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Tecnica ed otium. Caterina Sforza. SSN. Donizetti Bellini ed altro

Post n°1049 pubblicato il 03 Novembre 2020 da giuliosforza

 

967

   Col passare degli anni le mie riserve, sovente diventate disprezzo e odio, nei confronti della scienza e della sua figlia maggiorata, la tecnica, a lungo dai miei maestri, Gabriel Marcel in primis, e da me predicate disumanizzanti, sono andate attenuandosi, sostituite da un sentimento di profonda  gratitudine: scienziati e tecnologi sono la  nobile ‘mano d’opera’, che mi consente di godere del mio otium lirico metafisico (ma anche, perché no, teologico: per un pan-teista, più precisamente pan-deista -la consonante fa filosoficamente e teologicamente la differenza-, non dovrebbe essere un problema) e di tenere a bada non dico tutti, ma parecchi dei malanni della vecchiaia; e tutti i prolungati sensi tecnologici messimi a disposizione (occhiali-vista, auto-movimento, mani-elettrodomestici, aggeggi vari più o meno superflui ma semplificanti molti aspetti fondamentali della vita e della sopravvivenza), sopperiscono alle via via sopravvenienti con la senescenza deficienze psicomotorie. La tecnologia, (“progresso” non civiltà, della quale il progresso spesso rischia di essere la negazione) come prolungamento dei cinque sensi e nulla più, non sfiora il mistero, non tocca il profondo, non attinge il noumeno, ma del fenomeno nulla le è alieno.  Sulle manipolazioni del fenomeno è efficacissima, oh se lo è.

   Ma in una cosa le tecnologie biomediche in questo periodo non mi stanno aiutando a guarire da una fastidiosissima artropatia destra scapolo-omerale che prima o poi mi renderà impossibile l’uso di questo straordinario e terribile strumento tecnologico che è il computer, diventatomi tardi confidente e amico. Dovrò sforzarmi alla mia bella età di diventare sinistrorso e ridarmi alla scrittura con carta e penna. A ben pensarci non sarebbe una brutta cosa. Sarebbe un regresso o un progresso? Un progredi-regredi, non v’ha dubbio, al piacere del contatto fisico con la carta e le mie tante, talune preziose penne stilografiche che ora stanno lì, dentro una teca con altri cimeli, triste ossario, a insecchire. Un progredi-regredi, ancor meglio, ai miei pennini, tanti pennini, soprattutto gotici, da intingere nel mio calamaio anni Trenta posizionato vicino al computer (vedi foto in quarta di copertina dei freschi di stampa Dis-Incanti) con esso a colloquiare. Di inchiostro, rosso e nero, posseggo ancora due bottiglie da un litro (che basterebbero per altri cento anni, acquistate una cinquantina di anni orsono presso l’antica tipografia, consociata con Bardi Edizioni, di Corso Rinascimento, di fronte al Senato) che si salvano dalla polvere in un angolo di una delle mie librerie, quella chiusa rinascimentale. Suonerò il mio corno di conchiglia Vamavarti originale preziosamente adorno, giuntomi gradito dono di Parvathi dall’India, e ordinerò il surgant omnia al mio ossario di cimeli, senza attendere le trombe della valle di Giosaphat, o il Crepuscolo degli Dei, o il vigilante Heimdall norreno-runico, o l’angelo che lo suonerà nel dì del Giudizio.   

*

   Vi siete mai chiesti a che servono le visite mediche del Servizio Nazionale o delle cliniche convenzionate? Servono solo a medici, si fa per dire, che attendono che tu segga (troppo sarebbe per essi invitarti cortesemente a farlo) per velocemente, e svogliatamente, chiederti: perché è qua, quali farmaci prende per quali patologie? E dopo un minuto, quando va bene due: prenda questo faccia quest’altro (il questo del faccia è in genere a pagamento, il quest’altro del prenda è sempre lo stesso farmaco, il farmaco da lui più consigliato, al cui maggior consumo sono legate maggiori regalie da parte delle case farmaceutiche). Ad uno di questi medici in una mia recente visita ho fatto osservare che non da un medico mi pareva d’essermi recato ma da un faccendiere senza anima e cuore che baratta i suoi profitti con la salute delle persone. Quel colui restò inebetito e tacque, preso alla sprovvista da un paziente diverso.  Non c’è una parola di esagerazione in quello che dico. Tutto ciò mentre nonostante il covid una lunga fila di pazienti (per lo più vecchi, spesso desolatmente soli coi loro contenitori trasparenti di urine appesi alle mani scheletriche rugose e artrosiche ,..). E ciò che altra volta m’avrebbe generato ribrezzo, per la prima volta mi suscitava sentimenti di  pietà  per la miserevole turba: per la prima volta non forzavo il misereor super turbam di Cristo ad una interpretazione superomistica, e al praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur  antecedentium gregem, pergentes non quo eundum est sed qua itur senechiano sentivo di preferire la pia tenerezza, la tenera pietà che emana dai versi danteschi (forse della citazione senechiana non immemori) del III Canto del Purgatorio:

Come le pecorelle escon del chiuso / a una, a due, a tre, e l’altre stanno / timidette atterrando l’occhio e il muso; / e ciò che fa la prima e l’altre fanno / addossandosi a lei s’ella s’arresta, / semplici e quete e lo ìmperché non sanno, / sì vid’io muovere a venir la testa / di quella mandra fortunata allotta… (III, 78-86).

   Pietà per il gregge.

 *   

In tre giorni grande abbuffata di Belcanto. Su Rai 5 un finalmente placato e quasi pacato  Daniel Oren, un Muti composto, more solito,  fino all’affettazione, con la sua giovane Orchestra ‘Cherubini’ e una sbalorditiva soprano esordiente, e i ‘giovani’,  Mariotti e Vidò, bastevolmente maturi per un repertorio impegnativo, ci hanno regalato il Don Pasquale donizettiano e i tre capolavori belliniani, La Sonnambula, Norma (una Daniela Dessì, già prossima alla prematura scomparsa brava da non far rimpiangere la Callas), I puritani (nell’edizione in cui, si può esser più cretini?, l’all’armi di Suoni la tromba e intrepido fu sostituito dal regista in all’alba). Io ho sempre dichiarato che per riposarmi dalle fatiche wagneriane del Ring son solito rifugiarmi fra le accoglienti braccia del Bergamasco e del Catanese e anche questa volta è stato così: venivo da un discreto Fliegender Holländer (certo ancora ben lontano dalle novità, le asperità, le arditezze ringhiane). Le Arie, ah le arie donizettiane e soprattutto belliniane! Questa volta mi ha particolarmente commosso, perché carica di personali ricordi catanesi di cui in altra parte di questo diario ho narrato, Ah! Non credea mirarti / sì presto estinto o fiore, versi che i buoni catanesi, pur intendendosi per fiore, nel dramma, l’amore smarrito cantato nel sonno dalla protagonista, han voluto riferire al Genio locale, incidendoli sulla tomba nella Cattedrale di Sant’Agata ove dal 1877 riposano i suoi resti mortali reduci dal Père Lachaise.  

*

   M’appresto a terminare la lettura di due bei romanzi storici, dovuti alla bravura e alla sensibilità di due donne. Dico di Antonella Sbuelz Carignani e di Carla Maria Russo che nei loro, rispettivamente, Greta Vidal e La bastarda degli Sforza, ci dicono di personaggi e di vicende assai fra sé lontani ma legati da vicissitudini sotto molti aspetti assai simili: il Rinascimento europeo e il Rinascimento fiumano, durato quanto una meteora nel tempo ma epocale per intensità. Greta Vidal ci racconta di un amore via via maturantesi nel clima infuocato della Città Martire tra una donna appena uscita d’adolescenza e un legionario nel breve periodo che intercorre tra la notte di Ronchi e il Natale di Sangue: quindici mesi di Fuoco nei quali si consuma un Secolo. Nello sfondo, né poteva essere diversamente, la figura del Vate Eroe Guerriero Legislatore Amatore che resiste a Cagoia-Nitti ma deve cedere alle cannonate del boia di Dronero-Giolitti schiavo del cawboy Wilson e dei suoi alleati albionico gallici traditori degli accordi prebellici e rei d’una vittoria per noi mutilata. Antonelli Sbuelz Carignani ci accompagna, in uno stile metà autobiografico metà narrativo, alla scoperta di una delle più grandi donne del Rinascimento, figlia legittimata, di Galeazzo Maria Sforza e della nobildonna Lucrezia Landriani, la bellissima Caterina, umanista, alchimista e amazzone guerriera sacrificata dalla ragion di stato all’imbelle Girolamo Riario, nipote di Sisto IV. Ambedue le vicende mi avvincono: quella fiumana, per un verso, che mi consente di conoscere o approfondire aspetti della complessissima personalità del mio Idolo Pescarese, e l’altra milanese-forlivese-romana-fiorentina di ammirare la grande Caterina (che a lei si sia ispirata la grandissima di Russia?), della quale amerei possedere, oltre al nome, almeno qualche stilla di sangue.

   Ora, durante la quiete autunnale, è tempo di tornare ai classici. Mi attendono, sul tavolinetto verde dei  volumi interrotti, insofferenti per il lungo abbandono, Gemistio Pletone, Montaigne, Voltaire, Schelling.

  _________________

  Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
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Commenti al Post:
Utente non iscritto alla Community di Libero
Mr.Loto il 03/11/20 alle 18:51 via WEB
Buona lettura allora . . . in questo periodo così travagliato in cui siamo praticamente obbligati a restare a casa, la lettura ci salverà. Un saluto
(Rispondi)
giuliosforza
giuliosforza il 04/11/20 alle 09:50 via WEB
Grazie. Un caro saluto
(Rispondi)
giuliosforza
giuliosforza il 04/11/20 alle 09:50 via WEB
Grazie. Un caro saluto
(Rispondi)
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