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Messaggi di Febbraio 2021

Calligrafia ed altro.

Post n°1063 pubblicato il 17 Febbraio 2021 da giuliosforza

978

   Con la scomparsa della scrittura a mano e relativa eliminazione di calamai inchiostri penne carte assorbenti etc. (io resisto e uso ancora spesso  le mie numerose penne stilografiche a stantuffo dal capace serbatoio, dalle più semplici ed economiche alle più preziose quali Pelikan, Mont-Blanc, Cartier; posseggo ancora  le penne delle elementari col pennino a punta e quelle col pennino spuntato per la scrittura gotica, con relativo calamaio domestico, ed ho una bella scorta di carte assorbenti omaggio della Casa musicale G. De Bernardi di Via San Luca nei Caruggi genovesi il cui proprietario era un devoto zelante di Padre Pio, uno di quelli privilegiati   che percepivano i suoi profumi - e quando entravo io sentiva afrore diabolico di zolfo, pur lo zolfo essendo notoriamente inodore, tranne che per la  Bibbia); con la scomparsa dunque della scrittura a mano non solo sparirà il piacere estetico dello scrivere, ma molte discipline e molti mestieri scompariranno che sono già in via di sparizione, quali calligrafia grafologia biblioteconomia… E addio psicologi grafologi e loro impiego, lautamente compensato nei tribunali. E con le nuove tecnologie, quelle che determineranno la sparizione o la modifica dei cinque sensi, della loro capacità percettiva (che si sia giunti al long immense raisonné dérèglement de touts le sens proposto da Arthur al poète voyant?) forse dilatata all’esplorazione di altre zone dell’essere finora ad essa vietate, si modificheranno le connesse funzioni cerebrali. Decisivo momento evolutivo, che porterà con sé, voglio essere ottimista, una nuova ontologia, una nuova antropologia, una nuova gnoseologia, una nuova estetica, una nuova etica, una nuova politica, insomma una nuova metafisica. Piaccia o no, le nuove scienze stanno stravolgendo la nostra Visione del mondo. Anche le teologie son destinate a cambiare, magari saranno le teologie, spero meno cavillose e fantasiose -definite da Borges la parte migliore della letteratura fantastica- della morte di Dio. Che s’annunci finalmente prossimo il tempo della Metantropologia, dell’Uomo nuovo, dell’Übermensch, del Superuomo? Non so. A me è toccato, ahimé, solo preconizzarlo.   

*

   Mi levo, come sempre, alla primissima alba, ma mai tanto, come in quest’alba, d’umor nero, e avverto la necessità di uscire a respirare un po’ d’aria rigida ma pura, pensosamente passeggiando attorno al caseggiato ancora addormentato, incurante del freddo umido che una pioggerellina impunita da giorni alimenta. Mi bardo alla bisogna, rinunciando però al colbacco per il policromo basco di lana scozzese, più in linea col verde predominante, nelle sue varie sfumature, del mio abbigliamento, ed esco. Respiro per circa tre quarti d’ora aria pura e silenzio, poi risalgo a godermi il mio appartamento al calduccio dei termosifoni e della musica classica che, io presente o assente, ventiquattro ore su ventiquattro risuona, trasmessa da una radio come me quasi antica ma già stereo e perfettamente funzionante, per le mie stanze. L’umor nero s’è attenuato ed è così che ho l’idea di immortalare in un autoscatto questo momento, che so fugace, di stato di grazia, e di condividerlo coi miei amici. Vuole essere una amenità, nient’altro che una amenità. Non immagino stia per trasformarsi in una cosa seria, tanto seria da tenermi occupato (graditissima gratificantissima occupazione) per il resto della giornata a contar like (si dice così?) e cuori, a leggere commenti (nessun mio precedente post ne ha avuto, s’io ben ricordo, negli anni di più numerosi) e a rispondere.

   Quante belle cose, carezzevoli agli occhi e al cuore, mi scrivete, amici! Che meravigliosa giornata trascorro in vostra compagnia! Quante epoche della mia vita con voi rivivo, quanti volti rivedo tesi nello sforzo della creazione, quanti occhi ricontemplo lucidi di passione conoscitiva! Esco da questa giornata ristorato ed anche un poco, grazie a voi, …restaurato. Accetto tutti i complimenti e tutti gli auspici col naturale disincanto e la naturale ironia che a un vegliardo si addicono, ma senza ipocrite riluttanze. Avete ragione a trovarmi giovane, anzi sempre più giovane! Come rispondo ai complimenti di una carissima amica francese, è naturale che io sia sempre più giovane: io son prossimo alle rinascite, verme o pupilla di fanciulla innamorata non conta, ché plus ça change, plus c’est la même chose (Alphonse Karr).

Animo, dunque, amici! Sursum semper corda! Chàirete aèi Dàimones!.

*

Piango la morte di Federico Roncoroni, prolifico scrittore, critico letterario, saggista, giornalista.

 

   Il comense Federico Roncoroni, (“una laurea” - ricavo da una intervista, presente in rete, concessa a Enrica Brocardo per Vanity Fair anni or sono- “in filologia classica con in mente una carriera accademica che, però, finisce per non decollare, - «perché puntai sul cavallo, ovvero il professore universitario, sbagliato» - una quindicina di anni di insegnamento nei licei, poi una carriera da «professore a distanza» come autore di libri di testo”) è stato un fertilissimo poligrafo, qualche centinaio sono i titoli letterari da lui firmati per lo più con pseudonimi, fra i quali risalta una grammatica italiana che mi dicono diffusissima da noi e all’estero. L’ironia con la quale accenna al ‘cavallo sbagliato’ mi fa tanto sorridere perché mi ripiomba in quel circo-mercato-ippodromo-sala scommesse al quale in molti casi è ridotto certo ambiente universitario ch’io ben conosco.  Ma se mi interesso qui di lui è per la molta attenzione dedicata a D’Annunzio, soprattutto alla sua vita (si veda quella famosa, scritta in collaborazione con l’amico Piero Chiara, che a molti, me compreso, parve  più una volontà di dissacrazione, in molti casi quasi una denigrazione, che una serena, obiettiva  narrazione); ma soprattutto per la sua curatella del capolavoro dannunziano  Alcyone, le cui 88 liriche introduce commenta annota con tale abbondanza di erudizione da ricavarne un volume di circa ottocento pagine, quello pubblicato da Arnoldo Mondadori nel 1982 e che ho sottomano, massacrato di rilievi e di note. Un lavoro che, pur condotto con totale acribia, anch’esso mi lascia qua e là perplesso ma che sicuramente, con quello allo stesso tema dedicato da Annamaria Andreoli nei Meridiani Mondandori (Versi d’amore e di gloria, vol. 2°), risulta tra gli studi più approfonditi. Molte delle mie riserve svaniscono se leggo la presentazione redazionale del volume riportata in quarta di copertina, che spero da lui condivisa, se non da lui stesso dettata, che recita:

   “Alcyone, terzo libro, dopo Maia e Elettra, delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, è unanimemente considerato il capolavoro del D’Annunzio poeta. In esso, vero e proprio diario lirico di una breve stagione estiva vissuta tra le colline di Fiesole e le spiagge della Versilia, tra le Apuane e il mare e, nel contempo, storia di un impossibile sogno di totale divinizzazione dell’uomo attraverso i sensi e attraverso il mito. D’Annunzio trasfigura e traduce musicalmente sensazioni, impressioni e immagine e scardina il lessico, la sintassi e il metro tradizionali per conseguire il massimo della suggestione e dell’estasi panico-naturalistica. Con le sue 88 poesie, perfetta sintesi di immediatezza lirica e di elaborazione tecnica, di “natura” e di “arte”, Alcione rappresenta il momento più felice della creatività dannunziana e segna il di partenza di tutte le esperienze poetiche novecentesche”.

   Questo sì un è dir chiaro, senza se e senza ma, senza i retropensieri e le reticenze che molto infastidiscono il lettore del commento roncaroniano, che siede alla lauta mensa del poeta non con l’atteggiamento del critico impettito (lo steifer Weise nicciano) intento a trovare il pelo nell’uomo, ma con lo stato d’animo di colui che vuole gustare fino in fondo gli straordinari sapori delle portate a disposizione. Ciò detto sarebbe disonesto non riconoscere all’impresa roncaroniana il grande valore che merita che come una delle più lucide dotte approfondite, insieme a quella succitata di Annamaria Andreoli, riflessioni dedicate al capolavoro del Pescarese.

*

Dal Teatro San Carlo di Napoli Mosè in Egitto di Rossini nell'allestimento firmato da Hugo de Ana con la direzione musicale di Salvatore Accardo. Protagonista principale Mariella Devia, mirabile Elcia. Per il celeberrimo brano corale Dal tuo stellato soglio, una delle pagine più sublime del Pesarese, darei buona parte del Rossini comico. Commozione, con lacrime liberatorie, come sempre al suo ascolto.

 

   Poscritto cattivo: perché Accardo non si fa bastare l’essere (essere stato?) il violinista che è? Perché non lascia la bacchetta usurpata e torna all’archetto?

*  

   Rossini continua a imperversare, come è giusto, su Rai5, ed io me lo gusto, anche se i ghirigori del bel canto delle sue opere comiche e non solo da un bel po’ mi hanno tediato. Ma questa volta c’è Adelaide di Borgogna, opera raramente in repertorio ma che forse meriterebbe più frequente presenza sulle scene. Ẻ ripresa dal Festival pesarese, e c’è una Daniela Barcellona nel pieno della sua maturità artistica e umana, una Daniela incantevole, una voce divina, una compostezza senza uguali. Mi chiedo come faccia a emettere cotali suoni, spesso ai limiti dell’impossibile, a bocca quasi chiusa, quasi stesse parlando, senza mostrare il cavo orale in ogni suo anfratto, senza contorcere spaventevolmente ogni tratto del volto, come alla maggior parte delle sue colleghe avviene. Oggi è la mia soprano prediletta e certamente la più dotata in giro.

Di pomeriggio ‘Osn in festa con David Garrett’. David Garret è bello, è giovane’, possiede un virtuosismo strepitoso. Ha tutto ciò che serve per fare impazzire un pubblico che non cessa dall’applaudire e riesce ad ottenere sei bis.

*  

   È dedicata a Mirella Freni, a un anno dalla scomparsa avvenuta il 9 febbraio 2020, la tradizionale programmazione operistica della domenica mattina alle 10.00 che Rai Cultura propone su Rai5. Nel mese di febbraio sono previsti quattro grandi spettacoli che hanno visto protagonista il grande soprano italiano in teatro o in televisione. 
   L’anno è iniziato domenica 7 febbraio con Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea, andata in scena al Teatro alla Scala nel 1989 nell’allestimento firmato da Lamberto Puggelli con la direzione musicale di Gianandrea Gavazzeni, del quale il 5 febbraio ricorre il venticinquesimo anniversario della scomparsa. Protagonisti sul palco accanto a Mirella Freni sono Fiorenza Cossotto, Peter Dvorsky, Alessandro Cassis, Ernesto Gavazzi, Osvaldo Di Credico, Patrizia Dordi e Sara Mingardo. La regia televisiva è curata da Brian Large.

  Mirella Freni ha il volto illuminata da una luce diversa, un sorriso da cui traspare una grande pensosa serenità, come fosse già immersa in altre atmosfere, come se respirasse già altre arie. La sua esibizione (ma anche quella della Cossotto e di altri fra gli interpreti principali) sotto la bacchetta di quel genio di Gavazzeni sembra riattingere le vette già altissime raggiunte nella lunga carriera, superandole. Il pubblico, ed io dalla mia clausura con esso, siamo commossi, e non smettiamo di applaudire e lanciar mazzi di fiori sul palco. E non sappiamo di star lanciandoli sulla sua bara. Mai m’era avvenuto di assistere a una tal pioggia di rose, simile a quella che Teresa di Lisieux si impegnò prima di morire a lanciare sul mondo. Addio Mirella dolcissima, incarnazione per noi di Frau Musika, grazie per tutta la gioia che hai sparso sul nostro cammino di tormentati viatori.    

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  Gelobt seist du jederzeit, Frau Musika!

 

 

 

 
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"Heldenplatz" di T. Bernhard, "La cantatrice calva" di Jonescu, Emma Dante regista

Post n°1062 pubblicato il 09 Febbraio 2021 da giuliosforza

 

977

   Mi ero imbattuto in  Thomas Bernhard, nel suo turbato e conturbante Spirito, mediante la lettura di Grandi Maestri, un libro anarchico e ribelle nello stile e nei contenuti, ed ero rimasto sconvolto, positivamente sconvolto, dalla potenza e dalla libertà del suo pensiero, dal suo coraggio civile, dalle sue denunce a catapulta, da suoi attacchi feroci alle istituzioni (civili e religiose, Chiesa cattolica in particolare) ritenuti responsabili dell’appiattimento estetico, morale, intellettuale, culturale e umano in genere dell’Austria postbellica, insomma del  suo re-imbarbarimento. Le ‘insolenze’ bernhardiane non furono bene accolte, come ci si poteva attendere, e lo scrittore fu accusato dalla stampa di ogni colore di essere un Nestbeschmutzer, uno che insudicia il nido dove è stato allevato, più volgarmente uno che sputa nel piatto dove ha mangiato. Ma il bello e il forte è che Thomas proprio sulla natura del nido, sulla natura del piatto ce l’ha! Non salva nemmeno il Kunsthistorisches Museum, dove il protagonista va settimanalmente a fare le sue considerazioni; solo un poco si salva il Musikverein, il tempio della Musica, dalla quale solamente, dice, forse ci si può attendere un minimo di salvazione.

   Rai5 ha inteso celebrare la Giornata della Memoria (sulla quale ho troppe volte espresso la mia opinione, perché stia qui a ripetermi), trasmettendo il capolavoro della sua drammaturgia, Heldeplatz, Piazza degli eroi, che i curatori dell’edizione televisiva hanno per così dire sforzato alla circostanza. Si tratta, come ho accennato, di una delle opere drammaturgiche più celebrate di Bernard, che era destinata debuttare a Napoli al teatro Mercadante, debutto poi rimandato per i regolamenti anti-covid. Secondo i curatori vorrebbe rappresentare “una riflessione sulle macerie del '900 e sul ritorno di nuovi fascismi o nazismi” e la trama lo giustificherebbe.  Ma nell’intenzione bernhardiana la Piazza è qualcosa di più che un luogo reale. Essa si dilata metaforicamente fino a comprendere l’intero mondo ove una umanità trascina una vita insulsa e tragicamente ridicola, se osservata dal punto di vista della morte: Es ist alles lächerlich, wenn man an den denkt.
   Questa in estrema sintesi la trama. Vienna, 1988. Il professor Schuster, intellettuale ebreo, torna nella sua città dopo un esilio iniziato al tempo in cui Hitler annunciò l’annessione dell’Austria alla Germania nazista. Accadeva 50 anni prima, nella piazza che dà il nome all’opera di Thomas Bernhard. Rientrando in patria, Schuster ritrova un paese incattivito, dove l’odio avanza nuovamente. Non potendolo sopportare, pone fine alla sua vita, precipitandosi da un palazzo affacciato sulla Piazza degli Eroi.
  «Piazza degli Eroi - scrive il regista Roberto Andò - è un capolavoro che, inspiegabilmente, in Italia non è stato mai messo in scena. Oltre a essere il testamento di Thomas Bernhard, lo si può considerare il suo testo più politico, pur consapevoli che questo autentico genio ha sempre declinato la politica in termini esclusivamente poetici. Qui Bernhard colpisce con il suo furore indomabile la zona più oscura del nostro tempo, il ritorno in campo di una destra fascista o nazista. Nel disegnare il suo estremo congedo dalla vita e dal teatro, Bernhard sceglie di dare un nome e un tempo all’ottusità brutale che vede avanzare. Ma come accade nelle opere più profonde profetiche, l’Austria di Bernhard è un luogo concreto e, contemporaneamente, una metafora. Così come lo è la piazza che dà il nome al testo, la stessa in cui nel 1938 Hitler annunciò alla folla acclamante l’Anschluss, l’annessione dell’Austria al destino nazista della Germania». «Se è venuto il tempo di rappresentare in Italia Piazza degli Eroi - continua il regista - è proprio perché, a dispetto della inedita precisione realistica di Bernhard, per comprendere oggi il senso di questo testo visionario e catastrofico non occorrono indicazioni di luogo e di tempo. Gli spettatori che assisteranno a Piazza degli Eroi, capiranno subito che l’azione si svolge in una qualsiasi piazza da comizio, di una qualsiasi città d’Europa».

*

  A completare il lauto menu di questi giorni non poteva mancare Eugen Ionescu con la sua Cantatrice calva e il teatro dell’assurdo.

   Tra i grandi rumeni che ho avuto modo di frequentare Ionescu non è stato il mio prediletto. Il suo ‘teatro dell’assurdo’ non mi ha mai convinto e conquistato. Diversamente è stato per  gli altri esuli come lui Emil Cioran de L’inconvénient d’être né, Vintila Horia di Dio è nato in esilio, il poeta e filosofo Lucian Blaga, il grande antropologo, filosofo, storico delle religioni Mircea Eliade, il suo discepolo Ioan Petru Culianu (che un anno dopo aver partecipato con Elemire Zolla al Colloquio internazionale -Roma, Arsoli, Vivaro- uno dei tanti organizzati dalla mia Cattedra  e dall’Associazione culturale di Varia Umanità e musica  ‘Vivarium’, al suo rientro a Chicago fu assassinato da un sicario forse di Ceausecu. Il titolo del Colloquio era Dialogo delle Civiltà”, Religioni ed Educazione ed ebbe grande risonanza sulla stampa.

*

Un’altra chicca di Rai5: Il Lago dei Cigni.

   Si tratta del balletto classico più amato messo in scena nel 2004 al Teatro degli Arcimboldi, con la direzione musicale di David Garforth. Sul palco due star assolute della danza internazionale: Roberto Bolle e Svetlana Zakharova, nei panni di Siegfried e Odette/Odile. La coreografia è firmata da Vladimir Bourmeister, lontano discendente di Cajkovskij, che la realizzò nel 1953 basandosi sulla partitura originale del balletto. Le scene e i costumi sono di Roberta Guidi di Bagno, mentre la regia televisiva è di Tina Protasoni.

 I miracoli esistono. Sono le gambe  le caviglie le punte dei piedi della Zakharova. La Zakharova è la Danza nella sua perfezione. Sconfitta la forza di gravità. Danza di Nietzsche.

*  

 “Argerich and Friends”: di Shostakovich, Sonata per violoncello e pianoforte (Mischa Maisky cello, Argerich piano); di Peter Heidrich, Variazioni sul tema di Happyburtday; di Saint-Saens, Carnevale degli animali (Due pianoforti -Pappano Argerich- e complesso da camera), questa l’offerta di oggi pomeriggio di Rai5. Raffinatissima. Un Pappano così bravo pianista non lo immaginavo, come direttore lo amo, ma le smorfie scomposte che fa con la bocca, quasi fosse sotto l’effetto di un continuo riflusso gastrico, me lo rendono talvolta insopportabile.

*

   Rai5 mi tiene sveglia la mente mentre diletta il mio orecchio. Per la prima volta non mi pento di pagare il Canone, non lo ritengo più un ladrocinio. Questa è di nuovo la volta della Cavalleria rusticana, ma nella versione registica di Emma Dante, la discussa, come tutte le persone di ingegno, cinquantatreenne palermitana attrice, regista di prosa e d’Opera, scrittrice la cui fama ha varcato ormai lo Stretto, le Alpi e gli Oceani.

   Non ho simpatie per il verismo e per il Verga da cui il toscano Mascagni prese ispirazione per la sua Cavalleria. Ma la Cavalleria rusticana (soprattutto il suo intermezzo di cui posseggo una elaborata riduzione per organo, sotto molti aspetti più ricca della partitura orchestrale) mi piace per la freschezza, l’‘ingenuità’, etimologicamente intesa e resa, della sua ispirazione e anche per la sua brevità che le consente di essere intensa in ogni momento senza cadute lungaggini stanchezze. La versione trasmessa da Rai5 è quella bolognese di qualche anno fa.   Riporto le note introduttive di Roberto Mori, che condivido pienamente:

   “Clima decisamente diverso (da quello de La voix humaine di Prancis Poulenc trasmessa nella stessa serata, nota mia) nell’allestimento di Cavalleria rusticana. Il contrasto visivo è forte. In un palcoscenico nero, quasi vuoto, tre piccole strutture mosse da figuranti creano i luoghi dell’azione: un terrazzo, il balcone di Lola, l’osteria di mamma Lucia, l’altare e le scalinate della chiesa. Non un contesto realistico. Per Emma Dante, l’opera non evoca cartoline o i luoghi comuni dell’iconografia verista, ma un clima di passione pasquale percorso da tristezza sconsolata, violenza e, soprattutto, da un senso religioso preminente e opprimente.
   Anche se non mancano momenti di ironia e giocosità (le danzatrici-cavalle impennacchiate di Alfio), la Dante trasforma di fatto 
Cavalleria in una sacra rappresentazione. E qui la sua chiave di lettura non quadra del tutto. Fin dall’inizio appare un Cristo nero che trascina la croce sotto le frustate del centurione, seguito da Maria e dalle pie donne, percorrendo le tappe di una Via Crucis che si concluderà con l’identificazione fra il pianto di mamma Lucia e quello della Madonna e quindi con un evidente, quanto forzato parallelismo fra il martirio di Cristo e quello di Turiddu (che agnello sacrificale proprio non è). Il tutto suggellato dalla citazione del Compianto sul Cristo morto di Niccolò Dell’Arca. In questa discutibile cornice sacra, si affastellano così momenti bellissimi (il duetto-sfida fra Turiddu e Alfio coi suoi picciotti) e altri meno convincenti, come il brindisi-baccanale che si conclude con uno svenimento collettivo. Tuttavia, al di là delle forzature e di alcune soluzioni meno riuscite, si tratta pur sempre di uno spettacolo ben gestito, che conferma, se mai ce ne fosse bisogno, la capacità di Emma Dante di fare vero teatro”.

*

 Il piatto forte della mattina del giorno dopo è L’Angelo di fuoco di Prokoviev, l’autore che con Shostakovich dovette maggiormente barcamenarsi col più nero periodo dell’oscurantismo estetico staliniano, e per questo lo amo. Insieme a Strawinskij è il mio prediletto fra i compositori russi del Novecento. Fu anche uno degli autori preferiti del ‘Seminario di educazione all’ascolto’ curato da Maria Teresa Luciani per gli studenti del mio corso di ‘Metodologia dell’educazione musicale’. Mi stravacco in poltrona e mi godo finalmente in pace, grazie all’eremitaggio impostomi dal covid (ma sempre solitario, non solo, son io: è l’imposizione che rischia di togliermene tutto il gusto) il fantasioso capolavoro (fantasioso alla seconda potenza, per il pesante, anche questa volta, intervento scenografico di Emma Dante) nell’edizione andata in scena nel 2019 al Costanzi di Roma con Alejo Pérez sul podio e nel cast Ewa Vesin, Leigh Melrose, Anna Victorova e Mairam Sokolova.   

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