Creato da giuliosforza il 28/11/2008
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Ancora di "Selvaggi lettori"
Post 863
Nel Post precedente ho commesso una cattiveria denunciando con eccessiva severità la sciatteria di due pagine di Lettori selvaggi, l’opera giuntiana di Giuseppe Montesano. Non è che ne sia pentito, ma è anche vero che non è possibile e moralmente lecito estendere la condanna di due pagine a duemila prima ancora d’averle lette. E’ quindi per onestà che trascrivo qui, a mo’ di riparazione, due delle pagine introduttive, che trovo (pur con qualche riserva su stile, chiarezza di concetti e d’espressione) belle e in grado di correggere la primitiva impressione negativa. Quel che qui è scritto allarga, completa, se non rovescia, anche la prospettiva sull’ingresso nell’alfabeto da me precedentemente espressa.
«La vita è altrove, diceva Rimbaud, ma se la vita vera è altrove non vuol dire che questo mondo miracoloso va abbandonato! Al contrario: vuol dire amare ancora di più le apparenze e le superfici, l’ordine e la bellezza, il lusso, la calma e la voluttà. Il mondo falso che ci viene inflitto non basta a nessuno, a tutte le vite manca qualcosa di essenziale, e per trovare ciò che manca bisogna saperlo immaginare. Leggere vuol dire evocare apparizioni che ci mostrano tutte le vite che potremmo avere, e tutti i mondi che ci sono dentro il mondo. Non è una operazione facile, perché la solitudine in cui si attua quella sorta di stregoneria evocatoria che è la lettura viene temuta da chi può concedersela, e tolta a chi potrebbe desiderarla. Tutto sembra congiurare contro la magia che moltiplica il nostro io quando siamo l’avventuroso viaggio di Ulisse o quando siamo l’avventuroso pensiero di Platone, la magia che sale come un brivido estatico e voluttuoso quando siamo Beethoven o Coltrane, la magia che ci fa uscire da noi stessi quando l’occhio sprofonda nel mare da cui nasce eternamente la Venere di Botticelli e nella notte in cui si inabissa luminoso il campo di grano con i corvi di Van Gogh. La vita vera è altrove, eppure l’unico altrove che esiste è qui: bisogna trovarlo o si è morti. La lettura deve evadere dall’obbligo dell’attualità che è solo la decrepitudine che la nube mediatica vuole vendere come new: leggere è una delle poche armi rimaste a chi non voglia soccombere all’onnipresente sistema della menzogna che cambia persino il senso delle parole. Nell’immensa prigione a cielo aperto della Russia sovietica Platonov scriveva: “Da noi si decide ogni cosa a maggioranza, ma quasi tutti sono analfabeti, e una volta o l’altra andrà a finire che gli analfabeti stabiliranno di far dimenticare le lettere agli istruiti. Tanto più che far disimparare l’alfabeto è più comodo che insegnarlo daccapo a molti…” Le parole di Platonov sono confinate in uno ieri fisicamente totalitario? O sono attuali nell’oggi di un pensiero totalitario che domani sarà anche fisico? In questo che è ormai un post-mondo il gesto di sottrarsi per qualche ora alla giostra della realtà per vedere la realtà smascherata nelle pagine dei libri, è un gesto ribelle. Nella lettura il lettore si ferma, ferma il mondo e lo guarda e lo ascolta nel silenzio, senza lasciarsi trascinare in esso a occhi bendati. Le opere di scrittori e musicisti e filosofi, quando raggiungono l’incandescenza sensuale e conoscitiva che hanno nei Maestri, sono una via concreta di fuga dal pensare e sentire da ipnotizzati: svelano come la menzogna delle parole imprigiona le nostre vite, ma mostrano anche come le parole in rivolta possono scioglierci dalla rete di una realtà spacciata come l’unica possibile da ipnotizzatori ipocriti e ipnotizzati consenzienti. Ma chi parla di letteratura e musica e filosofia oggi, in questo momento, in questo mondo, in questo orrore, non può fare a meno di sentirsi rintoccare in testa un’immagine di Céline: “A Bisanzio discutevano sul sesso degli angeli mentre i turchi stavano già spaccando le mura,,,”. Allora bisogna lasciar perdere tutto? No, perché c’è un’altra immagine che viene a visitarci in questo crepuscolo luccicante, quella di Socrate che, condannato a morte, certo della fine, pensa che sia venuto il momento di iniziare a suonare il flauto. Oggi la lettura somiglia molto a quel “suonare il flauto”: nel cono della lampada che chiude nel buio il mondo esteriore per qualche ora, nell’insonnia nevrotica che ci perseguita o in uno dei rari momenti di pace fatta con noi stessi e con tutto, si entra in altre realtà per scoprire chi siamo davvero. Forse il Sileno logico che vagava per Atene cercando una cura per la verità ammalata, voleva restare attento e vigile anche se tutto intorno a lui precipitava nell’insensato e nell’approssimativo: e fare una cosa inutile, o che a tutti sembrava tale, me farla con tutte le facoltà sveglie nonostante il pericolo, era per il vecchio Sileno logico la massima forza di resistenza, l’estremo modo per restare fedele a bellezza e verità» (pp. 7-8)
Non sono in grado ora di verificare l’esattezza delle citazioni di Platone, Platonov e Céline. Vorrei solo per curiosità osservare che le efficaci parole attribuite a Céline ricordano tanto quelle con cui si è soliti riassumere l’amaro commento di Livio alla descrizione del lungo assedio e della caduta di Sagunto da lui stesso fatta nel libro XXI dei suoi Ab Urbe condita libri CXLII: «Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur».
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Chàirete Dàimones!
Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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