino ai funghi (purtroppo non porcini) che da tanto tempo non riassaggiavo: una mezza via tra risotto e minestra.

Cotti i funghi in padella e ridottili a purea col frullatore a mano, ho preparato un brodino con un involtino di petto di pollo e bresaola della Valtellina, prezzemolo, aglio e cipolla a pezzetti liofilizzati. Dopo circa un'ora ho estratto l'involtino e ho sciolto nel brodo la purea di fughi. A ebollizione ripresa ho gettato i miei 40 grammi di riso, ho aspettato che l'acqua fosse tutta riassorbita, una spolverata di parmigiano reggiano e via.

   Ho trovato il mio risotto-minestra ai funghi davvero squisito/a.

   Gradirei un giudizio degli chefs della rete.

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Guai a chi oserà stamane distrarmi dal  Sogno di una mezza estate shakespeariano tradotto in musica romanticissima da Schumann e  coreografata da quel genio di Balanchine. E poi con una Ferri che non tocca quasi più terra, una Ferri ancora più aerea, vittoriosa più del solito sulla forza di gravità, e un Bolle che non ti dico.

   Questa notte ho dormito male e malamente sognato. È giusto che dagli Amici  William Robert George Alessandra Roberto ne sia ripagato!

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   Riflessione mattinale stamane sotto la vasta ombra del pioppo gigante.

Il terzo trentennio della mia vita nel tempo, ancora soltanto simbolo, 'eikòn', dell’Eterno, sta per concludersi, e il quarto annunciarsi nel corso del quale, presumibilmente, il mio tempo da solamente immagine dell’eterno, conclusosi il percorso epistrofeico, tornerà 'aionio' nel seno dell’Uno.

Platone e Plotino mi attendono.

(Ma ho fatto anche riflessioni meno impegnative e più leggiadre, osservando il via vai di bellissime donne coi loro cagnolini e i loro sorrisi al Vegliardo, fantasma ormai arcinoto vagante da un decennio per sentieri e prati di Casal Nei e dintorni).

*

   Dieci giorni fa il mio bonsai Ginseng, dono di Lilli, pareva definitivamente morto. Gli erano rimaste solo tre foglioline semisecche. Poi il miracolo. Bastò che lo spostassi all'ombra perché, senza altro intervento da parte mia, risuscitasse. E così, giorno dopo giorno, assisto al rispuntare di nuove foglioline con la stessa tenera emozione con cui riassisterei ai primi vagiti di neonate nella loro rustica culla. Meraviglia della Vita universa, divina in ogni sia pur minima forma.

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   Questa rustica culla a dondolo di durissimo castagno inattaccabile dai tarli, costruita da papà (appena tornato, senza il fratello maggiore rimasto tra le migliaia di vittime di Bligny, dal Primo grande Macello dopo sei anni di durissimo fronte: caporal maggiore del Genio Pontieri aveva passato, soleva celiare, sei anni a bagno scaldato dal fuoco delle artiglierie per la prima volta anche aeree) per il primo figlio purtroppo  nato morto; fu essa a neniare i primi vagiti, pianti, sorrisi dei sei pulcini di una numerosa nidiata sopravvissuti, votati  a diversi destini. Ora se ne sta, solitaria per la maggior parte dell’anno, al Frainile con gli altri cimeli di casa, i mobili i quadri e i posters, di viaggio e musicali, che tappezzano i muri, e l’enorme organo elettronico Farfisa, che resiste eroicamente al disuso coi suoi circa sessanta registri e una pedaliera di due ottave. Oggi voglio strappare la culla alla sua solitudine e gettarla nel traffico caotico della rete per narrare di un episodio che ho risognato e riguarda essa e me. Avevo solo qualche mese, si narra, e mentre mamma, sempre indaffaratissima (nel frattempo papà era stato richiamato per un’altra guerra, la guerra d’Africa) sfaccendava, la sorella più grande era incaricata di farne le veci presso la culla. Un giorno, particolarmente nervosa perché tardavo a prendere sonno e ‘gnaulavo’ in continuazione, con uno strattone la fece capovolgere, io le finii sotto miracolosamente  salvandomi: la duttilità delle ossicine in formazione evidentemente m’avevano preservato dai gravi traumi non solo cerebrali che avrebbero potuto seguirne, e la conformazione dei lati della culla aveva consentito il passaggio dell’aria. Nel sogno il mio fratello maggiore (per altro il più pacioso) mi ripeteva con petulanza: hai battuto la testa da piccolo, non ci stai con la testa: ed io reagivo violentemente urlandogli che con la capoccia io stavo assai meglio di lui.

   Mi sono svegliato ancora nervoso, ma paradossalmente più sereno ed obiettivo. Mi son detto: avesse avuto ragione lui? Non è il primo a ripetermi, e fuori di sogno, che io con la testa non ci sto, per scherzo o sul serio me lo ripetono da anni in tanti, soprattutto le donne. Ora confesso che ho veramente ‘battuto la testa da piccolo’, e fu una cosa grave, irrimediabile. E già so anche che nelle mie cicliche future rinascite sarà sempre peggio, ricadrò ogni volta da una culla, magari elettronica, e ribatterò la testa facendomi sempre più male, veramente tanto male. È il mio destino, lo sento. E il bello è che ne sono felice, tanto felice. PERCHÉ SIGNIFICA CHE PER DESTINO IL MIO CERVELLO NON POTRÀ FINIRE MAI ALL’AMMASSO.

 

 

 
 

 

   

 

  
 
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Bonsai rinato., Platone, Plotino, Sciarrino, Pappano, ancora Vico...

Post n°1194 pubblicato il 29 Maggio 2024 da giuliosforza

 

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   Dieci giorni fa davo il mio bonsai Ginseng, dono di Lilli, per definitivamente morto, Gli erano rimaste solo tre foglioline semisecche. Poi il miracolo. Bastò che lo spostassi all’ombra perché, senza altro intervento da parte mia, risuscitasse. E così, giorno dopo giorno, assisto al rispuntare di nuove foglioline con la stessa tenera emozione con cui riassisterei ai primi vagiti di neonate nella loro rustica culla.

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Riflessione mattinale stamane sotto la vasta ombra del pioppo gigante.

   Il terzo trentennio della mia vita nel tempo, ancora soltanto simbolo, eikòn, dell’Eterno, sta per concludersi, e il quarto annunciarsi nel corso del quale, presumibilmente, il mio tempo da solamente immagine dell’eterno, conclusosi il percorso epistrofeico, tornerà aionio nel seno dell’Uno.

   Platone e Plotino mi attendono.

   (Ma ho fatto anche riflessioni meno impegnative e più leggiadre, osservando il via vai di bellissime donne coi loro cagnolini e i loro sorrisi al Vegliardo, fantasma ormai arcinoto vagante da un decennio per sentieri e prati di Casal Nei e dintorni).

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Goethe oggi, sul suo almanacco durch das Jahr 2024, mi regala questa delicatissima poesia, dedicata a colei che è Rosa delle rose, Giglio dei gigli.

 

Gegenwart

 Alles kündet dich an! Erscheinet die herrliche Sonne,

Folgst du, so hoff ich es, bald. Trittst du im Garten hervor, So bist du die Rose der Rosen, Lilie der Lilien zugleich. Wenn du im Tanze dich regst, So regen sich alle Gestirne Mit dir und um dich umher. Nacht! und so wär es denn Nacht! Nun überscheinst du des Mondes Lieblichen, ladenden Glanz. Ladend und lieblich bist du, Und Blumen, Mond und Gestirne Huldigen, Sonne, nur dir. Sonne! so sei du auch mir Die Schöpferin herrlicher Tage; Leben und Ewigkeit ist's.

    Nota. Sonne, sole, in tedesco è significativamente femminile. Donde Schoepferin, Creatice. Mentre Mond, luna, è maschile. Questa la capisco di meno. Aboliti prima del Manifesto futurista il …chiaro di luna ed ogni altra lunare romanticheria?

*

   Tornato a Il Sole 24 Ore domenicale dopo anni. Non me ne son pentito. Il suo supplemento culturale domenicale è tra i migliori, se non il migliore, di tutti i supplementi dei quotidiani nostrani. Peccato (celio, naturalmente) vi scriva ancora il Cardinale Ravasi. In realtà ho sempre trovato e trovo il contributo dello studioso Ravasi preziosissimo, e Il Sole 24 Ore ne esce notevolmente arricchito.

 

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   La nuova Euridice secondo Rilke, di Salvatore Sciarrino all’Auditorium Santa Cecilia.

   A parte i singulti e i sospiri e i soffi dei flauti e di altri strumenti che una volta eran votati a  emettere suoni, e la strepitosa voce del mezzosoprano Halligan, il resto …boh! Non riesco a districarmi nel generale groviglio di voci e rumori.

Segue Il Magnificat di Bach. Pappano tenta, per lo più sforzandosi di leggere la (non) partitura, un arzigogolato forzato e sgrammaticato collegamento tra il genio di Eisenach e l’ingegnoso Palermitano.    Fatica sprecata, caro Sir!

   Al Liceo, non so perché, amavo e ammiravo Vico. Lo ritenevo  un Kant mediterraneo. Quanto mi sbagliavo! Col teorico dei Trascendentali non aveva nulla a che fare; in sostanza a fare e a governatre la Storia ideale eterna  era, nella mente del Napoletano,  un Trascendente in forma di Provvidenza, all’Uomo era riservato solo il compito di capire quale fosse la volontà di Dio e  starsene  'contento al quia! Bella novità davvero! C’era bisogno di scomodare tutto lo scibile umano, cosa ch e Vico straordinariamente fa? A farmi ricredere sul Vico filosofo fu anche la scoperta del Vico uomo :bigotto, oscurantista, nemico dei Lumi, dei loro teorici, del loro Secolo, negato, per meschina scelta, alla Conoscenza; un vile, in sostanza, un personaggio senza dignità, tetro e invidioso (jettatore, lo dicevano!) che passa la vita a fare inchini e ‘genuflessioncelle’ d’uso, a elemosinare senza dignità riconoscimenti e favori per sé e per i figli (al primo dei quali, mediocre, Gennaro, riesce addirittura a lasciare in eredità la sua cattedra – prassi per la verità, se si eccettuano pochi lodevolissimi casi, mai sconfessata degli Atenei soprattutto italiani ove regnarono e regnano, come in ogni campo della pubblica e privata amministrazione, il nepotismo e il favoritismo il clientelismo il portaborsismo più sfacciati che portano alla moltiplicazione degli insegnamenti i quali, se un giorno riguardarono la totalità complessa di una disciplina con i suoi agganci interdisciplinari, via via sono arrivati a riguardare un paragrafo di quella disciplina se non una parola di quel paragrafo, quel solo paragrafo, quella sola parola che gli aspiranti, per lo più pecorescamente affiliati a sette politiche e religiose di ogni colore, conoscono); che  spende il suo tempo di titolare di una cattedra universitaria di retorica, per quanto ritenuta a Napoli, dico a Napoli (dio, che paradosso!) ultima nella graduatoria degli insegnamenti, a scrivere dediche epitaffi epitalami e bolse celebrazioni di ogni genere per politici, dignitari, soprattutto ecclesiastici, i loro servi figli e famigli.

   Per quanto riguarda la dottrina, tutto quello che Vico dice era stato variamente e meglio detto, con più verità ed ironia (di cui Vico è totalmente sprovvisto) da Lucrezio a Montaigne e senza i piagnistei e senza i ricorsi al 'deus ex machina' di una trascendente Provvidenza chiamata all’ingrato compito di giustificare i mille non sensi, le assurdità, le malvagità, le iniquità, le atrocità, nessuno osi negarlo, di un mondo evidentemente mal riuscitole. 

   A salvare il salvabile di Vico e a nobilitarlo penseranno gli Hegel gli Hoelderlin gli Schelling e, da noi, i Gentile e i Croce . E ciò un pochino me lo riavvicinerà. Astuzia della …Provvidenza!

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   Due pensieri consolatori ad hoc per me. L’erba cattiva non muore mai. Per uno, per una che t’odia, cento  ti vogliono bene.

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   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 
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