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Creato da giuliosforza il 28/11/2008
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1070
Le verghe …’mosaiche’ di papà, Pitigrilli e la Madonna di Lourdes stratega. Cronaca minima
Con quello di oggi sono già dodici i giorni consumati del mio novantunesimo anno. E non posso dire siano stati tra i giorni più felici della mia vita. Quello di ieri in particolare, per motivi sì di salute e d’altra natura che non dico, sarebbe risultato particolarmente uggioso e gravoso ai limiti dell’insopportabile se non ci fosse stato un Pitigrilli, alias Dino Segre di buona memoria, a restituirmi il buon umore con i suoi vaneggiamenti di convertito fresco, perciò ingenuo freschissimo visionario, ad un cattolicesimo bigotto e fondamentalista, e perciò particolarmente predisposto a bersi e ingollarsi anche le fole più strampalate, robetta, stile e contenuti da peggior Brosio. C’è da rimanere basiti. Nemmeno più le vecchiette analfabete del mio paese reggerebbero a tanta stupidità contrabbandata per verità, che la sofferta verità di un’autentica conversione discredita e umilia. La citazione di Bergson poi, non documentata e fuori contesto, umilia il grande Filosofo e ne fa uno dei tanti rivenduglioli di rimasticata saggezza che in rete imperversano. Forse il pezzo di Pitigrilli non merita nemmeno il risolino voltairiano, tanto meno il cachinno mefistofelico. Meriterebbe solo un silenzio pietoso. Ma io oggi ho bisogno di divertirmi e perciò dedico all’ex (forse presunta) spia di origine ebraica dell’OVRA, la polizia politica fascista, per tale presunto reato processata, un poco del mio tempo ricopiando e pubblicando il pezzo giornalistico ‘Ciò che la storia -quella della Menzogna Ufficiale- non dice’, e qualche divertente divagazione che fa bene alla mia salute e al mio umore, e spero anche a quelli di qualche lettore.
Pitigrilli mi ha dunque ieri terribilmente innervosito ma anche divertito per la vasta copia di imbecillità di cui le pagine che trascrivo, datate 8 settembre ’65 (sarei curioso di sapere quale giornale, e non penso a La Croix, gliele accettò) traboccano, in me risvegliando il voltairiano che, in maniera più o meno latente, sempre fui, anche quando curai per Armando con animo non del tutto benevolo un’edizione scolastica del Candide, spesso e volentieri non concordando con l’Arouet. Avessi ieri avuto Pitigrilli sottomano mi sarei divertito a rompergli le ossa con le verghe …’mosaiche’ di puro pero selvatico, alte più di due metri, del mio gigantesco papà, quelle che vedete riprodotte in foto e che, si narra, lui e il minuto Giampietro usarono per avventurarsi in un anfratto del colle San Biagio onde misurare la profondità dello strato nevoso raggiunta nell’invernata del Novecentoventinove, una delle più rigide e nevose del secolo. Le tre verghe da circa un secolo sono al Frainile, qui traslocate dalla casa paterna di cui rappresentano uno dei cimeli a me più cari, e narrano la loro storia dall’angolo del piano terra che è tra l’Organo Farfisa e l’invetriata che dà sul verde, di nuovo intenso e rigoglioso dopo i temporali di questi giorni, del giardino. Anche ora che scrivo alzo ogni tanto lo sguardo a quei cimeli e mi commuovo, ma la commozione trapassa al Segre che sto odiando di tutto cuore. Mi sento dal Pitigrilli che conosco tradito, nemmeno dalla bocca dei ‘missionari’ passionisti della mia infanzia che imperversavano dal pulpito della mia chiesa ogni anno nella settimana santa sarebbero uscite cotante idiozie.
“Gli increduli per natura, gli scettici di mestiere e i negatori per eleganza, davanti ai racconti di apparizioni domandano: «Ma perché la Vergine appare sempre a contadinelli analfabeti?». Risponderò: probabilmente perché a proposito di bimbi, la Madre la pensa come suo Figlio. Rileggere il Vangelo. Molto più sospette sarebbero le sue apparizioni e le sue parole, se scendesse da un albero del giardino dell’Eliseo per parlare a De Gaulle, o se fermasse Sartre sulla soglia del café de Flore. Quando Papa Pio XII vide accanto al suo letto Gesù e gli parlò, non tutti,. fra gli ecclesiastici, ci hanno creduto, e un alto prelato francese, alludendo all’illustre infermo e alle malefatte dell’arteriosclerosi, disse con ironica indulgenza: «C’este de son âge», ossia sono cose che accadono alla sua età.
Abbiamo oggi la rivelazione di un fatto meraviglioso, diverso dai soliti. Nel 1915 e 16, sul fronte e nelle trincee francesi corse una voce relativa alla battaglia della Marna. Si alludeva all’apparizione della Vergine (8 settembre del ’14) che avrebbe avuto una potenza decisiva nel rovesciamento non altrimenti spiegabile della situazione. Lo spirito depresso dei Francesi, il deperimento morale e lo sfacelo fisico dei combattenti facevano prevedere che la Francia sarebbe stata invasa. Un soldato che partecipò alla ritirata dal Belgio fino alle vicinanze di Parigi, un cattolico, forse un sacerdote del quale non si fa il nome, pubblica in una rivista questo racconto che ha tutto il sapore dell’obiettività.
I racconti dei giornali della fine d’Agosto e del principio di Settembre del ’64 (cinquantenario della Marna) alludevano al miracolo militare che da quest5o storico fiume prende il nome, limitandosi a esaltare il sussulto, la ripresa, il recupero inatteso dei soldati del 1914, che l’8 settembre avevano respinto l’invasore. Per qualcuno che prese parte a quegli avvenimenti, lo scatto delle truppe francesi avrebbe potuto, secondo la scienza degli strateghi, trattenere il nemico per 24 ore, o 40 al massimo. Il documento che ho sotto mano, scrive il narratore nella rivista Le Monde et la Vie e che era caduto nell’oblio, lancia una luce nuova su quegli avvenimenti e chiarisce il mistero del capovolgimento della situazione. È un ritaglio di giornale (Le Courier de la Manche, 8 gennaio ’17) che riferisce ciò che avrebbero detto i tedeschi fatti prigionieri dopo il combattimento famoso. Frattanto si viene a sapere che a Pontmair i Padri posseggono un incartamento completo della vicenda. Esse sono riportate dal Courier de Saint-Lô. (8 gennaio ’17). Un prete tedesco ferito e fatto prigioniero alla battaglia della Marna e morto in un’ambulanza francese nella quale si trovava una suora, avrebbe detto: «Come soldato dovrei mantenere il silenzio, custodire il segreto, ma come sacerdote debbo dire ciò che ho visto. Durante la battaglia della Marna, noi, Tedeschi, eravamo stupiti di venire respinti, perché eravamo legioni al confronto dei Francesi, ed eravamo sicuri che saremmo arrivati a Parigi. Ma noi abbiamo visto la Vergine, tutta vestita di bianco, con una cintura azzurra, inclinata verso Parigi. Volgeva le spalle a noi e con la mano destra sembrava che ci respingesse». Nei giorni in cui questo sacerdote parlava così, due ufficiali tedeschi feriti vennero raccolti in un’altra ambulanza della Croce Rossa, accompagnati da una dama infermiera che parlava la loro lingua. Quando entrarono nell’ospedaletto dove si trovava una statua di Notre-Dame de Lourdes, dissero: la Vergine della Marna!
(A questo punto non posso non concedermi un irriverente intervallo e citare l’esilarante scena delle Lusiadi di Camoes ove si dice
Più in là una religiosa che curava i feriti a Issy-le-Mouleneaux scrisse: «Era dopo la battaglia della Marna. Fra i feriti in cura all’ospedale di Issy si trovava un tedesco gravemente colpito, che i medici davano per irreparabilmente perduto. Grazie alle cure, visse ancora un mese. Era cattolico e manifestava grandi sentimenti di fede. Gli infermieri erano tutti sacerdoti. Ricevette i conforti della Fede, e non sapeva come dimostrare la propria gratitudine. Finalmente il giorno in cui ricevette l’Estrema Unzione, disse alle infermiere:
Mi avete curato con infinita carità. Voglio fare qualche cosa per voi, narrandovi un fatto che non giova, militarmente, al prestigio dei tedeschi, ma che vi farà piacere, Pagherò così il mio debito di riconoscenza. Se mi trovassi sul fronte sarei fucilato dopo un processo sommario e simbolico, perché è vietato, sotto pena di morte, narrare ciò che sto per dirvi. Quando siamo giunti quasi alle porte di Parigi, abbiamo dovuto fermarci lì. Non ci è stato possibile andare oltre, perché una vergine stava davanti a noi con le braccia distese, respingendoci indietro ogni volta che ricevevamo l’ordine di avanzare. Durante molti giorni ci domandammo se era una delle vostre sante nazionali, Genoveffa o Giovanna d’Arco. Abbiamo compreso poi che colei che ci immobilizzava su quel piccolo fiume che sfiora Parigi era la Vergine stessa. L’8 settembre ci fece indietreggiare con tanta energia, che tutti noi, come un sol uomo, ci siamo messi a fuggire.
Così disse il tedesco e concluse:
Ciò che ho narrato io, lo sentirete ripetere più tardi, perché siamo in centomila ad averlo visto.
Il miracolismo strategico e logistico dei tassì della Marna racimolati per le vie di Parigi che portarono i soldati al fronte, fa parte della gloria oleografica dei libri scolastici e delle epigrafi sotto i monumenti al generale Gallieni, governatore di Parigi. L’intervento della Vergine non è celebrato negli Annali della Storia, cioè della Menzogna Ufficiale. Ma la Madonna non ha bisogno che ricevano pubblicità i suoi gesti stupefacenti, perché tutto ciò che ci circonda nel mondo, è stupefacente. Ci sono dei fatti che dovrebbero convincere, dice Bergson, se la convinzione fosse unicamente questione di intelligenza e intuizione, e se i pregiudizi e la ‘routine’ non c’entrassero spesso in gran parte. Verrà il giorno i cui nessuno comprenderà l’opposizione di tanti spiriti. Ma questi comprenderanno allora e crederanno (sottolineato da Bergson). Il grande filosofo ebreo, con la sua conversione intima, se non ufficiale, ha dimostrato di credere”.
*
minima
Domande estemporanee di una allieva al suo prof. e relative risposte.
D.
Dopo tante elucubrazioni, ci dice, prof, in estrema essenziale sintesi cosa è per lei 'educare'?
R.
'Dis-educare', 'de-gregare'.
D.
Cioè?
R.
Strappare pecore al gregge, servi ai padroni, schiavi ai tiranni.
D.
Che tipo di padroni, che tipo di tiranni?
R.
Soprattutto i padroni e i tiranni delle Anime.
D.
Con quali armi?
R.
Le armi del Pensiero e dell'Arte
D.
Utopia utopia utopia!
R.
La sola utopia per la quale vale vivere, per la quale vale morire
Il breve questionario, pubblicato su FB, ha avuto molte risposte di gradimento e un commento inatteso mi ha commosso. È di Nensi Bego Kristuli: “Sono una di quelle pecore strappata dal gregge dal Prof. Sforza. Da allora ho sempre cercato maestre e maestri che gli somigliassero nell’animo e nel pensiero. Leggo questo proprio ora, dopo un meraviglioso ritiro di danza dove abbiamo vissuto l’Utopia”.
Così fosse, che non sia vissuto del tutto invano?
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José Saramago, Caino, Universale Economica Feltrinelli, sesta edizione luglio 2023
Gradito dono di Isabel e Lisa.
Densa, giocosa, irriverente, impertinente rivisitazione del mito biblico da parte del Nobel portoghese nel suo ultimo romanzo.
"La storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con dio, né lui capisce noi, né noi capiamo lui." (Cap. VI, p. 74)
Sintesi editoriale:
“Se non fosse stata l’invidia a spingere Caino a uccidere Abele, ma il disprezzo del padre celeste? Condannato comunque a una vita errabonda, il fato di Caino è quello di un picaro senza requie, Ora da protagonista, ora da semplice spettatore, questo avventuriero un po’ mascalzone attraversa tutti gli episodi più significativi della narrazione biblica. Riscrittura ironica e personalissima della Bibbia. Caino mette in scena l’assurdo di un dio più crudele del peggiore degli uomini”.
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Ricevo in dono un biscione visconteo-sforzesco metallico, ma senza il trucido particolare del bambino semiingoiato (che lo renderebbe emblema della setta degli educatori divoratori di fanciulli,) da indossare a mo’ di collana; piuttosto angue zarathustriano simbolo dell'eterno ritorno dell'identico. Io d'ora in poi ogni tanto ne inanellerò miei foulards per gratitudine non solo verso chi (quasi come me vecchio ma già da tempo della schiera dei dementi farneticanti) ignoro con quale intenzione me lo ha donato; ma in omaggio a colui della nobile stirpe che volle includermi nel folto elenco dei frutti dei suoi amori ancillari. C'è un rischio, quello di esser preso per un milanista, come poco fa ha subito fatto il revisore della mia vecchia saxo. Sia ben chiaro, non ho niente contro il Milan, semplicemente odio il calcio, moderno oppio dei popoli, al cui confronto il presunto oppio della religione diventa una gradevolissima salvifica tisana.
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Chàirete Dàimones!
Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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1069
Ritrovo casualmente la recensione che Mario Gennari, direttore del Dipartimento di Pedagogia dell’Università di Genova, fece a suo tempo, non richiesto, di uno dei miei ultimi libercoli di mestiere. Nella sua brevità il testo di Gennari coglie l’essenziale del libro e in generale di me, e per questo lo ripubblico affidandolo alla rete, venendo incontro al desiderio di amiche e amici curiosi.
“Giulio Sforza, Variazioni sul Tema, Roma, Anicia, 2007, pp. 160.
«Raccolgo qui ancora una volta alcune fronde sparse e le rendo al vecchio tronco nella speranza (nella illusione?) di restituirle a novella vita» (p. 5). Si apre con tali parole - non prive di una loro pensosa melanconia - l’ultimo libro di Giulio Sforza in cui soggiace quella “ragione partecipativa” che offre senso a tutta l’opera di un pedagogista attento alla poesia, all’arte, alla musica, alla letteratura assunte per la loro forza formativa.
Autore di studi coordinati secondo un impianto teorico rivolto alla ri-fondazione continua del discorso pedagogico, situato nella duplice dimensione della ricerca e della critica: da Metaproblematico e pedagogia a Educazione e sinistra tra conformismo e liberazione, da La funzione didattica (spunti per un discorso sul metodo come episteme) a Musica in prospettiva europea, da Studi Variazioni Divagazioni all’opera poetica Canti di Pan e Ritmi di Thiaso, l’impegno di G. Sforza s’indirizza alla costruzione di un homo aestheticus interpretato attraverso una profonda e partecipata indagine letteraria e religiosa, pedagogica e didattica, storica e filosofica dimensionata all’interno dei nuclei costitutivi della conoscenza.
Amico di Gabriel Marcel, traduttore raffinato di autori francesi (dalla Held a Lévy, da Polin a Daniélou fino a Bergounioux), musicista e poeta, Sforza ha insegnato Pedagogia Generale e Metodologia dell’Educazione Musicale nell’università di Roma “La Sapienza” codificando il proprio magistero entro una dimensione estetologica che lo ha portato a un confronto progressivo con la cultura europea. Di ciò rendono conto i saggi raccolti in questo volume, pubblicato dall’Editore romano Anicia.
Essi si rivolgono ai temi pedagogici dell’educazione religiosa, musicale, storica, artistica. Il riferimento è alla paideia classica – che Sforza implicitamente distingue dalla polymathia e dalla polièideia – nei suoi rapporti con il mito e la filosofia. Fra gli interlocutori moderni che l’autore privilegia vi sono Thomas Mann e Voltaire, Gentile e Don Bosco, Novalis e Wackenroder, Rilke e Zolla.
E proprio da Elémire Zolla sono attinte quelle «tessiture della fede» con cui Sforza sviluppa il tema della religiosità umana: « Se la vera religiosità è (…) liberante, una educazione che si proponga il fine della liberazione non può che essere “religiosa”» (p. 32). La pedagogia di Sforza costituisce un invito ad un «aprirsi all’io nuovo della metantropologia» (p. 32), a compiere la scelta intellettuale propria di chi si assume la responsabilità etica di sentirsi un «Versucher» (p. 60) – un ricercante – , ad emanciparsi dal «dogmatismo» (p. 45) e dai suoi atteggiamenti mentali imprigionati nella prassi della omologazione, infine a liberarsi di ogni «assolutismo politico» (p. 47), ripensando così una «scuola in atto» dove i bimbi siano finalmente riabituati a leggere il grande «Libro della natura» di là dal quale si trovano soltanto le schegge inutili della dis-educazione”.
Mario Gennari
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L'Élisir d'amore
Di tutte le versioni registiche e scenografiche dell’Opera donizettiana che in questi ultimi tempi ho avuto modo di comparare e dal mio punto di vista valutare, questa è quella che mi ha dato meno fastidio. La rilettura di Damiano Michieletto, pur nella sua, insieme delicata e un tantino farouche manipolazione (e si sa quanto io ce l’abbia contro la mania di forzosa ‘modernizzazione’ di tempi e ambienti in cui le opere liriche si svolgono creando una per me imperdonabile dissonanza con testo e musica - chiaramente solo fino ad un certo punto e dal direttore manipolabili - e scenografia) vuol essere un divertente giocoso tentativo di accordarsi al carattere buffo e ridanciano dell’Opera senza stravolgerla. Michieletto è in grado di contentare anche un irriducibile conservatore quale, solo in questo campo, io non mi vergogno di essere, e mi sento di condividere quanto nel trafiletto del programma, che presumo di sala e che rubo alla rete, gli si fa affermare:
“Una spiaggia in scena e il mare rappresentato idealmente dal pubblico, guardando verso la costa maceratese: è L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti proposto in un divertente e innovativo allestimento firmato da Damiano Michieletto e messo in scena al Macerata Opera Festival nel 2018. Lo spettacolo è stato prodotto dal Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia e dal Teatro Real di Madrid. Nella rilettura di Michieletto l’azione dell’Elisir d’amore ha luogo in un lido sulla battigia. «Ho cercato, dice Damiano Michieletto - un luogo che rendesse esplosive le relazioni tra i personaggi e al tempo stesso eliminasse i toni antiquati con cui spesso viene rappresentata quest’opera. Tutta la vicenda è ambientata su una spiaggia, durante una giornata al mare, prosegue il regista. Nemorino è un bagnino un po’ sfigato che deve ripulire i cestini, riordinare le sdraio e gonfiare i materassini; ha costantemente nei suoi occhi Adina, la più desiderata della spiaggia, proprietaria di un chiosco che porta il suo nome e nel quale lavora Giannetta. Belcore invece è un marinaio sbruffone che cerca di conquistare quante più ragazze può nel minor tempo possibile. E poi c’è Dulcamara, per il quale mi sono ispirato a un personaggio che ho realmente incontrato: un venditore da spiaggia che con i suoi abbronzanti antirughe e anticellulite, approfitta delle paranoie da prova-costume dei bagnanti. Ma è anche un personaggio con un lato oscuro, celato dietro la vendita del suo celebre Energy drink. Ci sono moltissime occasioni comiche e leggere all’interno dell’opera e ho cercato, per quanto possibile, di metterle in evidenza. Mettendo in scena una commedia mi piace che il pubblico rida e si diverta».
Lo scenario estivo, soleggiato, fresco e all’aperto è quindi in immediato dialogo e confronto con l’ambiente dello Sferisterio e con le esigenze di un palcoscenico così grande e inusuale come quello maceratese. Le scene sono firmate da Paolo Fantin, i costumi da Silvia Aymonino, mentre il light design è curato da Alessandro Carletti. Il pubblico ascolterà un cast di star acclamate sui palcoscenici di tutto il mondo, in cui brillano i nomi di Mariangela Sicilia (Adina), di John Osborn, che debutta come Nemorino, Iurii Samoilov (Belcore) e Alex Esposito (Dulcamara)……”.
Michieletto assolto! Alla prossima.
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Fonte della Nocchia
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1068
Leggo in Pitigrilli (“Le donne di 30,40,50,60 anni”, Casa Editrice Sonzogno, Milano 1967, pp. 49-62, inaspettatamente riemerso dallo sgombero della cantina: cinquantotto brevi variazioni giornalistiche di circa 3 pagine l’una dedicate ad argomenti diversi sempre gradevolmente curiosi) di varie superstizioni e pratiche magiche, tipo anche quelle vaudouiste dello spillo, alle quali io ho sempre poco creduto, se si eccettuano il malocchio e quella che i francesi chiamano choc en retour, colpo di ritorno, Ho avuto modo di verificar più volte in vita fenomeni di questo tipo: spesso ho visto tornare la maledizione come un boomerang su chi l’aveva lanciata; se la maledizione non aveva raggiunto il maledetto, si era ritorta tale e quale sul maledicente. L’ho verificato più di una volta, lo giuro, anche su me. Fate attenzione.
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Su rai5 Mahler, Das Lied von der Erde. Finalmente.
Si tratta, come ben sanno i patiti delle musiche post e tardoromantiche, di una delle ultime composizioni del Genio viennese morto a 51 anni nel 1911, nella quale voce per contralto tenore e grande orchestra si rincorrono e compenetrano scambiandosi, in un ricco gioco dialogante, i ruoli per poi fondersi in unico evento musicale di grande suggestione in cui il meglio si rivela del suo animo tormentato. Egli non riuscì a sentirne l’esecuzione essendole premorto ad appena 51 anni di ritorno dall’America. Quirino Principe, il dotto critico musicale e musicologo suo storico goriziano, in un suo volume ha scandagliato come nessun altro (vedi Mahler, Rusconi, Milano i983) l’animo sensibilissimo di questo post-wagneriano sui generis, mai come nel Lied von der Erde rivelantesi.
Cito qui, dei sei brani che lo compongono, il primo e l’ultimo. Sono quelli che, a mio avviso, rendono meglio lo stato d’animo del compositore al momento della loro creazione. La traduzione è mia.
DAS TRINKLIED VOM JAMMER DER ERDE Schon winkt der Wein im gold'nen Pokale, | IL BRINDISI DEL DOLORE DELLA TERRA Il vino già ammicca dal boccale d'oro, ma ancora non bevete: prima vi canto una canzone. La canzone del dolore deve risuonarvi nell’anima come un riso. Quando il dolore s’avvicina il deserto invade i giardini dell’anima. Gioia e canto avvizziscono e muoiono. Buio è il vivere, è un morire. |
DER ABSCHIED | L'ADDIO La terra respira piena di quiete e di sonno, tutta pace e sonno. Ogni brama vuole ora sognare, gli uomini, stanchi, rientrano per ritrovare nel sonno giovinezza e felicità dimenticate. Gli uccelli tacciono sui loro rami. Il mondo sprofonda nel sonno. Fa fresco all’ombra dei miei abeti. Io sono qui in attesa ansiosa del mio amico. Lo aspetto per l’ultimo addio. Amico mio, desidero godere al tuo fianco la bellezza di questa sera! Dove sei? E mi lasci così a lungo solo! Io faccio su e giù col mio liuto per sentieri solitari, su un tappeto di erba morbida. Oh Modo, ebbro d’amore e di vita eterna! |
Più in consonanza col tempo nel suo trascorrere e nel suo mistero è il Lied von der Erde, e con esso il suo autore Gustav, vittima del Destino e di …Alma Schindler Mahler (poi Gropius poi Werfel,) femme fatale che, con la sua bellezza la sua intelligenza la sua arte (fu anche discreta musicista e compositrice di Lieder) condite di non poca civetteria, ebbe la sua non piccola parte nella prematura scomparsa del follemente innamorato e geloso marito. Con evidenza traspare la mia antipatia nei confronti della Musa ispiratrice di non pochi famosi artisti tra cui Klimt e l’amante Oscar Kokoschka. Gli è che Alma mi ricorda Clara Wieck Schumann, un'altra straordinaria creatura, che ho odiato per non aver reso felice Robert. Alle mie amiche femministe in questo, solo in questo, non ho ceduto: nel convincimento che al Genio, femminile o maschile che sia, si deve esser pronti a sacrificare tutto, anche la vita.
L’ispirazione cinese del Lied, nel riadattamento del poeta Hans Bethge, mi piace particolarmente. Fin da giovane ho frequentato autori cinesi, miti e leggende e canti di quella terra in ogni senso smisurata. Questa mia grande passione l’ho voluta fissare anche su uno dei miei bastoni etnici, quello appunto cinese. Vi ho scritto: “…et me iterum puerum draconis terra habuit viatorem et Kung Fu Tzu humanas Lao Tsu coelestes me docuerunt Regulas…
Nel Lied von der Erde l’animo di Mahler si placa, quasi presago del sereno Addio che l’attende.
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Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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1067
Ho chiesto a Lorenzo di riassumere per il lettore curioso il contenuto del volume. Ecco la sua risposta:
«Gli Arbëreshë sono un popolo originario di aree tra le attuali Albania e Grecia. Giunti in Italia nel XV secolo, la loro storia si è legata alla civiltà rurale del meridione italiano. Già Pasolini li definì un “miracolo antropologico”. Dall’ottobre 2017 all’agosto 2021 Lorenzo Fortunati ha incontrato, intervistato e ritratto donne arbëreshe presso i paesi italo-albanesi del Cosentino.
L’esito di questo viaggio è documentato nel libro “Futuro in Arbëria, visioni di donne”, un’opera direportage e arte fotografica in cui Lorenzo Fortunati indaga il rapporto delle nuove generazioni di arbëreshë con i processi di incorporazione culturale in diversi comuni italo-albanesi di Calabria. Il cuore del libro è rappresentato da una serie di microbiografie di donne italo-albanesi, esempi di tenacia e passione per la rigenerazione dell’identità culturale arbëreshe. Ciascuna delle loro microstorie è corredata da ritratti di rara bellezza ed è commentata da un anziano studioso d’Arbëria. Il libro tocca inoltre il tema del rapporto tra nuovi e vecchi italo-albanesi, e offre suggestioni e interrogativi su temi universali. L’Autore si chiede se e come la conoscenza dell’Arbëria possa ispirarci per espandere la nostra sensibilità e le possibilità del nostro futuro, e fornisce motivazioni per sostenere la tesi che l’Arbëria sia un bene di interesse comune.
Il libro è co-edito dall’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale (ICPI, Roma) ed Effigi Edizioni Grosseto). È stato patrocinato dall’Ambasciata d’Albania a Roma, dall’Ambasciata della Repubblica del Kosovo a Roma, e da numerosi Comuni arbëreshë della prov. di Cosenza: Acquaformosa (Firmoza), Cerzeto (Qana), Civita (Çifti), Frascineto (Frasnita), Lungro (Ungra), S. Benedetto Ullano (Shën Benedhiti), S. Demetrio Corone (Shën Mitri), S. Martino di Finita (Shën Mërtiri), S. Sofia d’Epiro (Shën Sofia), Vaccarizzo (Vakarici); Museo Etnico Arbëresh (mea) di Civita (CS). Hanno generosamente contribuito ai costi di stampa: COOP Biosybaris (Corigliano-Rossano) e BCC Mediocrati (Rende, CS).
«Panoramica sui contenuti del libro:
la premessa è affidata al Prof. Michelangelo La Luna, noto intellettuale arbëresh e Professore presso il Dipartimento di Lingue dell’Università del Rhode Island. Nell’introduzione si presenta sinteticamente la vicenda degli Arbëreshë e il peculiare modo in cui la loro cultura ha elaborato le contaminazioni e gli influssi esterni, in Italia; si illustrano le motivazioni che hanno spinto l’Autore a compiere un viaggio che diventa cammino di crescita, e si chiarisce la ragione per cui l’opera è declinata al femminile.
Nel primo capitolo si introduce Carmine Stamile, ex maestro di scuola, autore di pubblicazioni e curatore di un museo arbëresh, che accompagna l’Autore nel viaggio, come sorta di guida sul campo. In questo capitolo l’Autore racconta a Stamile le 17 interviste delle donne arbëreshë incontrate e ritratte, e che si spendono quotidianamente per dare un presente all’Arbëria, ciascuna a suo modo e in diversi campi. Si tratta di persone non comuni, in pochi casi note anche al di fuori della loro area ma comunque immerse nella loro comunità. Ciascuna microbiografia è corredata dalle fotografie realizzate da Lorenzo Fortunati (in genere ritratti, più qualche paesaggio) con uno stile glamour inusuale nei libri-reportage. Carmine Stamile a sua volta risponde alle domande di approfondimento e aggiunge a ciascuna micro-biografia degli interessanti aneddoti, tratti da sue ricerche e memorie, anche per dare maggior profondità e contesto. Questo primo, lungo capitolo, si chiude con le immagini di alcuni gruppi folcloristici arbëreshë.
Nel capitolo 2 l’Autore si interroga su alcuni tentativi di riattualizzazione culturale attraverso ipotesi di possibile rinnovamento dell’abito tradizionale femminile. In questo caso si confronta con un’altra memoria storica, il 90enne Antonio Bellusci (prete bizantino, qui in veste di studioso). Il Capitolo coinvolge i pochissimi artisti che si siano cimentati con possibili riattualizzazioni dell’abito di gala, e contiene foto particolarmente originali.
Nel capitolo 3 Lorenzo Fortunati incontra due giornalisti e personaggi pubblici, Arbër Agalliu e Geri Ballo, con cui discute delle relazioni tra il mondo albanese e quello arbëresh. Le riflessioni partono dalla vicenda personale dei due intervistati, entrambi giunti in Italia dall’Albania in tenera età.
Il capitolo 4 contiene considerazioni personali dell’Autore sul perché riflettere sull’Arbëria costituisca un’occasione di crescita per noi tutti.
Infine, tra le pagine dell’opera sono disseminati alcuni inserti multimediali mediante codice QR, che rinvia a link esterni. Questi portano a brevi video-interviste originali, e a numerose registrazioni di canti e brani tradizionali. Alcuni tra questi brani non erano ancora stati diffusi sul web prima d’ora, e sono stati pubblicati appositamente.
Note finali sulle immagini.
Nel libro si trovano circa 120 foto originali di Lorenzo Fortunati / Adnexart, di diverse tipologie. In gran parte sono ritratti artistici, progettati e realizzati con una certa preparazione, in uno stile che combina glamour ed etnico; in secondo luogo vi sono foto più giornalistiche di reportage, di persone e ambienti. Non mancano casi che stanno nel mezzo. Visivamente la ricerca estetica dell’Autore rifugge dal patetico e dai cliché consunti con cui si realizzano molti reportage dalle aree rurali. La bellezza è esaltata combinando inquadrature, lunghezze focali, posizione del corpo, movimento e con l’impiego di più punti luce (flash, riflettori), rigorosamente senza ricorrere a processamenti invasivi che deformino i corpi delle persone ritratte. Si tratta del frutto di progettazione e sedute fotografiche, con editing discreto e nessuna rielaborazione grafica.
Per maggiori informazioni si rinvia al link: www.adnexart.it/futuro-in-arberia. AdnexArt è la firma di Lorenzo Fortunati quando opera in ambito fotografico.
L’Autore:
Lorenzo Fortunati à nato nel 1980, ha una laurea e un dottorato in ambito formativo. Dal 2005 lavora all’intersezione tra formazione, comunicazione multimediale e tecnologie di rete; prima come formatore, poi come progettista, ricercatore, metodologo. L’arte è da sempre nella sua vita, anche se non come attività professionale; in musica inizia da giovanissimo ma si ferma con l’inizio del dottorato, nel 2007. L’ultima opera fu la realizzazione della colonna sonora per il film “Il lato chiaro”, di F. Orsomando.
Un vita senza arte gli è intollerabile, quindi riprende dal 2017, stavolta in ambito fotografia e storytelling visuale. Sceglie soggetti del mare e della cultura marinara, ma anche design classici e senza tempo; collabora pro bono con associazioni del territorio che operano nel sociale o nel il sostegno ai servizi sanitari per l’infanzia. Le sue immagini finiscono regolarmente su riviste, ma non è l’interesse per la fotografia in sé, a muoverlo: piuttosto è la funzione emancipativa dell’arte, e in questo gli è d’ispirazione l’insegnamento del maestro Giulio Sforza.
L’incontro con le vicende del popolo arbëresh lo motiva a iniziare un progetto autoriale che si concretizza nell’opera Futuro in Arbëria: visioni di donne. Nella sua attività artistica fa oggi confluire le molte competenze che ha maturato negli anni sul lavoro (storytelling multimediale, cultura nel
digitale) e nell’arte»
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Chàirete Dàimones!
Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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1066
Futuro in Arbëria: visioni di donne. Un originalissimo libro, già un capolavoro nel suo genere, di Lorenzo Fortunati, che mi pregio di avere tra i miei più intelligenti, attenti e affezionati ex allievi.
Tra i pochi meriti che mi compiaccio d’aver acquisito nella mia lunga vita di ricerca e di insegnamento e che non possono non essermi riconosciuti, uno ve n’è incontestabile: quello d’aver, nei vari incontri da me organizzati, accademici, para accademici o semplicemente ludici, facilitato tanti innamoramenti, un cospicuo numero di fidanzamenti, pochi ma felici e fecondi matrimoni tutt’ora, come si dice, resistenti: cosa rara in questi tempi di universale precarietà. Da uno di questi sono nati due splendide creature, Auro ed Eloisa, ai quali e a me (davvero una bella sorpresa, nonché immeritato onore) è dedicato il magnifico volume saggistico-fotografico di etnoantropologia pedagogica di cui voglio parlare. Autore ne è il padre di Auro e di Eloisa, Lorenzo Fortunati, con me laureatosi, affermato professionista cibernetico e fotografo provetto, sposo … fortunato (mai nomen fu più omen) di Susanna Esposito, anche lei ex allieva, direttrice d’orchestra, compositrice e didatta. È davvero il caso di intonarli questi versetti parafrasati della liturgia natalizia: oh vere beati Auro et Eloisa, qui tales ac tantos meruerunt habere parentes; e oh vere beatus magister qui tales ac tantos meruit habere discipulos. Ora capisco la dedica: di Auro ed Eloisa sono il nonno spirituale, e la cosa mi riempie di gioia e di orgoglio. Galeotta del primo bacio (per allora solo spirituale, quello che a tutti gli altri prelude ma il solo che immagino in eterno resti) di Susanna e Lorenzo fu una giornata uggiosa e piovosa. Mentre il grosso del gruppo visitava il Sacro Speco benedettino di Subiaco, io e Susanna s’aspettava in macchina nel piazzale ai piedi della scalinata che conduce al santuario, mentre un bel giovane dalla lunga capigliatura alla nazzarena attendeva solitario e pensoso sotto la sporgenza di una roccia. Chi è quel giovane?, mi chiese la ‘calabresella’. Glielo dissi, quel nome, e scoppiò non la scintilla, ma l’incendio.
Dopo un discreto periodo di fidanzamento Susanna e Lorenzo convolarono, me testimone (con qualche resistenza, il ruolo di testimone di nozze non addicendomisi, per motivi che non starò qui pubblicamente a confessare) a suggestive nozze in un’antica chiesa di Tarquinia che si confonde fra le mille memorie etrusche di quella città, per poi andare a festeggiare inter pocula all’Argentario, al cospetto di un’Isola del Giglio ben visibile nella notte chiara, col relitto della Costa Concordia ancora non rimosso.
Ben presto vide la luce Auro, poco dopo seguito da Eloisa, nomi evocativi che non hanno bisogno di commenti, soprattutto Eloisa, che fece me subito pensare alla Nouvelle Éloïse del mio carissimo Jean-Jacques. E mi sentii subito un Abelardo rinato nonno!
Ora Auro e la sorellina sono già grandicelli e il papà Lorenzo può dedicarsi con più agio alla sua grande passione ormai predominante: la fotografia. Memore della lezione nicciano-dannunziana, essere la vita senza Musica, e senza Arte in generale (uniche a possedere una sorta di categoria ‘trascendentale cinestesica), priva di senso, egli nell’arte fotografica ha individuato il suo particolare modo di ‘sforzare il mondo a esistere”, conferendo per essa al mondo significato. Ed è così che in una delle lunghe permanenze in terra di Calabria, a Terranova di Sibari per la precisione, venuto a conoscenza delle comunità di cultura albanese in Calabria da secoli presenti, e oltretutto spinto dall’interesse etno-antropologico-pedagogico in lui sempre vivo, decise di scriverne in un libro che è insieme pensiero poetante e poesia visiva pensante: così nacque il volume di grande formato che è insieme cólto saggio e album fotografico, dal titolo Futuro in Arbëria: visioni di donne (129 pagine di testi e immagini, più 75 di sole immagini a tutta pagina), a cui sono felicissimo di dedicare il post 1066 di Dis-Incanti, ai quali rimando per una presentazione più completa, limitandomi qui ad anticipare la quarta di copertina ove Lorenzo, accompagnando il testo con una bellissima foto di due donne in affettuoso atteggiamento (che purtroppo io non sono in grado di qui riprodurre) e che mi ricordano tanto il quadro (1818) di Johann Friedrich Overbeck, Italia e Germania, al quale basterebbe solo cambiare il titolo in Italia e Albania, scrive:
«Questo è il mio primo ricordo di un paese arbëresh: fra abiti, lingua e canti a me sconosciuti, d’un tratto non capivo più dove mi trovassi, o in quale tempo. Venti anni fa non sapevo niente di loro; ancora oggi li conoscono in pochi. Sono italo-albanesi antichi, sangue sparso della Diaspora, stabilitisi in Italia da quasi seicento anni. Pasolini li definì “un miracolo antropologico” grazie alla conservazione di riti, costumi e lingua.
In queste pagine ho raccolto microbiografie e scolpito ritratti di donne arbëreshë, dedite a tener viva la loro cultura, oggi marcatamente femminile. Con la potenza di piccole azioni quotidiane, senza rumore, contribuiscono all’emergere di nuove ragioni di esistere per i loro paesi fiaccati dallo spopolamento. Alcuni considerano queste donne come ultime testimoni di un popolo, ma preferisco vederle come le prime di una nuova fase storica.
La loro vicenda ci riguarda tutti. I paesi arbëreshë offrono ancora vie diverse di intendere convivialità, ospitalità e vita: occasioni preziose in un tempo di appiattimento. Il patrimonio culturale che rigenerano può diventare bene comune, stimolare innovazione sociale. Perché non si limitano a “riscoprirlo” ma lo introducono nella loro vita quotidiana. Così ci consentono, conoscendole, di entrare in contatto con prospettive diverse attraverso cui leggere, anche criticamente, il come ci relazioniamo col mondo. Il confronto dialettico, non la stasi né la passività di fronte al cambiamento eterodiretto e alla sua retorica, è necessario al nostro cammino».
Felix faustumque sit, Lorenzo!
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1065
Buona luminosa domenica a voi, amici miei e non de la ventura, da me e dal gigantesco pioppo solitario ('populus nigra'), sotto la cui vasta ombra quasi quotidianamente ('in matutinis meditabor in te') sosto nelle albe serene per la mia breve meditazione zarathustriano-cristiana, per il mio saluto al sacro Fuoco e alla Luce per i quali il Divino nel nostro Solare Universo si diffonde.
Il pioppo abbella di sé il piccolo parco 'Rino Gaetano', uno dei numerosi nei quali è immerso il nuovo quartiere 'Casale Nei-Porta di Roma', per lo più curati da residenti volontari, in barba alla totale indifferenza degli organi amministrativi.
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Eraclito:“Pòlemos patèr pànton estì”.Chiodo scaccia chiodo? Guerra scaccia guerra? Tragica illusione, tragico paradosso. Paradosso alla seconda potenza. Circolo viziosissimo. Ogni guerra è causa remota e prossima insieme di ulteriori guerre, generate dai trattati di pace prevaricanti. Non v’è pace per l’uomo in questo mondo, sia esso generato da un caso-caos, sia esso nato da una mirata, ma evidentemente fallita, azione creatrice. Non forse, direte con l’antico Saggio, ‘Nous elthe kai panta diekosmese’, venne la Mente e ordinò il tutto? Non forse, dirò, disordine e non ordine nacque dall’azione del Nous? Sembra non esservi scampo per l’uomo, inesorabilmente nato ‘homini lupus’, lupo all’altro uomo. Ma un ‘tertium, in questo caso, datur. Fallite le illusioni delle religioni storiche, esse stesse fomentatrici di guerre tra le più lunghe e sanguinose, delle filosofie e delle teologie dogmatiche, non resta che tentare la suprema illusione dell’Arte inventrice di reali e procacciatrice, rimbaudianamente, di nuovi, ripuliti, dilatati sensi all’uomo e di conseguenti nuovi significati alle cose, poste nell’atto di una ‘poiesis’ pensante, e di un pensiero poetante’ (Filippo Bruno Nolano, ben prima di Heidegger). ‘La vita senza Musica: un errore’, secondo il Folle di Rӧcken. Di più: errore supremo una vita e un mondo senz’Arte, secondo noi. “Allah braucht nicht zu schaffen, wir erschaffen seine Welt”, (Hatem a Suleika nell’‘Ȍst-Westlicher Divan’ di Goethe). Allah non ha più bisogno di creare, noi (per l’Arte) creiamo il suo mondo.
‘L’Imaginaire au pouvoir? (Jacqueline Held, Les Éditions ouvrières, Paris 1877, Armando Armando, Roma, 1978, traduzione e Introduzione di Giulio Sforza).
Arte al Potere, dopo il fallimento di religioni e filosofie?
Contro Platone: non filosofi ma artisti al potere?
Illusione alla terza potenza?
Forse. Ma non ci resta che sognare.
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Rivisti su Rai 5 I Promessi Sposi, serie TV 1967 (regia Bolchi); 2004, film (regia Archibugi); 1989 film (Salvatore Nocita). Più di Dante, Manzoni in questo periodo imperversa. Io preferisco, e rivedo con sommo piacere, il capolavoro rivisitato genialmente e irriverentemente nel 1990 dal Trio Lopez Marchesini Solenghi, che cura anche la regia. Un Promessi Sposi tutto da sorridere e da ridere, che fuori dal mito riguadagna in Umanità. C’è una Provvidenza anche per il romanzo della Provvidenza.
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Nuova puntata della serie, curata da Sandro Cappelletto, Inventare il tempo, questa volta dedicata al
Bach delle Variazioni Goldberg.
Conosco Cappelletto per averlo visto presentare, anni oro sono alla Filarmonica Romana, quello che fu forse l’ultimo spettacolo dell’ormai novantenne mio carissimo amico Elio Pandolfi, dedicato all’Operetta. Non mi dispiace Cappelletto, uomo sicuramente preparato, ma un po’ troppo, per i miei gusti, affettato e amante delle frasi fatte e ad effetto.
Così presenta in rete (immagino sia lui, per averlo già sentito pronunciare in diretta il testo qui riportato).
“Dal Goethe Institut di Roma. J. S. Bach, Variazioni Goldberg. Interpreti: Ramin Bahrami, pianoforte. Davvero Bach ha scritto le Variazioni Goldberg come ninna nanna per un diplomatico che aveva perduto il sonno e, per ritrovarlo, si è affidato alla musica? Ed è mai esistito un signor Goldberg? Un’Aria iniziale, poi trenta Variazioni’ organizzate secondo un ordine sempre uguale e sempre diverso e poi ancora, per chiudere, l’Aria (Bach usa proprio questa parola italiana) con cui il percorso era iniziato. Ma se qualcosa finisce come comincia e comincia come finisce, vuol dire che non ha né inizio, né fine, che il suo orizzonte è l’infinito. Johann Sebastian Bach, rigoroso come un matematico, fantasioso come un giocoliere”.
Niente male. Spettacolo godibilissimo.
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Ho rivisto l’ennesimo Otello verdiano. Insieme al Don Carlos e al Falstaff è l’opera del Bussetano che preferisco. Si tratta dell’ultimo Verdi che sembra aver appreso finalmente la lezione wagneriana e con bravura ironia genio adeguarvisi senza tradire se stesso. Nell’Otello, ad esempio, il melodismo del terzo Atto, soprattutto nella canzone del Salice e nell’Ave Maria, è di tale struggente passione da rigettare direttamente nel cuore del Romanticismo classico. Il merito dello ‘svecchiamento’ della musica verdiana va anche moltissimo al testo di Arrigo Boito, il …wagneriano nostrano. Il giovane Verdi dei grandi successi popolari sembra distante anni luce. Il Vegliardo si sveglia a nuova vita. Renovabitur ut aquilae iuventus tua. È la felice ventura dei Grandi.
Non so quanto Verdi condividesse il tremendo credo nichilista di Jago. Certo sarà stato più di una volta tentato, come tutti, di intonarlo. Ma aveva l’Arte con sé, panacea di tutti i mali della vita, godeva della protezione di Frau Musika. Boito, spirito faustiano (non per nulla autore, parole e musica, di uno stupendo Mefistofele) scrivendolo l’avrà pensato, anche lui aspettandosi da una Margherita-Musica la salvazione.
Credo in un Dio crudel che m’ha creato
simile a sé e che nell’ira io nomo.
Dalla viltà d’un germe o d’un atòmo
vile son nato.
Son scellerato
perché son uomo;
e sento il fango originario in me.
Sì! questa è la mia fe’!
Credo con fermo cuor, siccome crede
la vedovella al tempio,
che il mal ch’io penso e che da me procede,
pel mio destino adempio.
Credo che il giusto è un istrion beffardo,
e nel viso e nel cuor, che tutto è in lui bugiardo:
lagrima, bacio, sguardo,
sacrificio ed onor.
E credo l’uom gioco d’iniqua sorte
dal germe della culla
al verme dell’avel.
Vien dopo tanta irrision la Morte.
E poi? E poi? La Morte è il Nulla.
È vecchia fola il Ciel.
Non so perché, mi viene da ridere. Cachinno …mefistofelico.
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1064
Una delle fantasie in cui, da quel vanesio che sono, mi è piaciuto sempre cullarmi.
In una delle mie precedenti vite fui anche Parini. E fra tutte le mie opere trasudanti disprezzo per il servilismo di ogni genere scrissi anche l’ode La vita rustica, ancora un pochino barocca nello stile ma pienamente neoclassica nei contenuti, nella quale lo spirito del Giorno già tutto si respira.
Rinato in un ‘secol’ ben più ‘venditore’ mi trovo ancora maggiormente a disagio, avendo mantenuto lo sprezzo superbo per il baratto volgare della mia dignità, e di quel poco di ingegno che mi ritrovo, col “mammona d’iniquità”. Ancora amo impunito ripetere:
Me non nato a percotere
Le dure illustri porte
Nudo accorrà, ma libero
Il regno de la morte.
No, ricchezza né onore
Con frode o con viltà
Il secol venditore
Mercar non mi vedrà.
Dovessi ancora per punizione rinascere (Platone e Buddha intercedano perché ciò non sia) proseguirei con la stessa protervia a negare ogni ‘genuflessioncella d’uso”, quella che il fiero allobrogo Vittorio Alfieri rimproverava al mite Pierino Trapassi, alias Metastasio.
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Seguo con vero piacere su rai 5 Aureliano in Palmira, Rossini 1810.
La figura di Aureliano mi piace, non solo per la riunificazione dell’Impero da lui nel suo breve regno operata, per la costruzione delle mura di Roma a lui intitolate e in buona parte ancora resistenti, e per tante altre belle cose. Ma anche, e direi soprattutto, per il tentativo di introdurre e diffondere nell’Impero il culto del Sol invictus zarathustriano. Il sole splende visibilmente su tutti, non si vela dietro alcun mistero, tutto illumina e scalda, nemmeno i ciechi possono negarne l’esistenza, solo un folle può negarne l’evidenza. Nel culto del Sol invictus tutti i popoli della terra potrebbero ritrovarsi, non esisterebbero guerre di religione, nelle quali spesso il Dio metafisico combatte contro se stesso essendo lo stesso Dio venerato dai due o più popoli contendenti. Quando Costantino riconoscerà il Cristianesimo, meglio il cattolicesimo niceno-costantinopolitano nel quale ben poco resta del Cristianesimo cristico, come religione dell’Impero, non realizzerà una unificazione, metterà anzi le basi per tutte le divisioni, madri, cause prime o concause di tutte le guerre.
Tutto ciò suona a molte orecchie blasfemo. E mi tocca tacere. Mi tocca praticare il culto del Sol Invictus nella cella segreta della mia anima solitaria.
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Non sarà un ciceroniano ‘Somnium Scipionis’. Ma è sicuramente più divertente. Non vi si danno platonismi cosmismi stoicismi ‘et similia’, ogni metafisincheria è da esso bandita. Forse solo un analista junghiano potrebbe trovarvi qualche spunto per le sue riflessioni. Per questo tento di raccontarvelo, e raccontarmelo.
Dicono che sia brutto segno per un vegliardo dormire sognare o solo sonnecchiare troppo spesso. Perché brutto segno? Potrebbe semplicemente trattarsi di un allenamento in prospettiva dell’imminente sonno eterno. A me di recente questo avviene, sempre più di frequente avviene, nella breve siesta pomeridiana o la sera davanti alla TV in attesa dell’assunzione degli ultimi farmaci; avviene di prender sonno e sognare, e di un vero dormire e sognare si tratta, non di un semplice dormivegliare. E quasi mai tali sogni sono incubi, come in maggioranza quelli della notte fonda o della primissima alba. Anzi sono di una luminosità e di una vivacità senza pari, e colmi di eventi. E loro assoluta caratteristica è che sono quasi tutti ambientati nel mio borgo, un borgo che cambia magari scenografia ma stranamente è sempre lo stesso, sempre diverso e sempre uguale, sempre diverso perché sempre uguale.
Abitato di norma da un centinaio di vecchi e da una ventina di donne e uomini maturi (di giovani nemmeno l’ombra, se non in qualche fine settimana e durante un mese o due dell’estate, quando è gradevole abbandonare le afe di Roma o di Tivoli per respirare al fresco dei nostri 757 metri sul livello del mare al cospetto delle prime montagne abruzzesi) il mio natio borgo selvaggio è lo scenario ideale per i sogni. E anche per i tre quarti di questo sogno postprandiale lo è.
Nel sogno sono sdoppiato fisicamente (non m’era mai avventuo: m’ero sì una volta nel sogno sdoppiato, ma in una entità viva e una morta, avevo partecipato al mio funerale e assistito divertito e disincantato alle scene esilaranti che si svolgevano durante il mio corteo funebre fra lacrime sospiri dicerie pettegolezzi e mal represse risa); in questo caso sono l’io narrante e osservante e l’io narrato e osservato perso nella fitta calca dell’affollatissima misteriosa scena alla Hieronymus Bosch ma senza oscenità diavoli inferni e paradisi. E la cosa infastidisce non poco il primo io, che parecchio se ne rode. Vorrebbe che tutte le attenzioni fossero per lui, e invece di lui e della novità dello sdoppiamento nessuno sembra accorgersi. E questa dello sdoppiamento non è la sola originalità del film onirico di cui sono nel contempo regista protagonista e anonima comparsa. Mentre scrivo ho ancora la fantasia stracolma delle fantasmagoriche immagini che l’hanno attraversato, distinte in due diversi quadri, uno più bello dell’altro. Nel primo quadro le zone centrali e quella più bassa del paesello detta ‘Palaterra’ hanno riacquistato tutta la vivacità dell’epoca della mia infanzia: da ogni casa, da ogni tugurio, da ogni rustico gallinaio addossato a ogni casa, da ogni stalla, sotto un sole nel suo pieno risplendere escono e si mescolano non in un sabba infernale ma in un tripudio celestiale vivi e morti, piccoli e grandi, vecchi arzilli e curiosi, monache preti soldati poliziotti carabinieri galline cani gatti maiali asini cavalli muli mucche pecore capre e turbe di contadini cantanti e già semi avvinazzati, come quelli della mia infanzia diretti, dopo la faticosa giornata, all’osteria del Grottino a raccontar di guerre e a cantarne le canzoni in cori sempre più rumorosi e sgangherati man mano che il vinello di Angelo e Filomena diminuisce nei boccali da un litro (tubo, alla romana) da mezzo litro (foglietta) da un quarto (quartino). E da ogni parte canti nitriti belati muggiti guaiti miagolii cinguettii chicchirichì di galli di e coccodè di galline tutti insieme a formare una rumorosa orchestra da transavanguardia, e da ogni casa contadini muratori mugnai allevatori pastori vaccari tagliaboschi suore e qualche prete. e tutti a chieder nuove di me (del mio primo io); e ciurme di miei ex allievi d’università ridiventati giovani e adolescenti, precipiti, tra sgomitate e pericolosi sgambetti, tra canti e vezzi e scene d’amore innocenti, verso il ruscello della Fonte che scorre canterino a valle. E tutti a reclamar da me (l’invisibile o incurato io primo) un ‘Lied’ schubertiano e mahleriano o un discorso, e io (il secondo io) a schermirmi (quando mai passerebbe per la testa all’io primo di schermirsi?), e a sorridere più o meno verecondamente alle belle fanciulle ex allieve nel pieno del loro giovanile fulgore o tornate adolescenti o bambine innocenti, italiane e straniere, lusitane basche greche tedesche giunte da noi per l’Erasmus.
Nel secondo quadro il sogno cambia scena. Si svolge a Roma nel mio studio salotto biblioteca bazar ove non è più spazio nemmeno per uno spillo. E Laura e un’amica e Jacopo Numa Leon a frugare in ogni angolo in ogni stipo in ogni cassetto in ogni scaffale in ogni cassapanca alla ricerca dei miei numerosissimi peluches grandi e piccoli (scimmie leoni serpenti cani gatti oche anatre pappagalli parlanti tartarughe… un vero zoo) e a pretendere l’impossibile impresa di tentar di montarli a piramide per adornarne il presepe, ché nel sogno è già Natale. Ed io a suonare sul piccolo organo-harmonium elettronico pastorali classiche e nenie popolari d’ogni paese.
Ma a questo punto improvvisamente il sogno svanisce e mi desto a quell’altro complesso tragicomico sogno (“Tutto nel mondo è burla”, ‘Falstaff’) che chiamano vita. E tornano le diurne diuturne malinconie e nostalgie a dilacerarmi l’anima antica.
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Quando conobbi Maria Teresa Luciani, sorella del compositore Antonino Riccardo Luciani professore al Conservatorio ‘Cherubini’ di Firenze e alla Scuola di Musica di Fiesole, subito ebbi l’idea di sfruttarne la competenza e la sensibilità musicali ai fini dei miei corsi accademici di Pedagogia Generale nei quali trattavo essenzialmente di Filosofia dell’Educazione e di Educazione Estetica. Come per me, per la Luciani la musica non rappresentava un puro ébranlement nerveux, ma strumento supremo della Ragione partecipativa, via privilegiata all’esperienza dell’Essere. Per questo i suoi cicli di Educazione all’Ascolto non rappresentavano qualcosa di giustapposto ai miei Corsi, ma erano ad essi perfettamente complementari.
Pur condividendo le considerazioni di quanto i cultori del tema in oggetto, da Adorno a Manzoni, hanno affermato, noi si andava oltre, ritenendo che al di là delle sue pure premesse e finalità tecniche ogni educazione all’ascolto debba rappresentare una totale immissione nell’evento sonoro come nel più profondo di se stessi donde ogni evento, anche l’evento sonoro, prende origine e senso. Solo l’ascolto, costante e paziente, diuturno e illuminato è in grado di far sì che il fruitore “indifferente” adorniano risalga i gradini che lo conducono all’ “esperto” passando per “colui che ascolta per passatempo”, per “l’ascoltatore risentito”, per “l’ascoltatore emotivo”, per il “buon ascoltatore” e il “consumatore”, secondo la singolare classificazione del Francofortese.
L’argomento del mio Corso Accademico del 1983 fu L’Educazione Estetica, da intendere nella mia accezione di dis-educazione estetica (dilatazione della sensibilità, de-gregazione come liberazione dal gregge -de grege-, contro un’educazione intesa quale aggregazione -ad gregem-). Nessun autore meglio di Beethoven si prestava per il commento e l’approfondimento musicali dei concetti offerti alla riflessione dei miei discepoli. I numerosi brani beethoveniani proposti per l’ascolto in quella occasione (una illuminata cernita fra le sonate per pianoforte, le sinfonie e la musica da camera) consentono di meglio intendere la natura e le finalità di un’educazione come quella estetica che miri alla liberazione, al recupero, al potenziamento del to-aestheticon mediante il long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens che è nella provocatoria proposta dis-educativa di Arthur Rimbaud.
Il 1984 fu l’anno de L’Educazione “religiosa” nel suo senso latissimo di avvertimento del legame fra gli esseri e coscienza del recupero prima intellettuale poi mistico dell’unità cosmica. La direzione monistico-panteistico-immanentistica da me privilegiata ci permise di proporre per l’ascolto autori nei quali la potenza dell’emozione lirica travalica la concezione più o meno fideistica del reale. Ci potemmo rivolgere così senza ambagi e sensi di colpa al Bach delle Passioni, al Beethoven della Missa solemnis, all’Haendel del Messia, ai numerosi Mottetti di Palestrina, al Pergolesi dello Stabat Mater, al Brahms del Deutsches Requiem, al Verdi e al Perosi delle relative Messe da requiem.
Dedicai il 1985 all’L’Educazione Morale. L’argomento ci suggerì spontaneamente per l’ascolto quell’aspetto dell’attività musicale che Platone considerava non immorale: il coro. Se noi quasi del coro abusammo non fu certo perché condividessimo le incondivisibili opinioni musicali platoniche in generale, ma perché freschi delle emozioni ed incursioni nei territori orffiani e kodàlyani e da sempre privilegiatori della voce come supremo strumento fra gli strumenti, ci si sentiva nel coro a casa nostra. Vastissimo fu l’excursus: dal coro nell’antica Grecia a quello cristiano di ogni tempo e latitudine, ai Carmina Burana , alla produzione sinfonico-corale da Banchieri a Antonino Riccardo Luciani.
Il 1986 fu dedicato jn maniera specifica al tema generale Musica ed Educazione. Attraverso Wackenroder, Schopenhauer, Hoffman, Tolstoi, Marcel, si studiarono i rapporti tra educazione e cultura, cultura-ritmo e aritmia, educazione e conoscenza, conoscenza e noumeno, musica e noumeno. Per l’ascolto si scelsero autori da Bach a Stravinskij nella cui opera è più facilmente rinvenibile l’elemento “demonico” positivamente e negativamente inteso: affermazione e negazione, purezza e colpa, salvezza e dannazione.
1987. Nel corso di quell’anno si trattò l’aspetto pedagogico dell’attualismo gentiliano. L’Educazione all’ascolto ebbe un tema diverso: l’immaginario, il fantastico, il mondo della fiaba nella musica, lo stesso che trattai in quell’anno al Convegno Internazionale di Oslo dedicato a La dimensione del meraviglioso. Da Oberon a Giselle fu presentato il meglio della produzione fantastica.
1988. Iniziò il ciclo dedicato alla pedagogia dei “grandi libri” con la proposta del Bagavadgīta: occasione unica per l’ascolto della musica orientale, soprattutto indiana e di quella russa, dalla nascita delle Scuole Nazionali al realismo socialista.
1989. Pedagogia dei “grandi libri”. La Bibbia. Per l’ascolto, da Palestrina a A. R. Luciani, si ebbe modo di deliziarsi con la migliore musica traente ispirazione da testi o episodi biblici (oratori, mottetti, brani da camera) e di approfondire la conoscenza della musica ebraica.
1990. Fu l’anno del Corano, e l’Educazione all’ascolto trattò doverosamente della musica araba e di quelle altre, soprattutto la spagnola, che motivi e influssi della cultura araba accolgono.
1991. Tema del Corso: Goethe e Novalis: due metafore educative per il tempo presente. Nell’Educazione all’ascolto dal Beethoven dell’Egmont e dei Lieder di ispirazione goethiana al Wolf del Lied der Mignon gran parte della produzione musicale traente ispirazione dalle opere di Goethe e di Novalis ebbe modo di essere da noi rivisitata.
1992. Se negli anni precedenti nei miei Corsi mi ero proposto di alternare la ricerca sui fondamenti filosofici dell’attivismo pedagogico con la riflessione sulle fonti perenni della Saggezza, dalla quale pare non possa se non con sommo pericolo dissociarsi, soprattutto in educazione, la scienza, in quell’anno intesi spingermi oltre trattando de La provocazione dannunziana: nascita, formazione, morte e trasfigurazione dell’uomo estetico. In Maia, in Alcione, ne Il trionfo della morte, ne Il fuoco, ne Il Notturno ci calammo, come in un baudelairiano gouffre per cogliere il sentimento dell’abisso donde ogni mito estetico scaturisce. Per l’ascolto avevamo solo l’imbarazzo della scelta, tali e tanti sono gli interessi musicali del Pescarese e tale e tanta è dal Martyre debussyano alla Francesca dello Zandonai la produzione contemporanea su testi di D’Annunzio e dal D’Annunzio nei suoi scritti evocati (dal Bach della Missa in mi minore al Beethoven del Trio degli spiriti e ad altri).
1993. Inizia il ciclo inconcluso dei grandi “dis-educatori”, nel mio positivissimo senso inteso, del genere umano e il privilegio di aprirlo tocca al caro folle di Röcken: F. Nietzsche o della gaia Scienza del farsi un’opera d’arte. Anche in questo caso grande fu l’imbarazzo della scelta, ma soprattutto grande fu la gioia di far conoscere agli ignari studenti, e non solo ad essi, il musicalischer Nachlass nicciano. Ascoltammo naturalmente molto Wagner e l’Also spracht Zarathustra di R. Strauss.
1994. Intermezzo al ciclo appena iniziato fu l’argomento del Corso del 1994 dedicato a L’universo come mio corpo. Le premesse immanentistiche dell’educazione ecologica. Dal cosmismo bruniano al panismo dannunziano vivemmo le più alte emozioni filosofiche e letterarie che la contemplazione stupefatta della Casa dell’Essere può suscitare. Anche in questo caso, come è facile immaginare, numerosissime furono le possibilità di ascolto offerteci della infinita serie di composizioni evocanti immagini, sentimenti, impressioni, descrizioni (o invenzioni) della Natura. Privilegiate fra di esse furono le meno ligie a una riproduzione superficiale ed epidermica degli aspetti sensibili più immediati dei fenomeni naturali. D’Annunzianamente si direbbe che ebbero il privilegio quelle che, come ogni grande arte, più che descrivere il mondo lo sforzano ad essere.
1995. Si torna al tema con una impegnativa e complessa proposta: Dal Teilmensch della Provincia Pedagogica al Ganzmensch della Provincia Estetica. Hölderlin, Goethe, D’Annunzio, Hesse, o della nascita,morte e trasfigurazione dell’uomo estetico. Per l’Educazione all’ascolto scegliemmo il tema del Wanderer soprattutto per l’evocazione in esso contenuta delle tensioni, delle curiosità, degli entusiasmi e dei disincanti di cui l’Homo Viator alla ricerca della sua totalità come dilatazione di sensi e di desideri (Homo aestheticus) si nutre.
1996. Due furono i temi principali del Corso di Pedagogia: Fondamenti di una pedagogia dell’immanenza e Particolare e Universale in musica. Il seminario di educazione all’ascolto trattò di autori del ‘500 contemporanei di Giordano Bruno, da Banchieri a Willaert attraverso Marenzio, Di Lasso e Monteverdi. Pier Luigi Palestrina come musicista della trascendenza assoluta sarebbe stato fuori luogo in un Corso sull’immanente pedagogico.
1997. L’educazione del Superuomo. Un’educazione per tutti e per nessuno. Il seminario fu dedicato naturalmente ad alcuni Lieder nicciani e ad altre sue produzioni, alla sua opera prediletta, Carmen, al Parsifal wagneriano che fu l’occasione della definitiva rottura di Nietzsche con Wagner, e allo Also sprach Zarathustra di R. Strauss, la cui “seriosità” controbilanciammo con Till Eulenspiegels lustige Streiche dello stesso autore.
Fu l’occasione questa per la presentazione, nel seminario, oltre a Le devin du village di Rousseau, dell’opera buffa di Cimarosa, Hasse, Paisiello, Pergolesi, Piccinni, D. Scarlatti. Tutti autori dal ginevrino tenuti in grande considerazione.
Negli anni dal 1999 al 2001 i Corsi furono dedicati soprattutto alla lettura pedagogica di Byron, D’Annunzio, Goethe, Hesse, Mann, ed i seminari di educazione all’ascolto presero spunto da riferimenti musicali presenti nella loro opera. Attenzione massima fu data al ciclo wagneriano de L’anello del Nibelungo, ad ognuna delle cui giornate fu dedicato un anno accademico.
2002. Il Corso fu dedicato a: Il teatro per l’educazione: TeatroVita-VitaTeatro, e il seminario prese in considerazione le più note musiche di scena da Schumann al Bizet dell’Arlesiana, da Beethoven a Debussy.
2003. Il Corso ha riproposto il romanticismo pedagogico, ed il seminario i più famosi Lieder di Schubert, Schumann, Beethoven, Wagner e Mahler.
Ha scritto Elias Canetti della musica:
“Anche quando accompagna le parole, la sua magia prevale ed elimina il pericolo delle parole (…).
Verrà un giorno in cui essa soltanto permetterà di sfuggire alle strette maglie delle funzioni, e conservarla come possente e intatto serbatoio di libertà dovrà essere il compito più importante della vita intellettuale futura”. Citazione dalla tesi di laurea della mia allieva Maria Clotilde Nera.
Ed altrove: “Inventare una musica in cui i suoni siano in moltissimo contrasto con le parole, e in questo modo mutare le parole, ringiovanirle, colmarle di nuovo contenuto”.
Tra i fini propostici con l’assunzione di un seminario musicale a commento e sostegno di un Corso accademico di ricerca pedagogica era anche quello della restituzione all’Isi velata dell’altissimo ruolo che le compete: rivelazione e liberazione dell’Essenza a sé medesima, celebrazione suprema per essa dell’autogenesi dello spirito.
Speriamo di non averlo in tutto fallito.
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1062 Triste vigilia. Ai miei colli è novembre. Pioviggina. È buio come fosse tramonto, ed è alba avanzata. Esco più che a novembre intabarrato. Anche il vento si quieta e posa. Il Borgo è deserto. Desertissima la Piazza il cui fitto silenzio vieppiù attetrano le lacrime dei platani secolari (gli stessi della mia infanzia) scivolanti tra i rami ancora ignudi. Maddalena la romena col suo cagnolino nero. Scende da me ad insegnarmi come collegare alla rete il calcolatore elettronico mediante il cellulare. Addio laboriosa ‘saponetta’ Vodafone. E penso. Penso all’ultimo verso del Parsifal: Erlӧsung dem Erlӧser o von (come alcuni interpretano, e tra questi io) Erlӧser? Liberazione al o Liberazione dal Liberatore? Cosa veramente intende Wagner? Buona festa a chi festeggia. Io oggi festeggio preparandomi, per il parco pranzo, riso e anellini ai funghi porcini veraci, finocchi e fagioli grandi di Spagna bolliti e conditi con aceto balsamico doc e una goccia d’olio, pettino di pollo ai ferri. E mangiando in silenzio mi comunico. “Io mi comunico del silenzio come, cotidianamente, di Gesù. E i sacerdoti del silenzio sono i romori, (Sergio Corazzini, Desolazione del povero poeta sentimentale) * Il senso della mia longevità? Forse una Sorte benigna vuol concedermi l'opportunità di recuperare il recuperabile di quelle stagioni della mia vita di cui fui dagli eventi e dagli uomini defraudato Illusione. Nessuno più potrà restituirmi le stagioni della vita di cui fui rapinato. * Noseda. Un direttore coi fiocchi, che ci ha regalato una Lucia di Lammermoor, soprattutto la scena della pazzia, tra le migliori degli ultimi venti anni; ed un Evelino Pidò, un nome a me fino a ieri pressoché sconosciuto, che ci ha incantato con una Medea cherubiniana che sfiora la perfezione. Capisco ora l’entusiasmo di Beeth Haydn e d’altri per il classicista fiorentino. Una strepitosa, come sempre, Anna Caterina Antonacci è stata una Medea di una intensità tragica senza pari. Purtroppo a rovinare il tutto ci hanno pensato le solite regie che coi loro stravolgimenti (modernizzazioni essi le chiamano) di luoghi tempi e spazi compiono gli scempi ai quali siamo purtroppo da molto tempo abituati. Modernizzare non è deformare, in sostanza ridicolizzare: il classico si modernizza da solo se consegnato nella sua integrità al moderno fruitore che lo guarda e recepisce con la sua nuova sensibilità. Il resto è stupida prevaricazione. Perché allora non ‘modernizzare’ musica e testo, cioè scrivere un’opera nuova sullo stesso argomento? * Sarah Ferrati in Lo zoo di vetro di Williams. Che interpretazione! E che voce misurata, chiara, squillante, di cristallo! Finalmente capisco tutte le parole che un’attrice pronuncia. Ciò che quasi mai avviene, soprattutto nei cantanti d’Opera. * Nella Butterfly, Illica e Giacosa fanno diventare ‘alli mortacci tua!’ ‘anime sante degli avi!’. Squisita delicatezza giapponese. * Sogno di una notte di mezza estate (Mitsommernachtstraum). Mi estasio con Mendelssohn Bartholdy e il suo ispiratore Shakespeare, e con Carl Maria von Weber e il suo Oberon. Io, spirito sostanzialmente ancora tutto romantico sotto fredda maschera razionalistica, amo profondamente quest’opera e i suoi maggiori protagonisti, gli elfi, e i loro re e regina Oberon e Titania. Amo tanto Titania ed Oberon da averli messi come parole d’ingresso di molti miei luoghi cibernetici. In fondo anche la cibernetica è una grande magia mascherata. * |
Attori famosi che hanno lavorato con Ronconi lo ricordano uomo attore regista. Lo sento raccontato in rai5 (ma vi saranno altre puntate) da Giorgio Albertazzi e Lavia da pari loro assai brillantemente, da Anna Maria Guarnieri quasi teneramente, senza infamia e senza lodo da Massimo De Francovich, pessimamente da Popolizio.
Ronconi dal limbo degli artisti se ne strafotte.
I morti servono ai vivi, i vivi non servono ai morti.
I Morti non commemorano.
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Il direttore d’orchestra ucraino naturalizzato italiano Igor Markovich, spia (dicono) e ambiguamente implicato (dicono) nel caso Moro, dirige Le Coefore di Milhaud, la Sinfonia No 5 “Di tre re” di Honegger, Bacco e Arianna di Roussel. Io non so se fosse davvero una spia politica, so che è una fine spia dei segreti di Frau Musika. Da quello che ho sentito non si può che riconoscerglielo.
*
E tanto per cambiare: ieri una bella voce maschile (06 del 17 Marzo) presentava la celebre ‘Habanera’ della Carmen bizetiana in ‘Qui comincia’, la breve trasmissione ‘culturale’ che apre i programmi di Rai3, ne citava qualche verso, sforzandosi di non massacrar troppo, e in parte riuscendoci, la dolce lingua della dolce Francia (non amata, pare, da Schopenhauer che la diceva, pare, ‘un italiano parlato col raffreddore’, affermazione da ritener valida solo come battuta di spirito) ma già al primo verso (L’amour est un oiseau rebelle) incappa in un oiseau pronunciato oiseu e in un rebelle pronunciato ribelle (le altre e, mute, un poco). Molto spesso le presentatrici e i presentatori che si alternano nella conduzione di un programma che ruota attorno ad una parola suggerita dal ‘libro del giorno’ di recente pubblicazione (non so con quali criteri e da chi scelto) e ad essa fanno riferimento anche per le musiche classiche di contorno, lasciano a desiderare sotto molti aspetti. Una presentatrice in particolare mi riesce insopportabile: parla a braccio e col risucchio, crede di essere originale ed invece è solo sciattamente ripetitiva, conosce solo superlativi assoluti e parole equivalenti, come meraviglioso, stupendo, straordinario (per compiacere autore ed editore?) per i libri che presenta, tutti son capolavori assoluti e i loro autori tutti stupendi. Mai mai mai un cenno di critica costruttiva, mai un errore, mai un discuto. Assurdo. Davvero un bel modo per stimolare l’ascoltatore a un pensare critico riflessivo! Più che l’analisi di un testo sembra pubblicità strapagata.
Stamane tocca ad una signora che si sforza lodevolmente di parlare a braccio, per questo motivo però spesso, come è naturale, divagando, ma non sempre con pertinenza, e spesso perdendo il filo del discorso; ma soprattutto rivelandosi la portabandiera dei superlodatori di cui sopra che non trovano un neo, dicesi un neo, nell’opera che presentano, ed è la cosa che più non si sopporta. Il libro che la Lei oggi presenta ha un bel titolo, “Poesia e Musica son due sorelle. Percorsi d’ascolto per le scuole” (Diego Angeli Editore), curato da Giuseppina La Pace e Nicola Badolato, esito di una ricerca promossa dall’Università di Bologna, e per la presentatrice si tratta primo, sicuramente il più nuovo, indiscutibilmente un capolavoro nell’ambito della didattica della musica. Non discuto il capolavoro, per non averlo ancora letto, sì il più nuovo ed il primo.
Si dà di fatto che già dagli anni Settanta-Ottanta il sottoscritto si sia interessato all’argomento e ne abbia fatto oggetto di una ricerca, e di una sistematica attività universitaria, affiancando ai suoi Corsi di Pedagogia Generale, Filosofia dell’Educazione, Metodologia dell’Educazione musicale presso RomaTre (Facoltà di Scienze della Formazione) un Laboratorio di Educazione all’Ascolto di cadenza settimanale, i cui esiti furono documentati in due volumi, Musica in prospettiva europea (SEAM, Roma, 1996) di Maria Teresa Luciani e Giulio Sforza, e Musica Mundi. Percorsi di Ascolto (Edizioni Kappa, Roma, 2004) di Maria Teresa Luciani con Introduzione di Giulio Sforza.
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Chàirete Dàimones!
Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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1061
Variazioni Goldberg.
Le interpreta, mentre scrivo, danzando sui tasti come uno scoiattolo fra i rami, la giovanissima da tutti giustamente celebrata Beatrice Rana su Rai5.
Davvero una ‘Montagna d’oro’ (così suona nella nostra lingua il cognome del primo esecutore delle Variazioni) elevata da Johann Sebastian Bach al buon Dio e alla sua figlia prediletta Frau Musika.
Il cielo, fosco fuori (Proserpina non brilla ancora nell’aria né per li campi esulta), si fa per esse radioso dentro di me.
Grazie, Ruscello sgorgante da Elicona.
*
Animula vagula blandula
Hospes comesque corporis,
Quae nunc abibis in loca
Pallidula rigida nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos…
Piccola anima vagabonda e leggiadra,
ospite e compagna del corpo.
che ora ti allontanerai in luoghi
pallidi rigidi desertici,
né più potrai, come suoli, spargere intorno a te la gioia...
La giovanissima età non impedì a un collegiale undicenne in ‘passeggiata’ settimanale per una Roma appena “liberata” (stuprata, meglio si direbbe, dai nuovi lanzichenecchi in divisa marocchina del generale barbaro Alphonse Juin: tutte le più belle Ville, dalla Borghese alla Glori, dalla Doria Pamphili alla Ada, ridotte a bordelli all’aria aperta) di cogliere il senso di profonda delicata malanconia di questi delicati versi adrianei scritti con mano malferma da un prigioniero sul muro dello scalone di quel tetro carcere al quale i papi avevano ridotto, col nome di Castel Sant’Angelo, il solenne Mausoleo di Adriano, e di mandarli a mente. Marguerite Yourcenar glieli ricorda ora, restituendoli integri nella loro insanabile malinconia.
*
Al ritorno da una visita medica, appena a casa mi accorgo di aver smarrito una catenina con due pesanti medaglie (forse la causa, con il loro annoso strusciare sulla mia pelle delicata, di lesioni sospette) doni preziosi, ambedue altamente evocativi: l’una dorata a forma di mandala carico di simboli esoterici, l’altra d’argento, inventatasi dalla sua donatrice, in forma di un ovale, delicatamente incisa in leggeri tratti con una quasi invisibile immagine d’apis argumentosa, chiaro riferimento alla leggenda platonica che vorrebbe il neonato filosofo nella culla visitato da un’ape inviata a deporre sulle sue labbruzze il dolcefluente miele dell’eloquenza. Mi fosse caduta, mi chiedo, durante la denudazione nello studio medico? Ne chiedo alla dottoressa che nega e promette di domandarne alle donne delle pulizie e alle segretarie.
Ricerca per tre giorni inutile.
Nel frattempo io, non rassegnato, come un segugio addestrato ripercorro più volte metro per metro a ritroso il breve percorso fatto dalla camera da letto alla porta, finché, con grida di esultanza, scovo il tesoro, e il come è in questo breve messaggio alla dottoressa: “Bonsoir Madame. Ho ritrovato il tesoro in una tasca di un paio di pantaloni sostituiti poco prima di uscire e già riposti nel caos dell’armadio. Tre ore di ricerche affannose, una decina di tappe percorse à rebours guidato dalla mia formidabile memoria centenaria!”. Al che lei, laconicamente: “Lei è sconvolgente! Lei è formidabile!”, con tali espressioni implicitamente sconfessando il luogo comune che vorrebbe i novantenni tutti irrimediabilmente rimbambiti.
Rimbambiti necessariamente i Vegliardi?
Obbligatoriamente rimbambiniti, forse, non, per Giove, necessariamente rimbambiti. Non fu detto il rim-bambini-mento condizione sine qua non per l’ingresso nel Regno? Si veda Mt 18,3: Nisi conversi fueritis et efficiamini sicut parvuli non intrabitis in Regnum Coelorum. E, si parva licet, si veda Richard Bach, quello del Nessun luogo è lontano: “Crescere non significa uscire d’infanzia”.
Forse mi resta una qualche speranza.
*
Sabato Santo, Anno Domini MMXXIII. Al Frainile regna un silenzio surreale. La neve cade lenta lenta lenta e a larghi fiocchi, quasi a voler ricoprire di una candida coltre la terra, mentre i tulipani gialli curiosi ed impavidi si godono lo spettacolo. Fosse il Cristo risorto che tenta di nascondere, almeno momentaneamente, le nefandezze che deturpano il mondo, visto che nemmeno a Lui sembra essere stato dato di poternelo ripulire? * Il primo regalo di nozze che mi feci circa sessanta anni fa fu questo gioiellino di organo elettronico da camera 'Farfisa, (colore noce chiaro, 52×55×96, due tastiere di tre ottave, una pedaliera di una ottava, 11 registri) che, al contrario del pianoforte Hanel ottocentesco, ha brillantemente resistito all'usura del tempo (anche il suo fratello più grande, in verità, ma troppo ingombrante per il mio piccolo appartamento romano, resiste al Frainile dove m'attende per le vacanze estive). Ieri per reagire alla sempre più incombente depressione senile ho deciso di riaccarezzare i suoi tasti giornalmente con le mie dita ancora non troppo anchilosate: chissà che un piccolo miracolo non s'operi, il mio gioiellino risponda alle mie carezze, e per esso avverta le dolci carezze di Frau Musika, ed essa continui a vegliare su me come un'amorevole, sensuale, celestiale Badante? * Buona Resurrezione con la violetta del Frainile che, incurante di freddo neve e gelo, è già risorta. E poi la dicono timida, fragile, 'mammola'! * Pubblico una foto dell’Ultima Cena di Daniele Crespi (1598-1630) condivisami da una figliola e brevemente osservo: Non è bellissima questa Ultima Cena di Daniele Crespi, morto ad appena 32 anni di peste, quella "manzoniana" del 1630, che preferisce il ‘familiare’ cerchio al monacal-convivial-convegnistico ferro di cavallo leonardesco? Io la preferisco a quella del più geniale bastardo della Storia. D’accordo Franco Moscetti: È vero Prof., è estremamente efficace il diverso punto di vista rispetto a quello leonardesco, e conferisce al dipinto una profondità ed una tridimensionalità davvero uniche. E Fio Rella: Bellissimo, non lo conoscevo. Eppure i due dipinti mi sembrano simili anche se inscritti dentro due diverse cornici spaziali: rettangolo per Leonardo, cerchio per Crespi. Colpisce molto il gesto affettuoso del Cristo verso l’apostolo/a (Giovanni/Maddalena?) alla sua destra: ciò che per Leonardo ha fatto scrivere fiumi di congetture e interpretazioni, qui è esplicitato in un chiaro abbraccio. Discorde, da poeta-pittore (ut pictura Poesis), Paolo Statuti: Caro Giulio, se me lo consenti, il mio modesto parere è questo: c'è troppa animazione, senza mancare di rispetto mi sembra più un'atmosfera da osteria. Ognuno parla slegato dagli altri. L'animazione c'è anche nella Cena di Leonardo, ma è più contenuta e l'attenzione di tutti è rivolta A Cristo. Ma in fondo diciamo come al solito che è questione di gusti. * Così i nipoti dell'era cibernetica prendono in giro i nonni. Evviva le app onnipotenti. È il mio breve commento al divertente video di un me canterino e danzante, tale ridotto dalla manipolazione virtuale di una mia immagine…luciferina ad opera di Jacopo Numa Leon. * Tristi pensari pasquali (pensierì pensati: inerti fatti'; 'pensieri pensanti: Atti puri -Reminiscenze gentiliane). Tamburi trombe bande militari cori guerreschi sempre e ovunque stimolarono nei secoli gli eserciti alle peggiori carneficine. Frau Musika nei secoli al servizio degli scellerati guerrafondai. Quando mai musica salvatrix, musica serenans, musica laetificans? Non son forse tremende sinfonie i rombi dei mostri che sul mondo, da cielo terra mare, seminano morte? Solo diversi i suoni, diversi i ritmi. Caduta delle ultime illusioni. Ancora non t’arrendi, Sforza? Non odi sui mondi squillare le trombe dell’apocalisse? * Balugina appena in questo giorno della fuga di Proserpina dal talamo inverecondo di Ade: sparita è la notturna caligine, il cielo sfavilla del suo più azzurro splendore. È dunque davvero Primavera. Ne annuncia a voce spiegata Madre Natura in ogni suo aspetto il ritorno: 'Persefone risorse e il mondo infiora / Pan non è morto, non è morto Pan!'. Solo Procne tace. Non ne scorgo i voli arabescanti in cielo, non mi giunge rasserenante il suo garrire. __________________ Chàirete Dàimones! Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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