Creato da giuliosforza il 28/11/2008
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Alba al Frainile, "Ottetto delle dissonanze"
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L’immenso noce che mi impedisce la vista della casa paterna e dei ruderi della Rocca Borghese che la sovrastano, e quello più piccolo (che piantai nel 1978 in concomitanza con la posa della prima pietra del mio rifugio che avrei voluto di pace e fu di guerra), i cui rami ora quasi entrano per la finestrella della mia cella come a darmi il buon giorno, oggi sono talmente immoti da parer scolpiti nell’aria del mattino (sono le sei e venti solari): non un alito di vento, non un canto d’uccelli fra i rami, preannuncio di una delle giornate più torride di questo solleone. Anche le noci, abbondanti e polpose, stanno, incastrate come tessere di un mosaico nell’intonaco di una parete d’aria solidificata. Ma vengo da una notte tranquilla, sorrisa di sogni leggiadri, d’una inattesa levità. E prima che le cicale intonino la loro nenia, suonerò all’organo un adagio buxtehudiano, sperando di richiamare almeno un cinguettio di passeri e rondini, così pigri oggi ad apparire in questo cielo d’un azzurro opacizzato dal sole che avanza dominatore, superati gli ostacoli delle vette di Maiella e Gran Sasso, nel suo tragitto ormai sgombro. Oh Elio accecante, non illuminante!
*
Giorni intensi, questi miei nella mia fresca clausura. Giorni di letture e scritture amene o impegnative, ma tutte rilassanti e rasserenanti. Lasciai nell’Urbe affocata le mie angosce di malattia e di morte, e mi rifugiai là dove nacqui, a sforzarmi a rinascere. Sono persino tentato di riprendere a poetare: I Canti di Pan e ritmi del thiaso, L’Evità, Aquae nuntiae aquae iuliae attendono da troppo tempo un quarto fratello che serenamente li accompagni all’epilogo. Accoglierà i versi del tramonto, che potrebbero titolarsi Non pensati Pensari ,il volumetto dalle pagine di carta paglia rilegato in sughero e cuoio recatomi in gradito dono da Laura dalla Spagna, e che somiglia a uno scrigno: lo scrigno delle mie ultime …perle?
Pur invocati, passeri e rondini non rispondono al richiamo. Incurante mi rifugio sotto il noce, a lasciar che intoni lei, la mia anima, il mattutino al primo sole i cui raggi tra i fitti rami stentano a trapassare, e mi immergo nella lettura di Annus mirabilis, strano romanzo storico di Geraldine Brooks, giornalista australiana inviata di guerra trapiantata in America, che narra in prima persona le vicende orribili della peste che decimò la popolazione di un villaggio presso Londra nel 1665-66, in uno strano stile tragico e insieme lieve, come tragiche son le vicende del pastore Mesallion, di suo moglie Elenor e della loro serva Anna (la narratrice) dediti a curar piaghe, ad assistere moribondi, a scavar fosse, a seppellire morti e ad evocare fantasmi nelle miniere. Strano libro, insisto, che dovrebbe forse chiamarsi Annus terribilis; o forse gli sta bene mirabilis perché la protagonista finirà, tornando a vivere, tra i giardini fioriti e le stanze arabescate di un Harem? Brooks non stona col Pasolini di Una vita violenta, che rileggo a sessanta anni dall’uscita, col Blake bucolico dei Canti dell’innocenza e dell’esperienza, col Boukowski ‘maledetto’ di Ehi, Kafka, col Bernhard l’iconoclasta di Antichi Maestri; con gli autori dell’Ecclesiaste, del Cantico dei cantici, del Libro di Giobbe: otto stili, otto universi, così vicini, così lontani: un “Ottetto delle dissonanze” che non stona con la sinfonia classica di una Natura qui ancora miracolosamente incontaminata.
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Chàirete Dàimones!
Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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