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In "memoria" del Sessantotto. Omaggio a Karl Marx

Post n°984 pubblicato il 19 Maggio 2018 da giuliosforza

Post 904

    In ‘memoria’ del Sessantotto
    Oltre che il bicentenario di Marx quest’anno si celebra il cinquantenario del 68. Io non so trarre consuntivi, non so se è vero che i sessantottini italiani si sono tutti benissimo integrati nella società e nel sistema contro cui si scagliavano; ricordo gli eventi, anche tragici, della mia università; ricordo le provocazioni e le minacce a me (giovane abbastanza allora per capire le ragioni del disagio, vecchio abbastanza per intenderne la natura velleitaria e non piegarmi agli scalmanati che intendevano impormi il modo di far cultura e la maniera di trasmetterla -contenuti e metodo!), perché mi rifiutavo di mettere il cervello all’ammasso; ricordo che mi piacque il Maggio francese, padre di tutti gli altri maggi europei, e il suo grido prossimo alla blasfemia “Ni Dieu ni Mao ni Castro”, da noi inosato e inosabile; mi piacque da parte di intellettuali di ogni estrazione l’approfondita riflessione che sul fenomeno si fece oltr’alpe; e ricordo tante altre cose che scrissi nel post del 28 Ottobre 2014 sul mio blog, che qui appresso perciò ripropongo (non senza inviare un pensiero commosso a Jean Onimus, scomparso nel 2007 a novantotto anni) e che rappresenta il mio contributo a quel Sessantotto che nel suo meglio riposa in pace, e nel suo peggio è tentato di resuscitare. Quod di avertant
   

“Post 755 (803 secondo la numerazione automatica di Libero)
   

    Jean Onimus, L'asphyxie et le cri. Autori vari, Les idéologies dans le monde actuel
   

    Tra il 1970 e il 1978, prigioniero di una angusta mansarda la cui piccola finestra ovale, somigliante all’oblò dell’arca di Noè, dava su quel mare di nebbia che nelle albe estive è la Piana del Cavaliere, e sulle montagne del primo Appennino abruzzese, tradussi per l’Editore Armando vari libri, tre dei quali soprattutto mi piace ricordare. Ero allora in piena crisi mentale ed esistenziale, ed essi più di tutti mi aiutarono a superarla. Vissero con me il mio dramma solitario, insieme ai giovani amici che nelle alte notti, sapendomì colà recluso, appostati tra le rocce del castello diruto, ad alta voce mi invitavano alle loro bisbocce, delle quali cento volte ero stato l’animatore. O tempora!
   

    Il primo fu, nel ’71, Les idéologies dans le monde actuel, di autori vari (tra i quali Max Gallo, Michel Amiot, Jean Onimus. Jacques Merleau-Ponty). Era scritto in quarta di copertina: “Al di là delle tensioni sociali, economiche e politiche che lo dilaniano, il mondo attuale è il campo di battaglia delle ideologie. E’ che in una società tecnologica, sono le ideologie a produrre il valore e a dare un senso all’esistenza. In qual misura tali sistemi di idee sono dei paraventi, delle illusioni, una non-scienza? In qual misura creano uno spazio mentale indispensabile all’equilibrio umano? Quali ne sono i fondamenti o le origini? E’ possibile trascenderle? In quale misura sono delle filosofie, dei linguaggi, degli strumenti di lotta o degli alibi? Tali sono le domande, di una evidente attualità, alle quali questo libro tenta di dare una risposta”.
    Certo il libro è datato, oggi le ideologie sembrano tramontate, molti ne lamentano nostalgicamente la fine, un vento disorientante di relativismo soffia sul mondo: Ma non è il relativismo stesso una ideologia, la… peggiore delle ideologie? Non per me, se serve a risvegliare il senso critico, a dare una scossa alle coscienze addormentate, assopite, oppiate. Ché le ideologie saran pure scomparse, ma di sicuro non, ahimé, gli oppiacei!
Il secondo fu, sempre del Settantuno,
L’asphyxie et le cri, di Jean Onimus. Lo spirito del libro è già tutto nel titolo, l’asfissia e il grido. Anche questo testo è naturalmente datato, di ben altra natura sono oggi le inquietudini della gioventù, ben diversi i suoi problemi che non quelli della società del benessere sessantottina. Eppure a tanta distanza di anni la passione del professore nizzardo (giovane allora quanto bastava perché non fosse accusato di giovanilismo) conserva ancora tutta la sua freschezza e condividerla non è difficile. Egli può essere ritenuto una sorta di Marcuse francese, meno pedantemente sociologista (Onimus ce l’ha coi sociologi sistematici e le loro asfittiche e sovente settarie analisi del corpo sociale trattato non come organismo vivo ma cadavere da sezionare -pour disséquer il y faut le cadavre), All’uscita del libro, pubblicato dalla Desclée De Brouwer, editrice di ispirazione cristiana, la stampa francese si divise: chi applaudì, chi condannò, chi sospese il giudizio; tutte lusinghiere quelle qui di seguito riportate, delle quali due cattoliche, stranamente concordanti (in un organismo complesso come quello cattolico militante molte -troppe?- son le anime a convivere). Scrisse Maurice Clavel, il vivace ed inquieto giornalista e filosofo che visse sulla sua pelle varie esperienze, da quella pétainiana, a quella resistenziale a quella gaullista, sul Nouvel Observateur: “Vi trovo (in L’asphyxie et le cri) uno stupore, una contestazione radicale quanto la mia, e sotto certi aspetti maggiore, sotto forma di un canto d’amore e di un inno di gratitudine verso la gioventù dell’Occidente, ribelle, repressa, malata e messa al bando, che ha semplicemente salvato il mondo o gli ha offerto una possibilità di salvezza”. 
    Lucien Guissard su
La Croix, il principale organo della stampa cattolica francese: “ E se fossero i giovani ad aver ragione, perché i loro occhi sono puri e le loro esigenze ancora preservate dagli accomodamenti e i tradimenti degli adulti? Non si può rigettare con una alzata di spalle questa domanda. L’Asphyxie et le cri è un tentativo di risposta. L’autore vi ha messo cuore, lealtà, un sentimento acuto delle ricchezze morali il cui doloroso inventario è vissuto in una effervescenza davvero rivoluzionaria”.
    Meno diffuso, ma altrettanto partecipe, A. Blanchet, su
Etudes, la famosa rivista dei gesuiti francesi fondata nel 1856 (sul modello dell’italiana La Civiltà cattolica, fondata a Napoli sei anni prima): “Jean Onimus prende deliberatamente la difesa della gioventù ribelle, che affonda in un universo sempre più scientistico, meccanicistico, conformista, prosaico… “.
Io per mia parte uscii da quelle letture assai più prudente. Avevo vissuto sulla mia pelle il Sessantotto, che all’Università di Roma era stato particolarmente violento, testimone, pur se non oculare, di due morti violente. Libertario ed anarchico per natura, avrei dovuto essere con gli studenti senza tentennamenti, e potuto cavalcare con naturalezza la tigre sessantottina, come molti dei miei giovani colleghi fecero assicurandosi veloci e prestigiose carriere e grasse prebende. Ma il discorso si fa qui complesso, e merita che lo affronti a parte. Lo farò in uno dei prossimi post, dopo aver riferito del terzo libro che in quegli anni tradussi, sicuramente il più originale e provocatorio, almeno in Italia, ove il nome di Karl Marx, con quello di Mao, non poteva in quella temperie politica e culturale essere pronunciato invano”.

 

*

    Omaggio a Marx, un altro immenso tedesco, nel suo bicentenario. 
Non fui e non sono marxista, sempre, anche se ereticamente, ma non alla maniera di Marx, hegeliano. Eppure a Marx dedicai quasi un anno della mia vita traducendo per Armando Armando una delle sue più belle biografie scritte, con acume, "esprit de finesse" ed irriverenza tutti femminili, dalla francese Françoise Lévy. Meriterebbe una ristampa, Ma Armando Armando da tempo non è più, e la casa editrice che porta il sua nome è tutt'altra cosa...

    Voglio precisare che il libro in questione, Karl Marx. Storia di un borghese tedesco, non è un libro scritto da un marxista sul marxismo, ma da una giovane (allora) professoressa dell'Università di Nizza, la radicale ebrea Françoise Lévy, che con una documentatissima indagine guarda il Marx privato dal buco della serratura, restituendocelo in tutta la sua umanità, in tutte le sue debolezze, in tutte le sue incongruenze: un'opera di demitizzazione che al marxista 'critico' non dovrebbe dispiacere. Nell'82 il libro fece scandalo, non dovrebbe farlo oggi che, grazie agli dei, si sono infranti i monoliti delle ideologie. Riproduco la quarta di copertina che molto bene sintetizza il senso dell'opera della Lévy.

    “ Non mancano nella storia della cultura esempi di uomini celebri, artefici di autentici monumenti del pensiero, le cui vicende, sottoposte a una risentita indagine, finiscono per offrire una sconcertante smentita alla ideologia professata. Si pensi a Fröbel oppure a Rousseau, le cui meschinità, le cui miserie, le cui cadute sul piano della vita vissutasono il rovescio esatto delle finissime nuances che animano lo spirito del solitario di Ginevra.

    E’ il caso anche di questo Karl Marx affidato alle cure di Françoise Lévy, la quale in limine al suo saggio dichiara di voler deliberatamente assumere nei riguardi del filosofo di Treviri il punto di vista di colui che spia con puntiglio le debolezze del proprio eroe, cercando di sorprenderlo nella sua intimità più indifesa.

    Vediamo così delinearsi davanti ai nostri occhi il ritratto sorprendente d’un Marx en pantoufles, afflitto da manie e comportamenti che più borghesi e filistei non si saprebbe immaginare: il descrittore acerrimo delle contraddizioni del capitalismo, il teorico del feticismo alienante delle cose, insegue avidamente i piaceri, gli agi, i confort che la forza del denaro assicura; la ‘dimora’, luogo quasi demoniaco della interiorità borghese, lo affascina a tal segno da fargli ricercare case sempre più comode e belle. Non gli sono estranei neppure gli amori ancillari, fra cui spicca quello per la servante au grand coeur; né i più meschini pregiudizi, quando si tratta di provvedere la dote alle proprie figlie.

    Sciovinista, con una punta di predilezione per le virtù del popolo tedesco, da fargli pericolosamente ormeggiare il Deutschland über alles, egli giunge ad avere un atteggiamento distaccato persino nei confronti dei propri correligionari, di cui stigmatizza le deviazioni culturali.

Quasi ad ogni pagina di questo lungo inseguimento della duplicità marxiana scovata dalla Lèvy, di sotto all’alterigia dell’autore d’un nuovo vangelo, finisce così per trasparire la faccia del bonhomme avvilito in piccole cure, del pater familias attaccato alla roba.

Un Marx che scende dal piedistallo, dove l’avevano pomposamente collocato e riverito per più di un secolo i suoi apologeti?

    Anche da noi, recentemente, qualcuno ha cominciato per suo conto a tagliuzzare la barba al profeta, facendogli lo sfregio di preferirgli addirittura Proudhon. Ma la Lévy non propone soluzioni alternative, non va in cerca di ideologie altrettanto fumose ed erronee, resta all’interno del problema Marx, uomo e pensatore. La vivisezione rigorosa a cui lo sottopone, documenta con materiale di primissima mano e con notizie spesso inedite, lungo un excursus che va dalla stagione degli studi agli anni napoleonici, è di quelle che lasciano il segno, anche sui lettori più ideologizzati.”

 

 _______________________

 

Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 
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