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Mit Goethe. Il Dante di Barbero. Bellini, Mathieu, Foà Fusinato

Post n°1061 pubblicato il 25 Gennaio 2021 da giuliosforza

 

976

   Siamo ancora in clima di Capodanno e voglio dedicare, dal mio Mit Goethe durch das Jahr 2021, come augurio ai miei cinque lettori quattro pensieri del Francofortese:

   Eben, wenn man alt ist, muss man zeigen, dass man noch Lust zu leben hat (21 Januar Montag). Proprio quando si è vecchi bisogna dimostrare che si ha ancora gioia di vivere (dedico questo pensiero soprattutto a me stesso).

   Nicht überall, wo Wasser ist, sind Frӧsche; aber wo man Frӧsche hӧrt, ist Wasser (21 Januar Donnerstag). Non dovunque è acqua son rane. Ma dove si senton rane ivi è acqua.

   Wer Freude will, besänftige sein Blut (23 Januar Samstag). Chi vuol star bene alleggerisca il suo sangue (che è un ottimo consiglio per chi durante le feste ha abusato).

   Nun schaut der Geist nicht vorwärts, nicht zurück; / Die Gegenwart allein - ist unser Gklück (25 Januar Montag). Ora la mia mente non guarda né avanti né indietro; è solo il presente la nostra felicità.

*    

Ho acquistato qualche ora fa il Dante (Laterza, Bari, 2020) di Alessandro Barbero, il simpatico medievista e non solo, meritatamente presentissimo  da molto tempo sugli scaffali e sugli schermi, uno dei pochi che mi riconciliano con gli storici, nei cui riguardi ho sempre nutrito il pre-giudizio che essi siano ideologicamente, se non anche economicamente, appigionati (lui pure, da buon ex comunista, almeno un poco, immagino, dovette esserlo; come, d’altronde, dovette esserlo quel gentiluomo di Mieli che spesso  lo ha ospite nelle sue trasmissioni consentendogli  di proporsi coram populo, e che popolo, in tutta la ricchezza delle sue conoscenze, e di brillantemente svettare, per ricchezza di informazione, chiarezza e scioltezza di stile, ironia e dis-incanto, tra gli impacci di altri accademici, e i farfugliamenti di tal altro che, servo irrecuperabile di ideologie testardamente ancora professate nonostante gli insulti del tempo,  ha il solo merito di arrossire da solo di quanto va dicendo, di arrossirsi, per così dire, addosso). Io, che storico non sono, che le storie, non la Storia,  gioco a inventarmele, invidio agli storici veri, gli storici seri, anzi serissimi come Barbero, la profonda indomita passione per la ricerca e per la documentazione, il potere di ridar vita ai morti, di far parlare le carte a lungo silenziose, di decriptare  messaggi,  scavare tra i ruderi e recuperare quanto per un caso fortunato sfuggì  alla furia distruttrice delle guerre o degli elementi; da essi ho riappreso il gusto del factum che sì infectum fieri nequit, ma che esclude da sé le tranquillizzanti certezze che siamo portati da esso ad attenderci e che ahimé (o vivaddio) mai ci darà. Nulla è più problematico del sapere storico, essendo i fatti i più facilmente e variamente interpretabili, e purtroppo manipolabili. Basta la riscoperta di una i per capovolgere il senso di una informazione a lungo data e accettata per certa, basta il reperimento di una tessera a far mutar senso a tutto un mosaico. E Barbero, la cui giovanile verve è immutata, che di ogni documento sa storia e preistoria, che è un comunicatore formidabile, che possiede ironia e distacco ad abundantiam, ed è sornione quanto basta, questo sa e dice. E lo dice col candore di un bimbo che “è cresciuto senza uscire d’infanzia”, di un ragazzino, anche se ha toccato i sessanta, dalle labbra perennemente atteggiate al sorriso birbone, dall’espressione del volto e dalla gestualità di un attore provetto. Ci vorrebbe un Barbero in ogni scuola ed in ogni università per riconciliare i discepoli, tediati dai barbassori, con quella vicenda dello Spirito nel suo oggettivarsi ed autoporsi che ha nome Storia.

   Dunque, ho acquistato qualche ora fa il Dante di Barbero e ne ho letto le prime 30 pagine. Per ricostruire la stirpe degli Aligherii l’autore parte da una interessante descrizione della battaglia di Campaldino (Fiorentini contro Aretini, vincitori i primi) che in prima linea tra i cavalieri vide il giovane Durante. Di qui a ritroso Barbero risale al trisavolo Cacciaguida per poi ridiscendere e riconsegnarci, attraverso una nutrita serie di notizie sull’aristocrazia fiorentina, la presumibilmente verace genealogia del Poeta. Io col povero Cacciaguida me la son sempre molto presa perché lo ritenevo falsamente responsabile di uno dei versi non stilisticamente ma contenutisticamente, per il messaggio che contiene, più orrendi che siano mai stati scritti, quello State contenti umana gente al quia che invece è di Virgilio (in Purg. III, 37) e che fa degna coppia col non meno orrendo quiesce a nimio sciendi desiderio dell’autore del De Imitatione Christi. Fideismo e dispotismo del quia contro il criticismo e il problematicismo del cur. Davvero un bell’insegnamento! Nelle prime 30 pagine pochi e di lieve momento sono i refusi, ma uno ne trovo imperdonabile (almeno da me per il quale ancora il ritmo è tutto) perché distrugge un endecasillabo, dando modo alla gelosa Euterpe di risentirsi con sua sorella Clio, con la quale Barbero ha più familiarità: O fronda mia in che io compiacemmi / pur aspettando, io fui la tua radice… /…Quel da cui si dice / tua cognazione e che cento anni e piue / girato ha il monte nella prima cornice / mio figlio fu e tuo bisavol fue. Dante scrive giustamente in la prima cornice, non nella, che provoca una fastidiosa aritmia, e il mio cuore già troppo aritmico per conto suo ne sobbalza. Mi chiedo dove siano andati a finire i bravi correttori di bozze del tempo dei piombi: dall’avvento dell’era digitale sembra si siano dissolti.

   Ascoltando Barbero ed ora leggendolo mi son fatto l’opinione che egli sia defeliciano quanto basta, e che parecchio con lo storico reatino egli condivida. Proverò a chiederglielo. Da quel che dice e dal come lo dice, ho l’impressione che egli si possa ritrovare in una dichiarazione di De Felice che rubo alla rete ricorrendo all’immorale ma comoda pratica del copia e incolla: nulla più «che l'essere stato marxista e comunista mi ha immunizzato dal fare del moralismo sugli avvenimenti storici. I discorsi in chiave morale applicati alla storia, da qualunque parte vengano e comunque siano motivati, provocano in me un senso di noia, suscitano il mio sospetto nei confronti di chi li pronuncia e mi inducono a pensare a mancanza di idee chiare, se non addirittura ad un'ennesima forma di ricatto intellettuale o ad un espediente per contrabbandare idee e interessi che si vuol evitare di esporre in forma diretta. Lo storico può e talvolta deve dare dei giudizi morali; se non vuole tradire la propria funzione o ridursi a fare del giornalismo storico, può farlo però solo dopo aver assolto in tutti i modi al proprio dovere di indagatore e di ricostruttore della molteplicità dei fatti che costituiscono la realtà di un periodo, di un momento storico; invece sento spesso pronunciare giudizi morali su questioni ignorate o conosciute malamente da chi li emette. E questo è non solo superficiale e improduttivo sotto il profilo di una vera comprensione storica, ma diseducativo e controproducente[7].» (Note e ricerche sugli Illuminati e sul misticismo rivoluzionario (1789-1800) Luni Editore 1960).

   Io non conobbi a fondo direttamente De Felice, anche se avrei voluto e potuto. Lo ebbi per caso vicino di poltrona al Teatro Argentina in una sera del 1996, alcuni giorni prima che prematuramente morisse. Si dava, di Sylvano Bussotti (il geniale personaggio fiorentino nostro coetaneo noto non solo come pittore, ma come poeta, romanziere, regista, attore, cantante, scenografo e costumista -Wagner con tutto il suo Gesamtkunstwerk gli fa un baffo) non ricordo quale dei suoi ‘Grafismi musicali’, le famose partiture da guardare oltre che da ascoltare. Gli chiesi: come mai qui uno come lei, frequentatore di tutt’altri universi? Mi rispose accennando un sorriso: curiosità, solo curiosità: non è forse la curiosità peculiarità dello storico?

   Delle circa 360 pagine del Dante che mi restano da leggere spero di aver qualcosa di più e di più serio da dire. Magari quel che non fue mai detto d’alcuno.  

*  

Ho rivisto dopo un anno apparsomi un giorno Tor Tre Teste nuova, e ne son tornato ancora una volta con l’animo turbato e traboccante di irrisolta nostalgia. Non ha gli spazi del mio nuovo quartiere, non i silenzi surreali, non il grande centro commerciale, fortunatamente isolato e circoscritto come una fortezza a proteggersi e a proteggere, testimonianza di un tempo infame che la nobile agorà ha degradato a volgare piazza brulicante di una folla irreale che trascina di negozio in negozio le sue solitudini e le sue angosce; non il grande Parco delle Sabine sconfinante nella selvaggia Riserva della Marcigliana, nei vasti prati della Cesarina che piamente ricoprono le vestigia di civiltà imperiture, e nei verdi mari di fruttetti e di oliveti della estrema Sabina romana. Ma ha gli spazi che furono per trenta anni del mio cuore, i cieli tersi e profondi che furono i luoghi della mia mente inquieta. E i pochi volti di persone che furono a me familiari e con me arrugarono e ingrigirono. E i fantasmi di quelle che l’Orco vorace anzi tempo ingoiò.

Tor Tre Teste, irreparabile tempus.

*

Ci son dei periodi nella nostra vita, così a me almeno accade, in cui, per motivi che appartengono solo al profondo e sono perciò difficilmente decifrabili, ci svegliamo con un motivo musicale nelle orecchie destinato a permanere giorni e giorni, prepotentemente insinuandosi fra gli altri eventi della vita psichica, accantonandoli o ponendoli in momentanea parentesi quasi ad operare una riduzione fenomenologica, un’epoché cartesiano-husserliana, di tutto ciò che ci circonda perché non resti che la coscienza di quel suono per il quale possa dirsi: cano, ergo sum, Ich singe, deshalb bin Ich, canto dunque sono. Che suona, è proprio il caso di dirlo, molto meno arido del Cogito ergo sum e in grado di fondare, in luogo di una filosofia sterilmente intellettualistica, una filosofia del sentimento come ragione partecipativa incarnata, fondativa di una teoria dell’essere come Musica Mundi, il cui Big Bang fu un Urklang .  

   Il motivo musicale col quale nell’orecchio oggi mi sono destato è quello belliniano del coro del primo atto de La Sonnambula che da sempre mi viene di adattare, non so perché, ai versi di Foà Fusinato dell’Addio a Venezia, che meno ossianici sono di quelli che Felice Romani scrisse per Bellini, ma nel ritmo identici:

A fosco cielo, a notte bruna,/al fioco raggio d'incerta luna,/col cupo suono di tuon lontano/dal colle al piano un'ombra appar.

In bianco avvolta lenzuol cadente,/col crin disciolto, con occhio ardente,/qual densa nebbia dal vento mossa,/avanza, ingrossa immensa par!

Dovunque inoltra a passo lento,/silenzio regna che fa spavento;/non spira fiato, non move stelo;quasi per gelo il rio si sta.

I cani stessi accovacciati,/abbassan gli occhi, non han latrati./Sol tratto tratto da valle fonda la Strige immonda urlando va.

   E recita la prima strofa del lungo Addio a Venezia di Foà Fusinato:

È fosco l'aere, il cielo è muto,

ed io sul tacito veron seduto,

in solitaria malinconia

ti guardo e lagrimo, Venezia mia!

Identico il ritmo, verso di due quinari, e stessa aura tetra. Provatevi a cantarla con la melodia del coro belliniano e noterete una strabiliante similitudine, un quasi vicendevole plagio.

(In una celebre canzone natalizia di Mireille Mathieu, Mille colombes, la melodia del refrain  -donnez nous mille colombes et de millions d’hirondelles,  faites un jour que tout le monde  redeviennent des enfants-  è pari pari quella del coro di sottofondo di ‘Casta diva’ della Norma belliniana. Ma qui non si tratta di plagio, bensì di un prestito dichiarato: Bellini figura correttamente tra gli autori della canzone).

   ____________

    Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

   Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

 

 

 
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