Creato da giuliosforza il 28/11/2008
Riflessione filosofico-poetico-musicale

Cerca in questo Blog

  Trova
 

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Aprile 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30          
 
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 3
 

Ultime visite al Blog

giuliosforzafantasma.ritrovatom12ps12patrizia112maxnegronichioooooannaschettini2007kunta.mbraffaele.maspericotichPoetessa9avv.Balzfamaggiore2dony686cassetta2
 

Ultimi commenti

Non riesco a cancellare questo intruso faccendiere che...
Inviato da: Giulio Sforza
il 20/11/2023 alle 07:25
 
Forse nei sogni abbiamo una seconda vita
Inviato da: cassetta2
il 01/11/2023 alle 14:32
 
Ciao, sono una persona che offre prestiti internazionali. ...
Inviato da: Maël Loton
il 18/09/2023 alle 02:38
 
Ciao, sono una persona che offre prestiti internazionali. ...
Inviato da: Maël Loton
il 18/09/2023 alle 02:34
 
Ciao, sono una persona che offre prestiti internazionali. ...
Inviato da: Maël Loton
il 18/09/2023 alle 02:31
 
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

 

« Pascal, 'Pensieri'. Pa...Il giardino dei ciliegi.... »

Efemeridi

Post n°1059 pubblicato il 01 Gennaio 2021 da giuliosforza

974

   Un redattore di “Aequa”, rivista di ricerche storico-culturali ed etnoantropologiche sul territorio degli Equi, mi ha chiesto alcune righe di presentazione, da far risultare come Nota di Redazione, alla Avvertenza che fa da breve premessa ai due volumi di Dis-Incanti, come breve recensione. 

   Ho scritto:

   Nel tormentato corso di questo Annus horribilis la tipografia Fabreschi di Subiaco non è restata inoperosa, tutt’altro. Molte opere, anche ponderose, sono uscite dai suoi torchi (in epoca di scrittura e stampa virtuale l’espressione, volutamente anacronistica, vuol suonare gradevolmente, ironicamente, giocosamente provocatoria). Tra queste una in particolare, nella sua concezione nella sua elaborazione e nel suo pondo cartaceo faticosa, ha visto la luce: Dis- Incanti, trascrizione a stampa di un diario virtuale degli ultimi dodici anni nel quale l’autore, quasi nonagenario uomo  del presente, non si limita a riflettere sugli eventi del giorno e ad esternarne le risonanze che dentro di lui hanno, ma lancia retrospettivamente  un potente fascio di luce sul suo complesso passato, non trascurando le vicissitudini della mente e del cuore, a partire dai remoti anni dell’infanzia fino, via via, agli anni della lucida senescenza. Ne è nata una sorta di zibaldonica autobiografia ove i momenti della crescita fisica e interiore sono descritti con l’intensità di un ‘pagano’ sentimento della terrestrità avvertita come natura naturans, come elemento determinante dell’essere e dell’esserci, secondo il ben noto adagio roussauiano l’uomo “essere la sua terra che cammina”. Come D’Annunzio affermava di portare la terra d’Abruzzo sotto il tacco dei suoi stivali, così l’autore di Dis-Incanti può dire di aver portato la terra equa, tanto prossima culturalmente all’abruzzese, incollata alla sua carne e alla sua anima ovunque, territori fisici o territori metafisici, le turbate vicende della sua vita l’abbiano condotto. Se culture altre, soprattutto la francese e la tedesca, sembrano in Dis-Incanti predominanti, al lettore attento sicuramente non sfuggirà il marchio ‘equo’ essere profondamente impresso su ogni pagina dell’opera, indelebilmente.

  Lasciamo all’ Avvertenza premessa dall’autore, seria faceta ironica e autoironica quanto basta, il compito di meglio illustrare natura e intenti del suo Dis-Incanti”.

 

   Avvertenza”

   La prima parte del mio zibaldone è dunque qua, bella e pronta per il macero, dopo 12 anni di gioiosa fatica.

   Se in ogni mia opera, teoretica o poetica, mi sono senza ambage denudato, qui oltrepasso ogni limite: lacero il velo del fenomeno ed affondo le mani nella frattaglia del mio noumeno, scavando in ogni suo più nascosto e più o meno ripugnante anfratto, in ogni suo meandro, in ogni sua tortuosità, in ogni sua sinuosità, nello stile insopportabilmente guittesco e pletorico e retorico da esaltato che mi distingue. Eccomi, qui ci sono tutto, nel bene e nel male, nel bello e nel brutto. Qui c’è tutto il mio umano, da cui nulla alienum puto.       

   Se ogni mio parto fu faticoso, nessuno lo fu più di questo: raccontarmi giorno per giorno in ogni mia vicenda materiale e spirituale, di sogno o di veglia (di veglia-sogno di sogno-veglia) nella più cruda, invereconda spesso crudele verità, dissotterrando  nel presente il passato, e presente e passato proiettando in un futuro di essi non meno nella sua  irrealtà reale, in un linguaggio ignaro di freni di riluttanze di pudori, è stato duro per il diarista metafisico anacronisticamente romantico e simbolista, disordinato e a-metodico per principio che, pur fedele alla correttezza del dire e del narrare, o dell’inventare, e talvolta pedante fino al fastidio, ha faticato a mantenere all’elaborato coerenza di materia e di forma, di contenuti e di stile. Ma l’abbondanza del materiale non ha permesso alle mie residue forze di controllarne meticolosamente ogni parte, in modo da offrirlo pulito e polito, e unito e compatto pur nella sua naturale diaristica frammentarietà, senza le esuberanze, le sciattezze o le ricercatezze stilistiche, alla curiosità del lettore amico. Dopo l’ennesima rilettura, per ogni nuovo refuso evidenziato, per le mille fastidiose ripetizioni (per la verità ognuna collocata in un contesto diverso in grado di farla ri-significare) lo scoramento era in agguato. Per questo ho rinunciato a rileggere ancora, lasciando al lettore il fastidio, il compito e il piacere (e perché non l’onore?) di spulciare il faticato elaborato rendendosi co-correttore delle bozze di un …capolavoro (!), che mi son deciso a stampare meis impensis in poche copie numerate, oltre che per il mio piacere, per quello dei pochi amici, familiari, allievi, colleghi che dodici anni or sono me ne espressero caldamente il desiderio. Per me e per essi, ripeto, solo per me e per essi mi son deciso a ridonare alla carta i miei Dis-Incanti, già affidati all’impersonalità dell’etere a uso e abuso di tutti (circa 80000 risultano a oggi i visitatori, un numero per le mie attese davvero esagerato) onde riappropriarmene anche coi sensi esterni, ridonarlo alla diletta polvere degli scaffali, rigoderne vista tatto gusto profumo, riudire il fruscio delle pagine sfogliate  al chiuso del mio studiolo o all’aperto del balcone o del giardino, fra i canti degli uccelli e i profumi dei fiori, o, negli orecchi assenti, il fragore in sottofondo della città stordita. Tanto mi basta. Non è mio costume partecipare a fiere e mercati, ambire a premi, offrirmi in pasto ai critici, “vendetta dell’intelligenza sterile nei confronti dell’arte creatrice” (Elias Canetti), “termometri anali” (Marinetti).

   Con la mia nota modestia …io me sopra me corono e mitrio!

*  

   Ieri sera ho terminato la lettura dei due volumi di Carla Maria Russo dedicati alla saga di Caterina Sforza signora di Forlì, detta la Tigre, un personaggio in ogni senso degno, più dei figli e nipoti maschi, di suo nonno Francesco, il grande guerriero e politico e  mecenate eccelso che fece della decaduta Milano viscontea il centro della cultura dell’arte italiana, che variamente seppe esportare in Europa, soprattutto in Polonia; e di Greta Vidal, una delicata storia di passioni nella Fiume di D’Annunzio narrata della felice penna di Antonella Sbuelz Carignani. Con Giorgio Gemistio Pletone, Mantaigne, D’Annunzio, Borges, Pound, la compagnia di queste due incantevoli signore mi ha consentito di lenire un poco l’angoscia di questi tetri giorni, che mai come quest’anno sanno di morte. Insieme alla lettura l’ascolto di musica classica o più genericamente colta, a iosa largitaci in questo periodo da Rai-cultura, bene coopera nel tentativo di arrecarci, con un palinsesto ricco di titoli allettanti e molto vari, momenti ispirati di rilassamento da godere in pace e serenità. E in parte vi riesce. Io ce la metto tutta, proprio tutta, per recepire il messaggio, e atteggiare il mio animo al distacco critico, ma è essa sovente a non mettercela, riuscendo con manipolazioni e interpolazioni, con interventi di personaggi insulsi (funzionari frustrati alla ricerca di un momento di visibilità?) a rovinare tutto e ad innervosirmi, con buona pace del distacco e del puro godimento.

   Dirò brevemente, a mo’ di esemplificazione, di quello che hanno chiamato retoricamente l’“evento dell’anno”, se non l’evento del secolo, trasmesso in mondovisione: il nazional-popolare spettacolo di inaugurazione della Stagione scaligera 2020-2021 intitolato “A riveder le stelle”.

   Già il titolo mi innervosisce. Perché tagliare il verso dantesco, sì da farlo suonare simile a un banale ‘Ballando con le stelle’, il titolo del programma della sempre più artefatta, e rifatta, se pure ancor bella e simpatica, Milly nazionale, chiamata qui a sorridere (volutamente trasformo il verbo in transitivo) i soliti tre o quattro luoghi comuni? E che dire dell’idea balzana, fatta passare per originale, mentre di una operazione puramente, sfacciatamente commerciale si tratta, di trasformare lo spettacolo in una vera e propria passerella di moda, con le cantanti in veste di modelle di una sfilata d’abiti lussuosi, in barba al conclamato autocompiacimento dirigenziale d’aver realizzato finalmente uno spettacolo popolare, uno spettacolo per tutti da tutti visibile e da tutti udibile? Che è poi una ipocrisia bella buona, è retorica populista, non potendo l’Opera lirica, se tale è e non spettacolo da baraccone, come Opera dello Spirito non essere che, fatalmente, d’élite. Ẻlite dello Spirito, naturalmente, non del mercantile censo. Recarsi all’Opera, come ovunque abiti un’Arte, è come recarsi ad Eleusi per lasciarsi possedere dal dio. Le porte del Tempio sono precluse ai pro-fani, a chi non abbia bevuto il ciceone. Del programma musicale non dico: un minestrone che nemmeno la bacchetta di Chailly è riuscito a farmi digerire.

   Un altro intento annunciato dai lautamente foraggiati di mamma Rai era quello di ‘favorire attraverso la Musica la riconciliazione fra gli uomini’: ulteriore banalità, ché il presunto linguaggio universale e perciò di per sé pacificatore della musica è tutto da dimostrare. In realtà solo le note sono, per convenzione, universali, non certo i messaggi attraverso esse trasmessi, i sentimenti, le idee da essi generati e alimentati. Questi concetti espressi da grigi signori che approfittano dell’evento per inquinarlo con la solita tirata antifascista (non vogliono proprio smetterla di tirarlo continuamente in ballo, questo fascismo, non vogliono farlo morire, questo fascismo, il ricorso al quale, o ad una sua accezione svuotata di senso, avviene in continuazione quando non si hanno idee e capacità per costruire qualcosa di nuovo, per fare nuova la storia). Questa volta l’occasione è stata porta dall’evocazione di un Toscanini presentato come un convinto antifascista, mentre chiunque conosca un po’ di storia e non solo quella scritta dai vincitori e appresa sui banchi di scuola di regime, sa che oltre che convinto interventista e ammiratore di D’Annunzio la cui figura e la cui impresa andò ad omaggiare a Fiume con uno storico concerto, fu fervente sansepolcrista, candidato non eletto al Parlamento con la lista Mussolini, fino al vile episodio del ’31 amico ed estimatore di questi e spregiatore dei gerarchetti suoi lacché, gli stessi che saranno protagonisti dell’episodio di violenza che  lo spingerà a ‘rifugiarsi’ in America (quel bel modello di democrazia che esporta tutti i mali, le prevaricazioni e le guerre del  mondo -Tocqueville doveva avere le traveggole, quando ne scrisse, come più tardi le avrà Dewey). Amo troppo la musica e troppo Parma per non rispettare e non stimare, senza farne il mito che altri ne fanno (gli preferisco di gran lunga i Richter, i Furtwängler, i Karajan) quell’antipatico e scorbutico violoncellista parmigiano di nome Arturo ritrovatosi per caso proiettato su un podio, il direttore più dispotico e odiato dai professori d’orchestra, continuamente aggrediti e innervositi dalle sue prevaricazioni e dai suoi insulti.

   Fosse restato in Italia a combattere il Fascismo dall’interno mi sarebbe più simpatico. Ma come Thomas Mann (questo sì un idolo che continuo a venerare e che perdono soprattutto per via del Doctor Faustus) preferì andarsene. E non ne guadagnò l’arte. In una nota di premessa all’odierna puntata di Petruska, l’interessante rubrica curata dal presidente di Santa Cecilia Dall’Ongaro, circa il rapporto musica-fascismo si fa chiara luce. In essa si fa riferimento alle… “forme e i contenuti della musica del Ventennio - a partire dalle premesse rivoluzionarie del futurismo e del gruppo degli Ottanta - e la raffinata ricerca formale di Alfredo Casella, compositore dal respiro internazionale. Michele dall’Ongaro intraprende un'analisi della musica italiana durante il fascismo, nella puntata di Petruska dal titolo "Croma e moschetto". Della damnatio memoriae comminata alla musica del periodo fascista, dall’Ongaro parla con Fiamma Nicolodi, musicologa, che ci spiega come al fascismo non interessasse imporre e neppure proporre un codice estetico, ma solo supportare i compositori che potevano far ben figurare l’Italia nel panorama europeo. La libertà nella ricerca musicale viene scambiata dai musicisti con il disimpegno politico, a parte alcune eccezioni come quella di Massimo Mila. Ne segue l’apparente paradosso per cui in Italia si può ascoltare molta della musica ‘degenerata’, ostracizzata dal nazismo, e si può perseguire una ricerca musicale pienamente indipendente dalla politica. Nella seconda parte, Michele dall’Ongaro incontra il direttore d’orchestra Gianandrea Noseda, grande conoscitore di Alfredo Casella, di cui ha recentemente rivisto e diretto La donna serpente. Noseda fa parte di quel nutrito gruppo di direttori italiani che avendo frequentato a lungo i palcoscenici di tutto il mondo misura con un metro internazionale anche la musica italiana. Lo aspettano incarichi prestigiosi - Principal guest Conductor della London Symphony e nella prossima stagione Direttore della National Symphony Orchestra a Washington - ed è stato nominato Opera Conductor of the Year 2016”.

   L’‘evento dell’anno’ si conclude come peggio non potrebbe. La fata turchina Milly pronuncia due o tre parole di saluto, non più, e ciononostante riesce ad esser sgrammaticata; e un funereo Bruno Vespa iellatorio, ingobbito, di nero vestito come un medico della peste ma senza il becco corvino (forse perché il suo naso al naturale basta e avanza) saluta, velocemente per fortuna, come solo lui sa fare ed augura buone feste e buon anno. Io faccio gli scongiuri.

*

   Questo pomeriggio lo spazio riservato da Rai5 ala prosa è stato riempito dai Frateli Karamazov nella storica edizione bolchiana del 1969 sceneggiata da Diego Fabbri, con Gianni Agus, Orso Maria Guerrini, Salvo Randone, Glauco Onorato, Carla Gravina, Sergio Tofano, Carlo D'Angelo, Corrado Pani, Umberto Orsini, Lea Massari, Carlo Simoni , Cesare Polacco , Laura Carli , Antonio Battistella , Roldano Lupi: la crème de la crème degli attori di teatro dell’epoca. La trama è presto detta:

Dmitrij si apposta sotto casa del padre, anch'egli invaghito di Gruenka, convinto che la ragazza debba recarsi da lui. Durante l'appostamento parla con Alksei e gli racconta della sua storia con Katerina. Ma al centro della storia è la vicenda umana di una famiglia che lo sceleratus amor habendi sconquassa. Protagonisti della tragedia sono un padre, Fedor, e tre figli - Dmitri Ivàn Alksej - oltre ad un quarto naturale, Smerdjakov, nato da una relazione con una vagabonda. Questa trama non certo originalissima è infittita da un materiale drammatico tra i più alti di tutta la letteratura russa se non mondiale, nel quale spicca la Leggenda del Grande Inquisitore, narrata da Ivàn, lo spirito libero della famiglia, ad uno sconvolto Alioscia (Alkei) che ha trovato placazione tra le mura di un convento.

   In uno degli ultimi anni della mia docenza dedicai un corso intero ai Fratelli Karamazov e soprattutto alla Leggenda, secondo me clou del romanzo e capitolo più ricco di implicazioni teologiche, filosofiche e pedagogiche. La figura, anche metaforica, del Cristo tornato sulla terra e rimesso a morte dal Grande Inquisitore per aver promesso la libertà al genere umano e non esserci riuscito, consentendo ai suoi autoproclamatisi vicari di tiranneggiarlo, e quella storica del tormentato Dostoieskji impressionarono molto il mio giovane uditorio, proveniente per lo più da un ambiente rigorosamente cattolico. Una delle studentesse, diplomatasi al liceo artistico, seppe trasfondere in un intenso ritratto a matita del grande Russo tutti i tormenti interiori e il sofferto misticismo della sua anima slava, che evidentemente erano anche i suoi. Forse un po’ di merito fu anche, della mia lettura dis-educativa del Capolavoro, fedele al principio di una funzione didattica finalizzata  non a conferire liberatorie certezze, ma a seminare inquietudini e turbamento nelle coscienze.  

   ____________

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
Vai alla Home Page del blog
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963