Creato da giuliosforza il 28/11/2008
Riflessione filosofico-poetico-musicale

Cerca in questo Blog

  Trova
 

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Aprile 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30          
 
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 3
 

Ultime visite al Blog

giuliosforzafantasma.ritrovatom12ps12patrizia112maxnegronichioooooannaschettini2007kunta.mbraffaele.maspericotichPoetessa9avv.Balzfamaggiore2dony686cassetta2
 

Ultimi commenti

Non riesco a cancellare questo intruso faccendiere che...
Inviato da: Giulio Sforza
il 20/11/2023 alle 07:25
 
Forse nei sogni abbiamo una seconda vita
Inviato da: cassetta2
il 01/11/2023 alle 14:32
 
Ciao, sono una persona che offre prestiti internazionali. ...
Inviato da: Maël Loton
il 18/09/2023 alle 02:38
 
Ciao, sono una persona che offre prestiti internazionali. ...
Inviato da: Maël Loton
il 18/09/2023 alle 02:34
 
Ciao, sono una persona che offre prestiti internazionali. ...
Inviato da: Maël Loton
il 18/09/2023 alle 02:31
 
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

 

« Papini e Socrate nel 'G..."La gazza ladra". Efemeridi »

Carlo V e suo figlio Filippo II nel "Giudizio Universale" di Papini

Post n°1139 pubblicato il 14 Ottobre 2022 da giuliosforza

1040

   Se dal giudizio papiniano Socrate esce massacrato, lo stesso non può dirsi di Carlo V, le cui autogiustificazioni al cospetto dell’Angelo accusatore vengono quasi tutte accettate, sicché un sentimento di pietà e non di condanna ne consegue. Qui le mie riserve sono più numerose. Non mi sento di assolvere colui sul cui impero non tramontava mai il sole e che con la benedizione del Sommo Sacerdote Caifa si sentì autorizzato a compiere nei suoi possedimenti i peggiori misfatti della storia. Il pubblico ministero angelico tace, e chi tace acconsente. Ma sentiamo il Fiorentino.

“CARLO V

“Angelo

   “Perché mai, imperatore Carlo, tante guerre, tante contese, tante conquiste, tante stragi, tante fatiche e pene e ingiustizie e rinunzie? Qual beneficio ne venne ai tuoi popoli e a te medesimo? Nessuno ti fu grato di così costante e cruenta agitazione. Neppur la Chiesa perché mandasti un’orda di eretici a saccheggiare la capitale del Vicario di Cristo e alla fine desti libertà ai partigiani e seguaci di Lutero.

CARLO V

   “Ora che ogni vergogna è spenta e ogni simulazione è inutile ti dirò il vero, tristissimo vero che tentai di celare finché fui in vita. Tu sai che io nacqui da una pazza ma nessuno seppe che anch’io fui pazzo. Non se n’accorsero perché la mia demenza ebbe una sola forma: il continuo terrore della morte. Tutto in me fu precoce; la potenza e la paura, Fui re a sedici anni, imperatore a diciannove ma quelle dignità non fecero che accrescere il turbamento del mio animo, e fin dall’adolescenza fui perseguitato dalle orrende immagini della morte. Per dimenticare o almeno allontanare questo agghiacciante pensiero proposi alla mia giovinezza un grande disegno che avrebbe occupato e riempito i miei giorni e le mie notti. Approfittando delle corone che la sorte aveva collocato sul mio capo giovanile sognai di riunire l’Europa in un solo impero, risuscitando Augusto e Carlo Magno, e di estendere il dominio dell’Europa, cioè il mio, sull’Affrica e sull’America. E per molti anni posi tutte le forze del mio spirito, tutte le risorse dei miei popoli, tutti i miei eserciti e le mie flotte al servizio di quel sogno. Ma solo in piccola parte il sogno si avverò. Non riuscii a riunire tutta l’Europa; non potei conquistare che un sol punto dell’Affrica; e i domini dell’America erano per me troppo remoti ed ignoti.

   L’impero universale da me vagheggiato non riuscì ma il terribil pensiero della morte rimase, implacabile, invincibile, e mai mi abbandonò, mai mi dette requie. Sui miei regni, a quel che dicevano gli adulatori, non tramontava mai il sole ma nel mio cuore, purtroppo, tramontava ogni giorno il sole della speranza. Pensavo a mia madre pazza che trascorse gli ultimi anni della sua vita accanto a un sepolcro ed ebbi anch’io il pensiero, un momento, di finir la mia vita vicino alle tombe scolpite da Michelangelo, la cui vista rinnovò più acuta la mia angoscia. E finalmente, visto inutile anche quel gigantesco rimedio dell’Impero, mi decisi, ancor giovane d’anni ma vecchissimo nello spirito, a cedere le corone a mio figlio e a mio fratello.

   Pensai che la meditazione continua della morte poteva essere la più certa medicina contro il terrore della morte. E tanto mi infervorai in tale persuasione che, per scacciare più sicuramente quell’ossessione e rendere familiare allo spirito le immagini che accompagnano la fine, volli che i monaci celebrassero, me vivente e presente, le mie esequie. Disteso immobile e muto, sopra un catafalco, circondato da grandi ceri accesi, ascoltai le salmodie dei monaci, il canto del Dies Irae, seguii la maestosa e odiosa liturgia della morte, fui assolto e benedetto, lodato e raccomandato a Dio, ma neppure quella macabra commedia valse a sopire i miei spaventi. Nascondevo agli altri, sotto la gravità del monarca, quella perpetua paura, ma quel doverla di continuo reprimere ne accresceva la forza. Tu, creatura perfetta ed eterna, che vuoi sapere dei terrori segreti di noi mortali e morituri? Ad un pazzo qual fui ogni sera che cala è principio di tormento, ogni notte è incubo, ogni squilla che odi è suono di mortorio, ogni male, ogni dolore è annuncio di agonia, ogni alba è un passo di più verso il sepolcro. Tentai d’essere il più potente monarca del mondo colla speranza che gli uomini non ardissero di toccarmi e Dio si degnasse di ritardar per me l’ultimo giorno. Non appena mi accorsi che neppure il padrone della terra riusciva a padroneggiare i miei smarrimenti e sgomenti, a guarire la mia follia, lasciai la reggia per il chiostro e mi abbandonai nelle mani pietose di Dio. La mia agonia durò quasi tre anni e finalmente la morte misericordiosa mi liberò dal terrore della morte. Questa e non altra, la giustificazione delle mie imprese e delle mie colpe.

   Con Filippo II e con Don Carlos l’angelo ridiventa spietato. Non c’è l’attenuante della pazzia in tutte le sue ridicole e macabre manifestazioni né si danno giustificazioni di altro genere. Ma nella descrizione dei rapporti padre figlio la verità storica e quella letteraria vengono completamente capovolte, se non stravolte.    

 

   “FILIPPO II, DON CARLOS

   “Angelo

   “Eri uno dei più potenti re della terra ma cominciò con te, e in parte per tua colpa, il declino dei tuoi popoli, Cupa e cupida fu la tua natura, superba fino alla crudeltà. Ti piacque farti chiamare Re Cattolico ma nella religione vedesti il terrore più che l’amore; nella politica la bramosia di acquistare più che la felicità dei sudditi; nel maneggio degli uomini piuttosto l’arte di simulare che di persuadere; nell’arte una pompa regale e sepolcrale più che una gioia dell’anima. Iddio ti mandò suoi avvisi in forma di sventure ma tu non sapesti decifrarli. La tua Invincibile Armata fu dispersa e travolta dalla tempesta; il tuo figlio primogenito, colui che avrebbe dovuto essere il conforto della tua vecchiezza e l’erede del tuo immenso impero, ti odiava ferocemente e morì giovanissimo, in carcere, solo e disperato. Si disse che rifiutasti di vederlo un’ultima volta; si disse, perfino, che avevi dato l’ordine di farlo morire.

   DON CARLOS

   “No, no, basta! Tu infierisci più del giusto contro di lui. Ricordati che fu sventurato come re, come sposo, come padre. Son io, il suo figliolo primogenito, quello stesso che l’odiò, quello che fu incarcerato per opera sua, che si leva a difenderlo. Io non sono più giovane e malato; sono antichissimo e risuscitato; vedo me, vedo gli altri; comprendo i miei errori, comprendo gli errori altrui. Se in lui vi fu qualche colpa ben più gravi furono le mie e dinanzi a te, che sei l’orecchio di Dio, perdono a lui colla speranza che mi perdoni. Fu mio padre e mio re e a lui dovevo tutto. Per molti anni mi amò, compatì i miei capricci, tollerò le mie stravaganze, soffrì dei miei mali. Ero malato e non soltanto nella carne. Nel miscuglio infelice della mia natura v’era il peggio dell’uomo: ghiottonizia e sensualità, ribellione e superstizione, crudeltà e superbia, stupidità e pazzia.

   Ero una creatura malfatta e malpensante, inferma e deforme, nata a soffrire e far soffrire. Tutti mi tolleravano perché figlio del re, nessuno mi amava e mi poteva amare. Feci morire, nascendo, mia madre; fui per mio padre un patema e un pericolo più che gioia e conforto.

   Egli tentò di far di me un uomo; mi introdusse nei consigli dello stato, cercò per me una sposa. Ma ero intrasformabile: la mia stravagante perversità mi aveva reso importuno al padre, ai grandi del regno, a me stesso, a tutti. Le malattie mi rendevano più crudele e fantastico; la stessa pietà religiosa era per me piuttosto bigotteria che disciplina redentrice. La mia vita era un inferno e non pesava soltanto su di me. Avrei dovuto sforzarmi di guarire, di rinsavire, di essere qual si conviene a figlio e a figlio di re. Invece la mia frenesia mi spinse a veder nel padre un nemico, perché pareva, alla mia mente disordinata e proterva, un ostacolo al libero sfogo dei miei istinti, un argine alto e severo alla mia demenza. Cominciai a odiarlo, a odiarlo con tutta la forza della mia anima bestiale, a odiarlo fino al punto di macchinare una terribile vendetta contro di lui. Meditai di fuggir dalla Spagna, di mettermi alla testa dei suoi nemici e delle province ribelli, sì da levargli la corona e forse la vita. Scrissi a capitani di eserciti e a grandi del paese, vassalli di mio padre, per chiedere denaro e aiuto. Tutti sapevano qual miserevole essere fossi e nessuno mi ascoltò. Furono scoperte le prove del mio disegno parricida e portate a mio padre. Egli soffrì in silenzio ed esitò ma poi i doveri del monarca sopraffecero i sentimenti del padre e giustamente, come pericoloso a sé, al regno e a me stesso, mi fece rinchiudere in una torre.

   Tutto quello che i poeti hanno inventato sulle mie sventure è falso. Ѐ falso ch’io fossi innamorato della matrigna; è falso ch’io pendessi verso l’idee degli eretici perseguitati da mio padre; è falso ch’io pensassi di inalzare la bandiera della libertà contro la tirannide di Filippo, è falso, falsissimo ch’egli abbia ordinata e procurata la mia morte. Non fui ucciso che da me stesso e dalle passioni oscure e furibonde. Nel carcere meditai sulla mia natura e sulla mia sorte e riconobbi che ero indegno di vivere, desiderai di togliere e a me e agli altri la vergogna e il danno della mia vita. Ma non ebbi il cuore di uccidermi colla spada e col veleno. Prescelsi un mezzo più ignobile, degno del mio animalesco furore. Ero ingordo di cibi e bevande fin dalla fanciullezza e più volte, per i miei stravizi, fui in pericolo di vita. Ora inferocito da una disperazione dove era assai più rabbia che pentimento, e perciò risoluto a morire, mi abbandonai senza ritegno a quella bestiale voracità, ingurgitando a più non posso pietanze piccanti e bevande ghiacciate sì che i miei visceri, già guasti da consimili eccessi, alla fine si ribellarono e mi condussero alla fine. E così non seppi ben vivere né volli ben morire.

   Se mio padre, invece di essere il capo di uno dei più vasti imperi della terra, fosse stato un privato cittadino avrei potuto rimproverarlo d’essere stato troppo presto alla segregazione invece di tentare le arti dell’affetto e della persuasione per domare il figlio riottoso, più forsennato che malvagio. Ma Filippo era un re, un gran monarca, reggitore di popoli e di nazioni, responsabile dinanzi a Dio solo delle sorti di milioni di uomini. Regnava in tempi di vasti sconvolgimenti, in mezzo a genti scontente e indocili, a sudditi insorti, a nemici dichiarati, a esecutori poco fedeli, a sospetti, a rivalità, a pensieri di vendette e di tradimenti, perseguitato e inacerbito da sventure pubbliche e domestiche. Come difensore della fede cattolica era odiato e calunniato da tutti gli eretici e scismatici di Europa, come signore di uno sconfinato impero era invidiato e insidiato da tutti i principi della terra. Quella che fu detta cupezza non era che mestizia rattenuta dai doveri della maestà, quella che parve crudeltà non era che risoluta difesa del regno e del vero, in mezzo a innumerevoli nemici interni ed esterni. E su quest’uomo già tanto oppresso e contristato piombò una delle più tremende sciagure che possono colpire un padre e un re; l’unico figlio, prima sua speranza e poi suo tormento, è invasato da un delirio parricida, e si prepara a fuggir dal padre, a insorgere contro il suo re. Egli aveva il dovere, in quel momento, di giudicare in me il principe ribelle e non già il figlio. E fu prova di clemenza l’avermi rinchiuso in carcere; s’io non fossi stato del suo sangue avrei certo dovuto pagar colla testa il mio delitto. Fino alla fine, morendo di morte volontaria, fui peccatore dinanzi a Dio ma ora son felice che la resurrezione mi abbia finalmente concesso di confessare le mie paurose colpe, di proclamare dinanzi a tutti l’innocenza di mio padre, di piangere ai suoi piedi lacrime di pentimento e non più d’ira o dispetto, di chiedergli quel perdono che avrei dovuto implorare quando su tutt’e due splendeva la luce del sole. E umilmente gli chiedo che voglia supplicare l’Onnipotente affinché il Suo cuore paterno ricongiunga nell’eternità questo padre e questo figlio che dalla sventura e dall’odio furon separati sulla terra.

FILIPPO II

   Tu sei veramente misericordioso, Signore, e il tuo amore è ancor più forte della tua potenza. Tutto avevo perso, corona, impero, vita; i vermi avevan ridotto in polvere la mia persona; i secoli avevan ridotto in macerie anche la mia tomba, benché ampia e solenne come una città santa, la terra stessa non era più che polvere sparita e memoria amara ed ecco che per tuo volere non soltanto riacquisto vita e parola ma ciò che sempre volli e non ebbi mai: l’amore del mio primogenito, il perdono del figliolo che credei due volte perduto. Anch’io, benché mi paresse allora d’esser più giusto che duro, son forse in colpa verso lui eppure egli non s’è contentato di perdonarmi ma ha detto in mia difesa quel che avrei potuto ma non avrei voluto dire io medesimo. E alle sue parole non posso aggiungere che il mio pianto e il mio perdono. Si degni Iddio di assolvere il mio infelice figliolo insieme al padre suo non più infelice”.

   Cercatevi un bel Giudizio Universale di Giovanni Papini. Chiudete l’estate con ‘Gianfalco’, il fiorentino spirito bizzarro, mai come in questo suo ultimo capolavoro bizzarro, ma non nel senso dantiano di rabbioso. Guai a confondere Gianfalco con un Filippo Argenti qualsiasi! Anche se qua e là, per la verità, se ne sarebbe tentati. 

__________________  

 

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
Vai alla Home Page del blog
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963