Creato da giuliosforza il 28/11/2008
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Fine d'anno con Gregorovius. Plaisir d'amour
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Ultimo giorno dell’anno, ultima pagina dei Diari romani. Chiudo l’anno con Gregorovius. Il Prussiano mi ha fatto conoscere Roma e i suoi dintorni come nessuna guida avrebbe potuto fare, mi ha fatto vivere giorno dopo giorno gli eventi risorgimentali ed europei compresi tra il 1852 e il 1874 come nessun libro di Storia avrebbe potuto. Mi è parso di essergli contemporaneo. All’ultima pagina mi prende la stessa commozione che prende lui e sento mie le parole di San Gerolamo con cui egli con clude: haeret vox et singultus intercipiunt verba dictantis, si strozza la voce in gola e le parole si intercalano ai singhiozzi. Se si pensa che le parole son quelle che il grande Eremita scrive allorché riceve la notizia della caduta di Roma per opera delle orde di Alarico nel 410 (dum haec aguntur in Iebus, terribilis de occidente rumor adfertur obsideri Romam et auro salutem civium redimi spoliatosque rursum circumdari, ut post substantiam vitam quoque amitterent. haeret vox et singultus intercipiunt verba dictantis. capitur urbs quae totum cepit orbem, immo fame perit ante quam gladio et vix pauci, qui caperentur, inventi sunt. Mentre queste cose avvengono a Gerusalemme, giungono da occidente voci che Roma è assediata e che si compra con l’oro la salvezza dei cittadini e che dopo che una volta depredati vendono uccisi. Si strozza la voce ecc. Viene presa la Città che tutto il mondo prese, perisce di fame prima ancora che di spada, pochi sopravvissuti che possano esser fatti prigionieri…) si capisce di quale portata sia la sua emozione. E’ come se un mondo, il suo mondo, sparisse (dietro l’irruzione delle orde del nuovo Alarico, Vittorio Emanuele II di Savoia?). Partire da Roma è per lui come morire, le sue parole hanno l’aria di un testamento.
“La mia decisione è presa: voglio riunirmi di nuovo con i miei fratelli in Germania. La mia missione a Roma è terminata. Qui sono stato un ambasciatore, in forma modestissima,ma forse in una senso più elevato dei ministri diplomatici. Posso dire di me quello che Flavio Biondo disse di sé: ho creato ciò che ancora non c’era, ho schiarito undici secoli bui della città ed ho dato ai romani la storia del loro medio evo. Questo è il mio monumento. Posso dunque andarmene in pace.
Potrei rimanere ancora. Ma dentro di me c’un sentimento che si ribelle all’idea di sopravvivere a me stesso, qui, nella solitudine, e di invecchiare a Roma dove tutto diventa nuovo e si trasforma. E dove una vita nuova e invadente ricoprirà presto i vecchi sentieri ai quali mi sono affezionato, rendendoli irriconoscibili.
E’ una cosa tremenda che la più profonda e più intensa vita di me stesso stia per diventare passato. In questo periodo mi sono spesso svegliato di soprassalto durante la notte, afferrato dal pauroso pensiero di dover lasciare Roma. E nessuno qui pensa che ciò sia possibile. E’ un improvviso e violento distacco, come la tempesta che sradica un albero.
Quando sono sceso ieri dal Campidoglio. Era come se monumenti, statue e pietre mi chiamassero ad alta voce.
Quando, dalla finestra del mio appartamento in via Gregoriana. Che porta quasi il mio nome, guardavo la vasta Roma, ho visto davanti a me -e questo per quattordici lunghi anni- San Pietro, il Vaticano, Castel Sant’Angelo, il Campidoglio e molti altri monumenti. Le loro immagini si rispecchiavano, per così dire, sulla carta quando, seduto a questo tavolo,lavoravo alla Storia; essi ispiravano ed illustravano continuamente l’opera, che man mano nasceva, dandole colore locale e personalità storica. Ora tutto questo svanisce e diventa etereo, come il mondo magico di Prospero nella “Tempesta” di Shakespeare.
Roma vale! Haeret vox et singultus intercipiunt verba dictantis”.
*
Malinconia di fine anno. Sentimento tragico del tempo. Sì, perché nei tramonti non s’ha memoria delle chiarità della albe. Domani il giorno risorgerà, si dice. E chi lo dice? Vivrai, domani, per dirlo? E nulla è, se non sei tu a farlo essere, affermandolo.
Vadano dunque altri a folleggiare, a impazzire, a stordirsi nei veglioni. A me un pacato trapasso di quella vuota convenzione che dicono tempo s’addice, una raccolta e serena complainte, come quella che andrò a suonare al mio organo, l’unica voce cara che rompa i silenzi della mia casa. Suonerò e sussurrerò, io espertissimo d’abbandoni, la romanza languida che degli abbandoni meglio descrive la pena, quel Plaisir d’amour ne dure qu’un moment, chagrin d’amour dure toute la vie del romantico francese Jean-Pierre Claris de Florian che il tedesco Johann Paul Aegidius Schwarzendorf rivestì di una melodia dolcissima e nostalgica, raro esempio di sposalizio perfetto tra musica e parole.
Plaisir d'amour ne dure qu'un moment / Chagrin d'amour dure toute la vie.
J'ai tout quitté pour l'ingrate Sylvie / Elle me quitte et prend un autre amant.
Plaisir d'amour ne dure qu'un moment / Chagrin d'amour dure toute la vie.
"Tant que cette eau coulera doucement / Vers ce ruisseau qui borde la prairie,
Je t'aimerai", me répétait Sylvie. L'eau coule encor, elle a changé pourtant.
Plaisir d'amour ne dure qu'un moment / Chagrin d'amour dure toute la vie.
Un solo istante dura il piacere d’amore, tutta la vita la sua pena. Tutto lasciai per Sylvie l’ingrata, lei mi lascia per un altro amante. Un solo istante dura il piacere d’amore, tutta la vita la sua pena. “Finché quest’acqua scorrerà dolcemente verso il ruscello ai bordi della prateria, io t’amerò”, mi ripeteva Sylvie. Il ruscello scorre ancora, lei ha cambiato.
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Chàirete Dàimones!
Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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