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"Ce l'ho con l'Ilaria". Sagre al Borgo

Post n°1012 pubblicato il 12 Agosto 2019 da giuliosforza

 

Post 934

    Il 9 luglio 1981 pubblicai su «L’Italia del popolo», e poi ripresi nel volume Studi Variazioni Divagazioni (Bulzoni, Roma, 1986, pp. 317 e segg.), un breve articolo dal titolo “Ce l’ho con l’Ilaria”. L’Ilaria in questione era la bella e brava attrice fiorentina  Ilaria Occhini, nipote prediletta di Giovanni Papini, andata sposa al noto scrittore napoletano Raffaele La Capria, e recentemente scomparsa. Ripubblicando qui l’articolo intendo onorare la sua memoria in maniera un po’ diversa, insolita per un necrologio. Ma criticando un episodio di cui fu protagonista, dal quale per altro implicitamente emergono la mia stima e il mio affetto per il suo  personaggio e quello del grande Avo, credo di compiere una azione eticamente corretta. Oggi probabilmente attenuerei il tono del mio intervento ma non la sostanza. Alla  sua indiscussa grandezza non gioverebbe una  palinodia.

    «Intorno agli anni Sessanta insegnavo filosofia in un Liceo della Capitale. Un liceo dal nome pomposo, se non glorioso, che ammassava, nelle sue stipatissime aule, il più variegato gregge borghese in cui mi sia stato dato di imbattermi: rampolli di villani male inciviliti resi boriosi dal facile quattrino, di benpensanti illusi di salvaguardare per la prole in una scuola confessionale fede e costumi aviti, di politici di ogni colore, di finanzieri, di professionisti illustri o solo contingentemente egregi (ex grege emergenti come suol dirsi, per corna o per campana; per compiacenza sempre o per ordine dei superiori): un materiale umano composito, da amare svisceratamente (non ero, come non sono, di quelli che fan pesare sui figli le colpe di padri), da curare con diligenza perché in grado, in un avvenire che sarebbe comunque loro appartenuto, di operare positivamente in situazioni socialmente privilegiate. A quei giovani io giovane inquieto regalai un Circolo culturale intitolato a Giovanni Papini: un Uomo cui dovevo il meglio della mia formazione, messo allora al bando dalla cultura ufficiale, rappresentata in buona parte da personaggi a suo tempo frustati e stroncati dall’implacabile Gianfalco. L’intitolazione del Circolo al Fiorentino voleva essere, è facile intuirlo, una provocazione, una pubblica dichiarazione di anticonformismo, un giovanile insulto alla prassi del volgare asservimento che non avrebbero dovuto dispiacere ad una giovane come Ilaria Occhini, nepote del grande Vecchio che l’amava, lo testimonia ogni passo del Diario, di un amore sconfinato e riponeva in essa tutte le sue speranze (“Mi resta solo l’Ilaria”).

   Scrissi all’Ilaria per interessarla alle nostre attività. Avevo già avuto il concreto incoraggiamento (le cui prove gelosamente custodisco nel mio archivio, insieme alla foto che mi vede chino sulla tomba di Giovanni al cimitero delle Porte sante, prima tappa del mio viaggio di nozze: la donna che me la scattò, e che doveva diventare la madre  della Beatrice, della Laura e della Fiammetta, subì allora la mia prima imperdonabile violenza, la prima di una serie ignobile che l’avrebbero giustamente sospinta a cercar poi la sua pace lungi dai cemeterii) avevo già avuto, dicevo, l’incoraggiamento di Piero Bargellini ( e per suo tramite della signora Giacinta), di Giuseppe Prezzolini, di Vasco Pratolini, di Vintila Horia appena frodato del ‘Concourt’, di Thomas Merton, reduce dalla fatiche de La Montagna dalle sette balze. Ma l’Ilaria, Lei,  non rispose. Era allora impegnata a costruirsi, a rifinire i suoi stupendi tratti; forgiava la sua complessa immagine privata in procinto di divenir, per la gioia di noi tutti, pubblica. Non rispose. Io pensai male, ma indubbiamente mal pensai: perché, mi chiedevo, una Ilaria, papiniana progenie, deve essere insensibile agli sforzi di un giovane professore che tenta nel nome di Papini di dilatare gli angusti spazi della scuola onde essa non sia, come la rilkiana gloria, quella “demolizione pubblica di un essere in divenire, nel cui cantiere penetra la folla per rubargli le pietre” (I quaderni di Malte Laurids Brigge, Garzanti 1974, p. 62) che purtroppo è? Che le risulti, ora, scomoda la figura dell’Avo? Altre cose pensai e malamente pensai. Perché l’Ilaria non rispose agli ammiccamenti semplicemente perché Ilaria, e non Gertrude, e non sventurata.

   Passò qualche anno e salii in Cattedra, una cattedrina alla Sapienza, vieppiù alimentai nonostante gli smacchi fottuti i miei sogni di gloria, iniziai a scrivere sui giornali, e per un grande giornale sulla via del tramonto (avrebbe di lì a poco chiuso: iellato io o iettatore?) concepii un pezzo che avrebbe dovuto essere l’ultimo della mia collaborazione: Papini e i giovani. Ribussai, testardo, da Ilaria. Le scrissi una lettera che era una lettera d’amore. Le dissi tutto quello che pensavo di lei e di suo Nonno, la supplicai, piansi, la scongiurai: m’inviasse una testimonianza tratta dai suoi certo innumeri ricordi perché io potessi fare non dico uno scoop, semplicemente un elzeviro fresco, originale, scoppiettante, ricco di amabili sfottimenti, come quello che una volta il Nonno le aveva dettato in occasione di una visita del giovane Carlo Bo (cito a mente: Bo nato e sorto non sappiamo come – ha l’ingegno più corto del cognome). Ma l’Ilaria ancora una volta fu sorda alle mie invocazioni. O gelosa dei suoi ricordi, o obbligata a tacere da chi teneva ambo le chiavi del suo cuore, o inumana: ipotesi di cui solo la prima per cotanta Nepote era possibile. Che semplicemente le mie invocazioni (poste allora disumane!) non le fossero giunte?.

   Sta di fatto che l’Ilaria troppo a lungo (forse non sollecitata da ben altri che da me) ha continuato a tacere. Nel frattempo è stato degnamente celebrato il centenario papiniano, molti dei frustati e degli stroncati sono usciti di scena, sono iniziate le revisioni critiche eccetera eccetera, i mass-media (fremete ossa giovannee) si sono accorti di Lui, i Sopravvissuti gli han reso giustizia. E finalmente l’Ilria ha parlato. Ignoro chi sia il fortunato, potente sul di lei cuore e sulla di lei riservatezza, che è riuscito a carpirle i più cari segreti. Sul quinto numero di “Prospettive libri” escono Lettere inedite di Giovanni Papini alla nipote Ilaria Occhini, con interventi di Francesco Mercadante, Giuseppe Prezzolini, Sergio Quinzio, Anna Maria Greco. È Un evento da salutare con gioia. No ho avuto ancor modo di leggerle, ma non è difficile immaginare contenuto e stile. L’ultimo Papini  miracolosamente sopravvissuto al totale disfacimento del suo corpo, da esse penso emerga in tutta la sua tragica umanità, affinata dalla sofferenza, liberata delle incrostazioni scostanti del titanismo iconoclastico che a troppi dispiacque, grandissima umanità delle Schegge. La mia speranza è che le lettere non abbian subito altre censure, totali o parziali, che non sian quelle dovute al rispetto del privato, e che rappresentino solo il prologo di una più vasta rivelazione dell’anima papiniana a tutti, in primo luogo a quanti, con me, avvertono di appartenere al numero di quei fedeli sconosciuti che egli sentiva di amare di un amore puntuale e personale, per una sorta di miracolo che solo l’amore, per l’appunto, sa fare. È bene che l’Ilaria continui ad aprirci il suo cuore e a ridarci Lui senza riserve: Egli appartiene anche a noi. Solo a questa condizione smetterò di avercela con l’Ilaria».

 Da 23 giorni la figlia di Barna Occhini e di Gioconda Papini ha raggiunto i suoi cari. Sia festa per Essi in Cielo.

 

*

   Dopo la rumorosa sagra degli gnocchi al sugo di pecora (uno dei più trucidi e barbari riti tramandatici dalla … “civiltà” contadina) il mio borgo s’appresta ad osannare la Vergine  Illuminata, con celebrazioni  anch’esse rimaste incorrotte da secoli: fiaccolata di vari chilometri dal santuario campestre alla Chiesa parrocchiale, processione nei due giorni seguenti con statue di santi protettori e comprotettori, botti e suoni e canti sguaiati che  mantengono quel tanto di dionisiaco (quel tutto per la verità, l’apollineo non abitando da secoli queste lande, di cultura infeconde). Io sono solito per lo più trascorrere questi giorni di giubilo paesano in solitudine nel mio eremo (ma per anni ho dato il mio contributo sottolineando, spero nobilitando, col mio coro polifonico i momenti liturgici)  o in un Grand Tour al contrario per le strade di Francia o di Germania. Ma ovunque mi trovi sempre il mio pensiero, sovente irriverente (misereor super turbam)  per troppo amore, ed il mio sentimento accompagnano le folle, pellegrinanti con più o meno sincera e profonda fede dietro l’immagine dell’Iside cristiana per le vie tribolate del borgo offrendo all’Illuminata le loro pene e le loro speranze. Non ho fede, ma comprendo la fede. Il Nolano e il Francofortese mi hanno educato al suo rispetto, e sempre di più sono con essi convinto darsi una fede del dotto ed una dell’”ignorante”: Wer Wissenschaft  und Kunst besitzt, der hat auch Religion. Wer jede beide nicht besitzt, der habe Religion. Chi possiede scienza ed arte ha già la sua religione. Chi nessuna delle due possiede costui abbia la Religione. Imperativo categorico.

________________

  

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

   

 

 

 
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