Creato da giuliosforza il 28/11/2008
Riflessione filosofico-poetico-musicale

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Bogliasco e Scriabin. D'Annunzio e Scriabin

Post n°791 pubblicato il 12 Settembre 2014 da giuliosforza

Post 747

 

Avevo programmato di andare, il 26 e il 27, al Vittoriale per il Convegno su “D’Annunzio e la Grande Guerra”, al quale parteciperanno esimi storici e politologi, compreso Sergio Romano che aprirà con una relazione su “D’Annunzio e la questione adriatica”. Nel frattempo una telefonata di un mio ex alunno di Genova, in un cui Liceo insegnai filosofia e storia per alcuni anni prima di passare all’università, che non sentivo da cinquanta, dico cinquanta, anni, mi sconvolge e mi fa cambiare programma. L’ex alunno, figlio di un noto architetto, Claudio Andreani, già collaboratore di Piacentini a Roma, abita la  stupenda villa costruitasi dal padre, morto nel 2005, a strapiombo sul mare in Bogliasco, nella quale intende organizzare una rimpatriata di alunni e professori, quelli sopravvissuti, per celebrare i cinquant’anni dalla maturità. Mi dispiace per Gabri, al quale tanto del mio tempo ho dedicato in occasione delle celebrazioni del suo Centocinquantenario (posso dire di non essermene persa una, da chiunque ed ovunque organizzata), ma stavolta lo tradisco con piena avvertenza e deliberato consenso, certo che egli, più comprensivo di qualunque confessore, mi assolverà. Anche perché, udite udite, ancora una volta Bogliasco mi riconduce a Lui.

Ricordo di fatti che Alexandr Scriabin, lo Scriabine del Notturno, l’ispirato visionario compositore scomparso giovanissimo negli anni della Grande Guerra, anche fisicamente somigliante al Vate e con lui condividente la teoria del rapporto suono-colore (si fece costruire una tastiera con tasti di colori diversi e collegata a sorgenti luminose -anticipazione delle luci psichedeliche?!), Scriabin dunque proprio a Bogliasco scrisse una delle opere sue più ispirate ed esoteriche, il Poema dell’Estasi, quella che spesso D’Annunzio si faceva eseguire durante il periodo dell’immobilità da cecità (spenta la luce esteriore, più intensa gli si accendeva la luce interiore) insieme a brani del “doglioso” Beethoven. Si legge nel Notturno:

 

“L’infermiera sorride e dice che son giunti i suonatori per far musica.

Odo venire dalla stanzetta attigua gli accordi del violoncello e del violino.

La Sirenetta appare sulla soglia…Precede la musica e l’annunzia.

Le prime note del quinto Trio del fiammingo Beethoven mi toccano il cuore veramente, corporalmente, come le bacchette battono il timpano nel marmo vivente di Lucca.

E’ il Trio detto degli Spiriti.

Lo ascolto come dopo la morte.

I musici sono nascosti, sono di là. La piccola stanza chiusa è come una cassa armonica.

Il cembalo, il violino, il violoncello sono tre voci che parlano come in un dramma religioso, come in un mistero sacro.

Ho abbassata la banda sotto l’occhio vivo.

Quando, dopo la pausa, gli strumenti cominciano il Largo, vedo una zona gialla compenetrare una zona violetta.

Poi vedo un drappo violetto orlato di giallo coprire un rilievo che è quello del crocifisso.

Le sporgenze dei ginocchi straziati sollevano il drappo nel centro: e. quando il violino riprende il tema, il drappo nel centro s’imporpora.

Allora sento ogni volta come uno strazio profondo.

Ogni nota sospinge di vena in vena sino al cuore il fondo del calice di vita, quello che non ho assaporato ancòra, quello che pregai fosse tenuto lontano dalle mie labbra.

Ogni nota più lo sospinge verso il cuore, e il cuore non s’apre a riceverlo, ma si torce e repugna..

Ecco è all’orlo, è prossimo. Il cuore s’arresta, poi è subitamente posseduto, riempiuto, ricolmo…”. (pp. 128-129 dell’edizione Oscar Mondadori) .

 

E a pagina  141:

 

“ Nell’insonnia il preludio di Alessandro Scriàbine mi passa e ripassa su la fronte che mi sembra leggera e trasparente come una visiera di vetro in un elmo di ferro.

Tutto il capo mi pesa profondato nel guanciale.

Ho quell’armatura del capo che i fanti chiamavano cervelliera. Ma la fronte è di vetro, piena di incrinature e di bolle, calda come una coppa soffiata di recente dal vetraio.

E’ la sola parte lievemente luminosa del mio corpo insonne, di sopra la benda.

Il preludio di Scriàbine è di colore cupo, violaceo, simile a una stoffa marezzata che si divincoli al vento della sera.

Mi ricorda il velo funebre che candeggiava nel mio occhio perduto e che non mi lasciava vedere nello specchio se non la sommità pallida della fronte calva.

Le ore passano. La musica è come il sogno del silenzio.

Non dormo, eppure la vita s’abbassa in me a poco a poco come la marea. Il polso è fievole. La mano sul petto non sente il cuore.

 La musica si allontana e poi ritorna cangiando di colore come un flutto sotto un crepuscolo mutevole.

Il verde, il violetto e l’azzurro cupo sono i colori di questa notte.

A un tratto vedo le stelle, le stelle dell’Equinozio larghe come i loro riflessi nell’acqua.

Poi sento l’alba contro il davanzale, appoggiata al davanzale coi gomiti, con gli occhi allungati fin dove i capelli si appiccica alle tempie…”.

 

Pag. 150, la danza di Scriàbine:

 

Questa sera Scriàbine danza, / con la forza di un arciere del principe Igor, sul suo cuore immortale / che canta la melodia duplice / del desiderio e del dolore.

 

A ogni urto / il suo calcagno insanguinato / rompe il canto e lo difforma. / Ma, quando il piede s’alza, / nel ritmo ineguale, / il desiderio e il dolore / ritrovano le note eterne / che un  nuovo urto infrange.

 

Egli le ode, col capo riverso, / pallido di rapimento; e il suo viso è

Come una lampada sublime / che rischiara la danza ma non la conduce. / Tutta l’anima vi s’aduna e vi splende / come in un alabastro sensibile.

 

E l’ombra cade / dal bosco dei lauri, / dal bosco dei mirti, / dal bosco dei cipressi. / E solo rimane illuminato quel volto / sopra la esaltazione frenetica e misteriosa.

 

Tutto il corpo, / dal sommo del petto al calcagno, / appartiene a un altro dio: / Egli vuole che quel cuore / nudato e gettato / si mescoli con la terra, / s’intrida con la zolla, / come un grappolo sfuggito alla vendemmia / e restituito al suolo sitibondo.

 

Egli danza, danza, / con una ebrezza disperata, / chiarore di sé stesso, / finché non senta / sotto l’urto sempre più crudo / il cuore premuto della terra, / divenuto una cosa della terra, / finché non oda le note rotte del nero / e vermiglio canto avvenire, / la melodia dell’eternità, / l’inno profondo, / della doglia infinita.”.

 

Un inno più vasto dedicò Gabriele a Nietzsche nell’ In morte di un distruttore. Ma non cantò la sua danza, essa pure trapassata nella musica di Scriàbin.

Volergliene?

No, se ambedue danzarono nella sua notte rischiarandola di stelle polisono-policrome.

 

________________

Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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