Creato da giuliosforza il 28/11/2008
Riflessione filosofico-poetico-musicale
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Frosini-Timpano. Tieck, Vittoria Accorombona. Giorgio Gemisto Pletone, Le Leggi
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Riferita com’è agli Artisti veraci, l’affermazione goethiana del West-oestlicher Divan (Wiederfinden, versi 39-40) non suona blasfema:
“Allah braucht nicht mehr zu schaffen / Wir erschaffen seine Welt”.
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Or è circa un mese, al teatro Quarticciolo Elvira Frosini e Daniele Timpano hanno ricordato il loro primo decennio di matrimonio, riproponendo il loro primo spettacolo insieme, Sì l’ammore no, alla presenza, fra altri patiti di Melpomene, del loro celebrante Attilio Scarpellini, uno dei conduttori di “Qui comincia”, il programma di parole e suoni col quale Rai tre inizia la sua programmazione giornaliera. Colui che per me fino a domenica sera era stato solo una bella, piena, piana, aristocratica voce, ora, seduto accanto a me, si rivelava anche, inaspettatamente, un solenne volto statuario contornato di barba e di folta capigliatura; voce e volto si riponevano nel mio immaginario a vicenda in discussione, stentavano a riconoscersi, a ricomporsi in unità, l’una l’altro, l’altro l’una reinventando e risignificando.
Eravamo in tanti - nella sala che da sola, lodevole tentativo, si sforza (si illude?) di riqualificare una borgata famigerata quale fu, e un poco ancora è ancora, il Quarticciolo - amici ed estimatori a festeggiare i due proteiformi (e prometeici, non rinunciatari epimeteici, nelle loro sfide stravinte) artisti ormai nel pieno della loro affermazione, assurti all’Olimpo del teatro d’invenzione e di provocazione, ad applaudire la loro immane, per essi gaudiosa, per noi letificante fatica, che ha finalmente ricevuto gli omaggi anche di quei critici togati che all’inizio prudentemente non si erano sbilanciati, anzi un poco snobbando le intemperanze dell’originale coppia di vita e di palcoscenico Frosini-Timpano. Intemperanze ho detto, e intemperanze confermo; è tale carattere di intemperanza a rendere a me estremamente interessanti le tematiche che essi usano mettere in scena scanzonatamente e che, quel carattere mancando, non riceverebbero le mie lodi, assai perplesso io essendo, dal versante critico- storico, sulla interpretazione che Elvira e Daniele danno dei fenomeni e degli eventi da essi con brillantissima verve drammatica inscenati. Al cui riguardo con Bargellini amo ripetere: “Ci penserà l’autunno a far seccumi. Mentre i sempreverdi resisteranno alle tramontane, il tempo farà fascine della stipa. Il Tempo, molto più crudele del vostro Piero Bargellini”. Questa conclusione della prefazione al Pian dei giullari, l’‘intemperante’ storia della letteratura dello scrittore fiorentino prestato alla politica (fu a lungo stimato sindaco di Firenze) col quale ebbi il piacere, per la comune passione papiniana, di corrispondere, ben s’attaglia alla conclusione di queste mie poche righe, nell’attesa di nuove intemperanze che avvivino lo stanco spettacolo di una cultura divisa tra patetico rimpianto di ciò che fu e non potrà mai più essere, se non nelle forme, e fastidiosa e spesso violenta denuncia, nell’incapacità di progettare un mondo diverso, di ciò che factum infectum fieri nequit.
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A buon punto nella lettura di Vittoria Accorombona di Ludwich Tieck (Bompiani, settembre 2019, traduzione di Francesco Maione, a cura di Stefan Nienhaus, pp. 408). L’avevo per caso scoperto tra le novità nella mia libreria di riferimento in via Ojetti. Immaginavo si trattasse di un saggio critico sul grande battistrada, con gli Schlegel, con Schelling, Wackenroder, Novalis ecc., del Romanticismo tedesco. Ignoravo dell’esistenza e dell’opera poetica di Vittoria Accorombona (così in Tieck, Accorambona in tutte le altre fonti), e dalla disposizione dei nomi sulla copertina (la fantasia degli editori, per catturare la dabbenaggine degli ignari, non ha limiti) poteva pensarsi si trattasse di uno dei tantissimi romanzi più o meno d’amore e morte dovuti alla penna di una di quelle scrittrici sempre più numerose, fecondissime nel genere, che stipano gli scaffali delle librerie. E invece, astuzia della Ragione, avevo tra le mani un grande romanzo storico, l’ultimo (1840) capolavoro dello scrittore berlinese, che mi rigettava in pieno declinante Rinascimento italiano, quello degli intrighi, degli omicidi, degli agguati, della violenza, delle bande brigantesche, della nobiltà putrescente e della plebe vanamente tumultuante. Un romanzo storico ambientato tra Roma e la Tivoli della Villa di Mecenate (attuale Tempio di Ercole), della villa d’Este, della Grotta di Nettuno, dei boschi e delle montagne del Sublacense. Immagino l’idea di Tieck risalire all’epoca del suo soggiorno italiano (1806-1807). La sua informazione è così precisa e dettagliata da far ritenere che nessun autore e specialista nostrano avrebbe potuto fare di meglio. Una lettura davvero affascinante. Il giovane poeta, il fiabista, il saggista Tieck, che tanta compagnia mi tenne in gioventù, ora come romanziere accompagna e rasserena la mia sera.
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Faticosamente rinvenuto in una libreria romana del centro il volume Le Leggi di, o a lui attribuite, Giorgio Gemisto Pletone, l’umanista greco-bizantino che con Bessarione, all’epoca delle loro frequentazioni dei Concili di Costanza, di Ferrara, di Firenze (miranti all’utopistica riunione delle chiese) tanta parte ebbe nella rinascita umanistica italiana. Da un certo periodo il primo umanesimo e il tardo rinascimento filosofico-letterari (che nella loro piena fioritura mi furono sempre familiari in ogni loro aspetto, quello musicale in primis) stanno nuovamente interessandomi, e non so dire se ciò avvenga casualmente o per qualche interiore processo la cui natura per ora mi sfugge, e ad essi dedico più tempo di quanto loro dedicai in tutta la vita. Ritorni di interessi cabalistico-esoterici, nostalgie di primavere elleniche variamente in quell’adolescenza dei nuovi tempi evocate, o che?
Il grosso volume delle Leggi pletoniane (Victrix edizioni, Forlì, 2012, pp 527, euro 39,50) si sta rivelando, nell’apparato critico e non solo, una grande delusione. Mi attendevo un tentativo di restaurazione di un paganesimo nobile, come quella tentata da Giuliano l’apostata, filosofico, pregno di simboli e rimandi metafisici di natura monistico-panteististica, e non volgarmente politeistica, con le sue gerarchie di dèi deucci e deetti; una seria restaurazione neoplatonico-plotiniana nella quale, sì, il collegamento col Sole e col Fuoco zarahtustriani, dal filosofo di Mistra operato, non risulterebbe inadeguato e vano. Deludenti i testi presunti pletoniani, ancora più deludente l’Introduzione del curatore della prima edizione, quella francese di Charles Alexandre del 1858, dalla quale la nostra è tratta, che più che una introduzione filologico-critica si rivela un tentativo di demolizione, dal punto di vista dogmatico cattolico, di tutto il pensiero pletoniano: vera e propria irosa apologia, alla maniera tertullianea; e deludente l’introduzione italiana di L. M. A. Viola che con lo stesso precritico zelo si prova a demolire l’Alexandre. Un gioco a chi stronca di più e meglio, insomma, di cui l’editore anche si accorge se, nella sua presentazione, tra l’altro annota: “…Il saggio introduttivo di L. M. A. Viola contribuisce ad impostare la lettura dell’opera di Alexandre in modo più equilibrato, rispetto alla parzialità che emerge continuamente dalla presentazione con cui lo studioso francese illustra la funzione e l’opera di Pletone”.
Ma i quaranta euro del volume non sono andati sprecati. La traduzione di M. A. Raggi, da quella francese di A. Pellissier, a malincuore accettata all’epoca dall’Alexandre, reca il testo originale greco a fronte, il che mi permetterà di ripassare un po’ di quel greco che non frequento più dai tempi del Liceo, e di cui ben poca traccia serba la mia pur non pessima memoria.
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Chàirete Dàimones!
Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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