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Messaggi di Marzo 2021

'Lucia". Cazzullo. Adone. Marzio Pieri. Bastone animato

Post n°1071 pubblicato il 20 Marzo 2021 da giuliosforza

 

983

   Per l’ennesima volta assisto alla Lucia di Lammermoor e ancora una volta mi commuovo, non tanto o solo per l’opera in sé, ma per il cumulo di memorie e di emozioni che mi evoca. Che sia la migliore opera, fra quelle serie, di Donizetti non v’ha dubbio. La trovo nel suo genere di una perfezione assoluta e persino sotto molti aspetti avveniristica, più di molte cose verdiane. Dall’inizio alla fine il torrente melodico scorre compatto senza un accenno di rallentamento di dispersione o di interruzione di flusso, la coerenza della sequenza ispirativa sbalordisce dalla prima nota all’ultima nota, da Verranno a te sull’aure a Tu che a Dio spiegasti l’ali. La vicenda d’amore e morte, necessario tributo a un Romanticismo al suo culmine, affidata ad una musica e a un libretto che vicendevolmente una volta tanto non si prevaricano o tradiscono, ti entra nell’anima, attinge cuore e precordi, e tu piangi, oh se piangi, senza vergogna. E poi quell’Anna Moffo nel pieno della sua bellezza e della sua bravura!...

   La Lucia fu la prima opera lirica, anzi la prima composizione musicale in assoluto, che sentivo nominare nella mia vita da bambino. Di essa, come di un personaggio da leggenda paesana, spesso ascoltavo dire dai contadini dai pastori e dai boscaioli del mio borgo in Piazza o all’osteria al loro ritorno dai campi o la domenica dopo la Messa. Attraverso essa una ininterrotta tradizione orale narrava di una presenza, il 5 o il 6 agosto 1835, di Donizetti (che aveva sposato a Roma una Teresa Vasselli oriunda del vicino Riofreddo) in paese, ove nel caratteristico variopinto gazebo riservato alla banda avrebbe fatto provare estratti della sua opera appena terminata (sarebbe stata rappresentata il 26 del mese dopo al San Carlo di Napoli, i tempi tornano). Le tradizioni orali contano, oh se contano, spesso più dei documenti scritti non raramente sospetti o manomessi. Di esse ci si può fidare. Il compianto amico flautista e storico locale riofreddano Luca Verzulli, recentemente strappatoci dal maledetto, per la verità metteva in dubbio la credibilità dell’evento, ma confessava di non poterlo con certezza escludere. Credimi Luca, ora puoi verificare: io ero lì presente, novantotto anni prima della mia seconda nascita, e ascoltavo la Lucia con le mie sensibilissime orecchie e mandavo i motivi a mente con la mia straordinaria memoria musicale! Ero lì, lo giuro, puoi credermi. Lo ricordai un giorno, in uno dei miei tanti  pallegrinaggi alle urne dei Grandi, all’Ombra di Gaetano nel suo avello bergamasco (accanto a quello del suo maestro, il tedesco Simon Mayr) in Santa Maria Maggiore. Oh, sei tu, quel bambino! sussurrò. E uscì dall’avello ad abbracciarmi.

*

   Terminato il Dante di Alessandro Barbero. Non tradite le aspettative. Abbondante e selezionata documentazione, linguaggio piano e scorrevole, non senza qualche lepidezza. Proseguo con A riveder le stelle di Aldo Cazzullo. Tutt’altro genere e tutt’altra sostanza. Una gradevole volgarizzazione della Comedia. Ma l’informazione è abbondante e corretta e non mancano, nel generale ossequio alle più comuni interpretazioni (quelle dei dantisti e degli storici più noti), le interpretazioni originali; lo stile è da romanzo storico, intrigante e di piacevole lettura. Riposante. Avverte prudentemente e onestamente Cazzullo: “Questo non è un commento alla Divina Commedia. Ne sono stati scritti molti, e da grandi studiosi. Questo è un racconto del viaggio di Dante, e di come le sue parole abbiano contribuito a creare l’identità italiana” (pag. 77). Excusatio non petita? Solo onestà intellettuale. Nelle scuole potrebbe aiutare il prof impacciato ad avvicinare a Dante gli studenti senza farglielo odiare (come il più spesso avviene). Tra i pochi versi che Cazzullo cita non potevano mancare quelli che descrivono l’incontro con l’avversario politico Farinata degli Uberti

  

   Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?

   Vedi là Farinata che s'è dritto:
   da la cintola in sù tutto 'l vedrai».

   Io avea già il mio viso nel suo fitto;
   ed el s'ergea col petto e con la fronte
   com' avesse l'inferno a gran dispitto.

   Frattanto riprendo il Dizionario dei miti letterari (Tascabili Bompiani 2004, traduzione e cura di Gianfranco Gabetta. Titolo originale Dictionnaire des mythes littéraires, a cura di Pierre Brunel, 1988 Éditions du Rocher - Monaco). L’avevo interrotto anni fa già al secondo mito, quello di Adone, che fa seguito al mito di Abramo (la trattazione segue l’ordine alfabetico, obbligando la mente, e trovo ciò molto positivo, a continui salti spazio-temporali e concettuali assai notevoli, obbligandola a una salutare ginnastica). Vari i collaboratori per gruppi di voci. Da Abramo al Vello d’Oro in 675 pagine una completa rivisitazione di 50 miti nell’interpretazione dei letterati di ogni epoca e di ogni luogo. Dalla quarta di copertina: “Esistono figure e temi mitici che periodicamente tornano a riaffiorare nelle pagine dei grandi capolavori letterari arricchendosi ogni volta di nuovi significati. È un continuo gioco tra il rispetto della tradizione, che fornisce uno scenario mitico costituito da alcuni dati fissi, e un infinito repertorio di variazioni a prova della libertà e delle a forza vitale della letteratura. Da Antigone a Edipo, da Faust a Don Giovanni, questo volume presenta alcuni degli esempi che meglio incarnano il complesso rapporto tra mito e letteratura”.

“Il mito racconta come, grazie alle imprese deli Esseri sovrannaturali, è venuta alla luce una realtà totale, il Cosmo, o solamente un frammento: un’isola, una specie vegetale, un comportamento umano, un’istituzione. È comunque sempre la narrazione di una ‘creazione’, di come qualcosa sia stato prodotto e abbia cominciato a essere”. (Mircea Eliade)

   “I miti non hanno un autore: nell’istante in cui sono percepiti come miti, quale che sia la loro vera origine, essi non esistono che incarnati in una tradizione. Quando un mito viene narrato, alcuni uditori ricevono individualmente un messaggio che, di fatto, non proviene da nessuna parte; è per questa ragione che gli si assegna un’origine sovrannaturale”. (Claude Lévi-Strauss)

   Il mito del bell’Adone, conteso da Afrodite e da Artemide ma non solo, amante della caccia e, per la disperazione delle due dee, ucciso da un cinghiale, mi interessa molto, ma per vicende a noi più prossime. Agli inizi di questo secolo ebbi modo di conoscere e familiarizzare col più grande studioso italiano del Cavalier Marino e, naturalmente del suo capolavoro: Marzio Pieri, fiorentino che di un fiorentino aveva tutti i pregi caratteriali, compresa la dantesca superbia. Esule volontario a Reggio Emilia, professore di letteratura a Parma, al Barocco e a Marino dedicò studi fondamentali, pari, se non superiori, a quelli da lui riservati al Bruno nelle edizioni la Finestra di Trento. Ma di ciò credo di aver già diffusamente parlato. Ora Marzio se ne è andato, ha raggiunto il Cavalier Marino nei suoi cieli, vicino vicino all’Empireo che, ci giurerei, non può che esser barocco.

*

   Apro a caso il Novum Testamentum graece et latine (Sumptibus Pontificii Instituti Biblici Romae 1938) e gli occhi mi cadono su una citazione di Isaia fatta da Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: ἐσκόρπισεν, έδωκεν τοϊς πένησιν, ή δικαιοσΰνη αυτοΰ μένει εί τον αιϖνα (Προσ Кορινϑιόυσ β’) Si liberò dei suoi beni e li distribuì ai poveri: la sua giustizia rimane in eterno. (Isaia, 55,19). Rifletto: io che non ho beni da disperdere, rimarrò dunque ingiusto per l’eternità, con tutte le conseguenze che tale situazione comporta? E trovo il modo di consolarmi: non avrò beni materiali da distribuire, ma in quanto a talento e cultura, beni immateriali ma assai più preziosi dei materiali, la natura, me lo riconosco umilmente, non è stata con me avara; questi sì, ho passato la vita a donare senza mercanteggiarli, a piene mani. V’è forse dunque un posticino anche per me nell’eternità dei giusti.

*

   Basta aprire un libro di storia o di letteratura per accorgersi che non esiste generazione che non abbia rimpianto la precedente. Il che qualcosa deve pur significare. E significa che la sensazione comune che gli uomini hanno è che andare avanti non significa necessariamente andare verso il meglio, tutt’altro. Non è necessario essere pessimisti per crederlo. Lo stesso così detto progresso scientifico e tecnologico incide sull’avere, non sull’essere, per meglio dire sul fenomeno, non sul noumeno. Il profondo non viene scalfito nella sua essenza. Più scavi più a un più profondo sei rimandato ove sempre più ti spauri. Le ansie, le sofferenze, le attese vanificate, le speranze frustrate resteranno sempre le stesse nella forma, sempre peggiori nel contenuto. Ancora una volta: Plus ça change, plus c’est la même chose, da correggere anzi in Plus ça change, plus c’est pire. Rassegnarsi dunque? No. Fingere di poter afferrare il destino per la gola. Giova alla sopravvivenza e all’illusione della propria potenza. Frenare la corsa verso il baratro è pura illusione. Ma può amarsi il baratro. Baratro è in fondo anche l’Eternità che amiamo: è comunque un perdersi.

(P.S. Oggi mi va storta. Ma non mi va di sforzarmi ad autoconfutarmi, come sarebbe onesto).

*

   Ho cambiato itinerario e orario per la mia passeggiatina mattutina. Esco ormai non prima delle 8.30, già il sole è altino ma la terra è ancora coperta di rugiada. Madre Gea lentamente l’assorbe e ne nutre i nuovi concepimenti nel suo vasto grembo. Dopo un breve tratto di strada mediamente trafficata, svolto a sinistra per un grande spazio verde semi selvaggio intercalato da brughiere e saliscendi dai quali si vedono scomparire e apparire le torri cementizie, vicinissime in linea d’aria, non orrende osservate a distanza, di Colli della Serpentara e di Colle Salario che racchiudono, gli uni a sud l’altro a nord, l’antico borgo, poi disordinatissima borgata, di Fidene, la Fidenae  ricca di siti archeologici di notevole rilevanza purtroppo come tutto in questa benedette Italia provinciale pessimamente curati. Alla mia destra appaiono e scompaiono gli agglomerati più diversi, nei quali predomina il bianco delle graziose palazzine di Caltagirone, qua e là intercalate da costruzioni in cortina delicata rotta da balconate spaziose esse pure per lo più bianche, che son soprattutto quelle del sito detto Casale Nei, il più prossimo al centro commerciale di Porta di Roma, dove è la mia abitazione. Non può certo dirsi monotono il mio nuovo quartiere: come Madre Roma che lo sta generando (parto per la verità troppo lungo e laborioso) può dirsi dei sette colli, anzi di più colli, tale risultando conformato il territorio che dalla Nomentana all’altezza di Ponte Nomentano e di Piazza Manenio Agrippa, dolcemente divaricando verso nord ovest sale in direzione della Salaria e del GRA sui quali Colle Salario da notevole altezza incombe. I viottoli a saliscendi che percorro sono solitari: un solo signore dall’aria sospettosa, o solamente pensosa, incontro col suo cagnolino più di lui sì sospettoso, forse intimorito (strano caso: gli altri cani in cui mi imbatto, numerosi nelle ore più frequentate  abbaiano furiosi, tanto più furiosi quanto più piccoli, non so se per la mia foggia di vestire  o per il mio bastone) dal mio grande bastone africano doc: legno compatto, fusto di tre cm di diametro variamente cesellato e ingenuamente ricamato, due  intagli cilindrici a spirale, impugnatura a cuore maculata come pelle di serpente, elefante perfettamente scolpito a sorreggere l’impugnatura, due graziose antilopi sotto l’elefante le cui svelte corna si ripiegano a  semicerchio congiungendosi e formando due archi perfetti; insomma un capolavoro (di cui si vedono copie industriali di  pessimo gusto e di scarso valore). Discendo nel valloncello che per viottoli ricoperti da sterpi conduce in via Pupella Maggio, dalla quale incrociando viale Carmelo Bene mi immetto in via Vianello che poi diventa Soldati. All’imbocco di Viale Baseggio mi si para davanti una specie di mastino che pare un cerbero. E che è lui a tirare il padrone che a stento riesce a trattenerlo, e non viceversa: per un pelo non mi è addosso, ma io faccio per infilargli il mio bastone africano nelle fauci e si placa. Ma perché non sbrana il suo padrone e se la prende con me? Che avrò mai fatto io, il più mite degli uomini, ai cani? Gino, almeno il caro Gino di Jacopo Numa Leon, almeno lui mi amerà? La prossima volta prenderò per le mie passeggiate, dei miei cento e passa bastoni, quello animato, costruito da un artigiano bretone, che nasconde non il solito corto stocco, ma una vera e propria lama da duello, capace di passare da parte a parte, e che mi fu donato in Bretagna, a Saint-Malo, come pegno d’amore, da una demoiselle vezzosa e spiritosa che fingeva d’esser presa di me: su di esso mi fece giurare che se m’avesse lasciato con esso avrei dovuto ucciderla. Era cento anni fa, all’epoca dei cavalieri senza macchia e senza paura e delle dame in crinolina, non ancora in minigonna. Che donne, che vezzi, che spade!       

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   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

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Shakespeare-Scespirelli-Scrollalanza

Post n°1070 pubblicato il 14 Marzo 2021 da giuliosforza

 

982

   Oggi non ho voglia di pensare e mi diverto con Shake-speare-Scespirelli-Scrolla-lanza. Anche per farmi perdonare una cattiveria che ho scritto ieri: sfuggitomi in una risposta a un lettore un te pronome accentato (), ho annotato dopo essermene accorto:’ naturalmente il va letto senza accento, tanto più che odio gli albionici bevitori di tè’. Dove un po’ del mio innato malcelato scherno c’è, inutile negarlo. Dedico dunque questo spazio tutto ad Albione ed al suo Immortale drammaturgo e poeta. Suo, poi? Più d’uno l’ha messo e lo mette in dubbio, e sembrerebbe con buone ragioni.

   Amico intimo di Filippo Bruno nolano in arte Giordano, e perciò per legge transitiva amico dei suoi amici e quindi anche dell’esule John Florio, che altri non sarebbe che Shakespeare, mi prendo il piacere di trascrivere per i miei lettori un lungo articolo tratto dalla rete, in cui si sostiene la tesi dell’italianità, anzi sicilianità del Drammaturgo sommo con argomentazioni che ritengo plausibili. E affronto questo giorno sereno e polare, anzi siberiano, con una delle mie illusioni, senza le quali la vita mi sarebbe invivibile. Per i brani che cito ringrazio gli autori: la spiritosa giornalista Giusi Patti Holmes del quotidiano indipendente ‘ilSicilia’, il blogger Admin e gli autori anonimi di Wikipedia, uno dei quali riporta una testimonianza di Guido del Giudice, medico bruniano che non ha nulla da invidiare ai brunisti, e che all’acribia del ricercatore unisce la passione dell’innamorato. Debbo far notare inoltre che il Michelangelo citato nell’articolo della Holmes è il padre di John e non il John studioso che a noi interessa e che è uno dei commensali de La cena de le Ceneri del Nolano.    Inizio col riportare, dalla rete, le notizie storiche sul personaggio storico John:

   “Giovanni Florio, noto anche come John Florio (Londra1552 Fulham1626), è stato un umanista inglese di origine italiana, nacque durante il regno di Edoardo VI, grande lessicografo, linguista, traduttore, scrittore e precettore reale.

   “È riconosciuto come il più importante umanista del Rinascimento inglese. Ha contribuito allo sviluppo della lingua inglese con 1149 parole, posizionandosi terzo dopo Chaucer, con 2 012 parole, e Shakespeare, con 1969 parole, nell'analisi linguistica condotta da John Willinsky John Florio è citato 3871 volte nell'Oxford English Dictionary ed è la 77esima voce più citata nell'Oxford English Dictionary.

Fu anche il primo traduttore in inglese del filosofo e scrittore francese Montaigne, e il primo traduttore di Boccaccio. Ha inoltre scritto il primo esteso dizionario inglese-italiano, superando il primo dizionario italiano-inglese di William Thomas, pubblicato nel 1550.

   “Il poeta e scrittore Ben Jonson, di cui Florio era amico, definì Florio, in una dedica scritta a mano per il suo volume il Volpone, come un ‘padre amorevole’ e un "supporto di Ispirazione Poetica". ("To his loving Father & worthy Friend Mr John Florio, The Ayde of his Muses, Ben: Jonson seakes this testimony of Friendship & Love"). Anche il filosofo Giordano Bruno strinse un'amicizia importante con Florio. Florio incontrò Bruno, mentre quest'ultimo si trovava in esilio nell'ambasciata francese a Londra, dove Bruno scrisse e pubblicò i suoi sei più famosi dialoghi morali, inclusa La cena de le ceneri, in cui Florio viene descritto come amico di Bruno.

   In Queen Anna's New World of Words ("Il nuovo mondo di parole della Regina Anna"), del 1611, Giovanni Florio si definì An English Man in Italian ("Un inglese in italiano"), e nella sua opera Secondi frutti ("Second Fruits"), si definì Italus ore, Anglus pectore, ossia, Italiano di lingua, inglese nel cuore.

Si è fatto il suo nome tra i possibili autori delle opere di William Shakespeare, anche se alcuni studi bio-bibliografici non concordano con questa ipotesi.[12] Specificatamente, nella prima storica menzione che testimonia l'esistenza della figura di Shakespeare come scrittore e poeta, fatta dal drammaturgo Robert Greene nel suo pamphlet Groats-worth of Witte nel 1592, Greene attacca Shakespeare identificandolo in "absolute Johannes Factotum" e accusandolo di nascondersi dietro la figura di un attore ('with his Tygers heart wrapt in a Players hide"). Secondo studiosi come Gerevini, John Florio può essere facilmente identificato con il nome Giovanni, 'Johannes' in Latino, il termine 'absolute' simile al termine 'resolute' utilizzato dal Florio nella sua firma [13] e il termine dispregiativo 'factotum', utilizzato per una persona che svolgvea, come Florio, il ruolo di tutor per i figli degli aristocratici e funzioni di segretario”. Ringraziato l'anonimo estensore delle interessanti notizie su Florio, passo allo spiritoso articolo di Giusi Patti Holmes. "William Shakespeare è Michelangelo Florio? La storia continua

  

    “Miei cari Watson, forse non vi ricorderete che la vostra Patti Holmes, un po’ di tempo fa, scrisse un articolo su William Shakespeare, ponendo dei dubbi sulla sua identità, grazie a una preziosa fonte, l’architetto messinese Nino Principato che ha scritto un interessantissimo libro dal titolo: William Shakespeare e la città di Messina. Un mistero lungo quattrocento anni”.

   Lo studioso, tra le sue fonti, cita un giornalista romano, Santi Paladino, che, nel 1927, trovando nella biblioteca paterna un antico libro, “I secondi frutti”, firmato da un certo Michel Agnolo Florio, e leggendolo, sempre più esterrefatto, scoprì che molte frasi in esso contenute erano identiche a quelle delle opere di William Shakespeare, il grandissimo drammaturgo inglese. Il volume, inoltre, era stato stampato nel 1549, prima ancora della nascita del poeta avvenuta il 23 aprile 1564. Da qui nacque la tesi che William fosse Michel Agnolo.  Lasciatevi trasportare da questa trama ma, prima di soffermarci al presente e alle riflessioni tra il poco serio e il molto faceto della vostra Holmes, riavvolgiamo il nastro.

   Santi Paladino, indagando su Michelangelo, scoprì che, nato a Messina dal medico Giovanni Florio e dalla nobildonna Guglielma Crollalanza, era fuggito a Treviso con la famiglia perché calvinista, aveva studiato a Venezia, Padova, Mantova, viaggiando molto e visitando Danimarca, Grecia, Spagna e Austria. Diventato un umanista di grande cultura, ricercato come precettore dalle famiglie più ricche d’Europa e, grazie all’amicizia con Giordano Bruno che aveva buoni rapporti con i conti di Pembroke e Southampton, nel 1588 raggiunse Londra dove fu assunto come precettore di lingua italiana e latina della futura regina Elisabetta I, il cui lungo regno è ricordato come «età dell’oro». Facciamo una breve sintesi sull’intricata vicenda:

   1. Il cognome materno Crollalanza si tradurrebbe con “Shake”, che vuol dire agita, scrolla e “Spear“, il cui significato è, invece, lancia.

   2. In Amleto compaiono i cognomi di due studenti danesi, Rosencrantz e Guildenstern, che frequentarono l’università di Padova assieme a Michelangelo Florio.

   3. In Amleto si trovano molti proverbi pubblicati dal calvinista Michelangelo Florio nel volumetto, già citato, “I secondi fruttì’.

   4. L’origine italiana di Shakespeare potrebbe spiegare i molti nomi e luoghi italiani presenti nelle sue opere come Romeo e Giulietta, Otello, Due signori di Verona, Il mercante di Venezia, La Bisbetica Domata, che è di Padova, Giulio Cesare e La Tempesta, che ha per protagonista Prospero, il vero duca di Milano.

   5. La gran parte delle sue opere rivela una conoscenza diretta dei luoghi visitati durante il suo periodo girovago.

   6. Nei registri della scuola secondaria di Stratford, la “Grammar School” non compare il nome di nessun William Shakespeare.

   7. Si sa che William Shakespeare frequentasse a Londra un Club In, in cui, non risulta registrato fra i soci, mentre vi appare Michelangelo Florio.

   8. Quando morì Sheakespeare, il 23 aprile 1616, nessuna commozione né lutto nazionale si registrò in Inghilterra, quasi fosse uno straniero e non una gloria nazionale.

   9. Ẻ noto che la stringatezza della biografia di Shakespeare, raffrontata alla grande mole della sua opera teatrale, ha fatto dubitare dell’autenticità della sua esistenza a molti studiosi e ritenere essere il prestanome di un personaggio più famoso.

   Questo ultimo punto, citato dall’architetto, per la cervellotica Holmes, in-degna nipote del più serio Sherlock, è diventato fondamentale, facendole esclamare: “Elementare Watson”. Perché vi starete domandando? Ẻ presto detto: agli anglosassoni non poteva e continua a non piacere la probabile origine sicula di Shakespeare e ciò è assodato dal fatto che se vi trovate a passeggiare dalle parti del Tate Modern, Museo di Arte internazionale moderna e contemporanea, potreste imbattervi, a poche centinaia di metri, senza che niente lo segnali, nel Globe Theatre, fedele riproduzione del teatro di Shakespeare, costruito sul luogo in cui sorgeva l’originale.

   Dove sta l’anomalia? Nel fatto che questa bella costruzione, se si è distratti, potrebbe passare inosservata, se non fosse per dei cartelloni che pubblicizzano gli spettacoli in cui compare, appunto, Shakespeare. Altro particolare è che, dopo aver realizzato di trovarsi in “casa” Shakespeare, Florio o Crollalanza, alzando lo sguardo, si intravede seminascosta una statua dal volto pensoso che sembra dire: “Non c’erano altri posti in cui pormi? Mi hanno voluto oscurare perché non sono britannico, ma siculo?” Se andate nel sito del teatro, inoltre, a conferma di quanto detto, leggerete che poco o niente si sa della vita di William Shakespeare e questo potrebbe significare che, brancolando nel buio, si sono impossessati del grande poeta ma, col dubbio che fosse extracomunitario, lo hanno relegato e gli hanno regalato sì un posto, ma “ammucciato”.

   Ricordatevi sempre, però, che mi chiamo Holmes, fiuto indizi, ma sono un segugio fantasioso e non razionale come Sherlock e, quindi, questa ricostruzione potrebbe essere vera o una messa in scena, una pièce teatrale nata dalla mia fervida mente. D’altronde, amati Watson, se ci pensate cos’è la vita se non un grande palcoscenico su cui ci muoviamo? Guardate le foto, in una mi vedrete dondolare un personaggio che è stato bello immaginare che nella prima spinta fosse Shakespeare e al ritorno il nostro Florio e, magari, la soluzione la troverete proprio lì.

   A presto amici, anzi see you soon.”

   Ora la parola ad Admin

 

   “Il mio vecchio amico nolano…”

   Published on 27 novembre 2019admin

  

   “Nei due anni trascorsi presso l’ambasciata di Francia a Londra, in casa dell’ambasciatore Michel de Castelnau, Giordano Bruno strinse una sincera amicizia con Giovanni Florio, figlio di un esule protestante fiorentino.

Marianna Iannaccone ha realizzato un bellissimo sito dedicato a questa affascinante figura di letterato, analizzando a fondo anche il suo rapporto con Bruno.

   Florio acquistò fama soprattutto come traduttore e, nell’introduzione ai Saggi di Montaigne, ricorda come “il suo vecchio amico Nolano” decantasse nelle sue lezioni il rigoglioso impulso che le traduzioni imprimevano a tutte le Scienze: “my olde fellow Nolano tolde me and taught publikely, that from translation all Science had its of spring”.

   John Florio è uno dei personaggi che, nella Cena de le Ceneri accompagnano il Nolano al famoso incontro-scontro con i pedanti di Oxford, nella residenza del gentiluomo Fulke Greville. Alcuni accenti descrittivi rivelano un rapporto di grande familiarità tra i due: “Noi, invitati sí da quella dolce armonia, come da amor gli sdegni, i tempi e le stagioni, accompagnammo i suoni con i canti. Messer Florio, come ricordandosi de’ suoi amori cantava il “Dove, senza me, dolce mia vita”. Il Nolano ripigliava: “Il Saracin dolente, o femenil ingegno”, e via discorrendo.”

   Così Guido del Giudice rievoca il viaggio nel suo Giordano Bruno, il profeta dell’universo infinito:

   “14 febbraio 1584, giorno delle Ceneri. Un barcone scricchiolante scivola sul Tamigi in una serata nuvolosa. A bordo, oltre a due vecchi e scorbutici barcaioli, ci sono Giordano Bruno e i suoi due amici, messer Giovanni Florio e maestro Matteo Gwynn, venuti a prenderlo per accompagnarlo alla residenza di sir Fulke Greville. Questi ha invitato il filosofo a cena, per sentirlo disputare sulle sue teorie eliocentriche ed infinitiste. Bruno è a prora e, volgendo lo sguardo verso un cielo livido, in cui si staglia una candida luna, dialoga con Florio.

   BRUNO. La luna mia, per mia continua pena, mai sempre è ferma ed è mai sempre piena. Mi è sempre piaciuto in serate come questa contemplarla e immaginare di essere lassù. Magari potrei trovarvi, finalmente, un po’ di pace: fuggire l’università che mi dispiace, il volgo ch’odio, la moltitudine che non mi contenta.

   FLORIO. Suvvia, sta di buon animo Giordano! Stasera ti aspetta una gran bella disputa! Anch’ io muoio dalla voglia di sentirti difendere contro i pedanti di Oxonia la teoria eliocentrica di messer Copernico, su cui hai innalzato la tua Nova filosofia.

   BRUNO. Io non vedo né per gli occhi di Tolomeo, né per quelli di Copernico! Sono grato a questi grandi ingegni, come a tanti altri sapienti che già in passato si erano accorti del moto della terra. Lo affermavano i pitagorici: Niceta Siracusano, Ecfanto, Filolao. Platone ne parla nel Timeo, lo lasciava intendere cautamente il divino Niccolò Cusano. Ma è toccato a me, come Tiresia, cieco ma divinamente ispirato, penetrare il significato delle loro osservazioni, leggervi ciò che essi stessi non hanno saputo cogliere.

   FLORIO. Pensavo che almeno su Copernico non avessi niente da obiettare!

   BRUNO. Grandissimo astronomo! Ha l’enorme merito di aver conferito dignità e credibilità alle tesi degli antichi ma, più studioso de la matematica che de la natura, neanch’egli è riuscito a liberarsi completamente dalle vane chimere dei volgari filosofi, fino ad abbattere le muraglie delle prime, ottave, none, decime e altre sfere per affermare l’infinità dell’universo. Quell’ infinità che io, fin da ragazzo, avevo imparato a contemplare nella mia amata terra natia”.

   Del Giudice, risulta chiaro a chi abbia familiarità col Nolano, si è preso la libertà di modernizzarne un poco il vivace linguaggio, come a volerlo tradurre per gli illetterati. Operazione per me discutibile. Ma i rapporti Guido-Bruno sono così intimi che egli con Lui si può permettere questo ed altro. Per quanto mi riguarda, dopo il lungo copia e incolla mi sento più stordito e stanco che se avessi scritto io tutto il testo. E avevo dichiarato di non aver voglia di pensare e di volermi riposare. Ben mi sta!

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   Chàirete Dàimones!

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Io e Papini. Papini e D'Annunzio

Post n°1068 pubblicato il 14 Marzo 2021 da giuliosforza

 

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  Da giovane, l’ho più volte ricordato, andavo pazzo per il Papini pre-‘conversione’ (virgoletto perché, non solo per me, si trattò di una conversione assai anomala, nonostante il cordiglio del Terz’Ordine francescano), quello appena ventenne che mette a soqquadro le lettere italiane con le sue bordate polemiche contro tutto e contro tutti. Ma ero anche già, e lo sono restato, come d’altronde son restato papiniano, dannunziano militante (diciott’anni li dividevano, ma una generazione può valere un secolo).

   Siamo nel 1902, Giovanni (che inizia a firmarsi Gianfalco) sta per fondare il Leonardo, al quale faranno seguito Lacerba e La Voce, non meno combattive. É vorace, assetato di sapere, corre da una biblioteca all’altra, non c’è ambito della conoscenza che gli sia alieno. É un vulcano in perenne eruzione. Ed è in quello stato che il ventunenne assatanato (lo scopro adesso, nel libro a cura di Anna Casini Paszkowski, Papini, Il non finito. Diario 1900 e scritti inediti giovanili, Casa Editrice Le Lettere, Firenze 2005) scrive al Vate una lettera aperta, nella quale assesta allo scrittore italiano già più famoso nel mondo colpi da ko. L’avrà letta Gabriele? Non credo. Si sarebbe divertito, come mi diverto io qui a riprodurla, risparmiandomi troppo ovvie considerazioni.

   A Gabriele D’Annunzio

   Voi siete, oggi, il principe intellettuale d’Italia, e temo assai che rare vi giungano, come accade ai re, le voci sincere. Ascoltatene una che non viene da un letterato ringhioso o da un moralista bigotto ma da un solitario che pensa.

   Voi non siete dell’avvenire ma del passato, in voi domina il culto dell’esteriore, ribolle la brama antica della femmina, del sangue e dell’oro e siete fatto schiavo delle parvenze mentre il futuro dominio sarà dello spirito, della vita interiore che chiuderà nei simboli brevi le sue sintesi vaste.

   Voi non siete un Me personale perché accettaste a vicenda il realismo volgare e i malaticci sdilinquimenti slavi, vi compiaceste tanto delle bizantinerie lussuose di Francia come dell’accattata semplicità dei primitivi e vi concedeste tanto alla suggestione apocalittica di Zarathustra ebbro come ai facili applausi della mediocrità follaiola.

   Voi non siete neppure un artista superiore, perché pregiate le parole e le immagini morte più dell’emozione, trascinate i pochi idoli del vostro repertorio in fiumane di versi che sanno di glossario e mancano d’anima, e di poeta superbo siete diventato un fortunato mercante di parole.

   A voi giovò la interessata gran carcassa importata di Francia, il gridio dei liceali pretoriani lieti di trovare una nuova livrea, l’orbo patriottismo degli epigoni di Gioberti e, più di ogni altra cosa, la mirabile pecoraggine della moltitudine che corre ove i cerretani la chiamano con grida e sonagli.

   Voi che dileggiate la Gran Bestia nei vostri piccoli sogni imperiali, avete ora la punizione maggiore: quella di averla serva.

   Ricordate che il contatto coi piccoli, anche se di dominazione, impiccolisce e voi siete acclamato dalle più oscure legioni della beotaggine che affratella professori di lettere a riposo e bottegai intellettuali.

   Qual nemico potrebbe, volendo, farvi ingiuria maggiore?

                                                                                                                      G. P. Firenze. 3.IX.1902

 Una stroncatura bella e buona, simpatica, di quelle che da un ventunenne genialissimo e ‘invasato’ non puoi non attenderti. Ma quale fu la posizione del Papini maturo nei riguardi del Vate? Me ne illumina un grande amico del Fiorentino, che dedicò a ‘Gianfalco’ (mai pseudonimo fu più appropriato) una breve ma intensa biografia: Giovanni Papini (Volpe editore, Roma 1972, traduzione di Orsola Nemi, titolo originale Giovanni Papini, Wesmael-Charlier, Paris, 1963). L’Autore in questione è l’Esule cattolico rumeno tradizionalista, ‘ortodosso’ irriducibile, Vintila Horia (col quale ebbi il piacere alla fine degli anni Cinquanta, quando dirigevo un Circolo culturale giovanile “Giovanni Papini”, di avere un vivace scambio di idee), vincitore contestato nel 1960 del Premio Goncourt con Dio è nato in esilio. Nel primo capitolo ho la sorpresa di trovare, insieme ad alcune interessanti citazioni di noti paradossi papiniani (per es. ‘La filosofia serve a liberarsi della filosofia’, al quale io per mio conto ne avrei aggiunto un altro, ‘come la teologia a liberarsi della teologia’) una non sospetta testimonianza che trovo, vista la fonte, intrigante. Eccola:

   “Evidentemente questa filosofia antifilosofia, questa ‘psicologia o magia’ (la definizione è di Papini) non era che un ritorno alle fonti del romanticismo, faceva tabula rasa dell’insegnamento positivista e gettava Auguste Comte alle ortiche. D’Annunzio, che sembrava allora il maestro di tutte le ribellioni e di tutti i rinnovamenti, rappresentava in letteratura la medesima tendenza. I suoi eroi sono dei liberatori e i suoi libri, tanto i romanzi quanto le poesie, contribuirono in maniera efficacissima a formare in Italia un uomo rinnovato, eroico, fedele alla grande tradizione della penisola, alle sue imprese storiche più autentiche. Quel che fu chiamato ‘dannunzianesimo’ ebbe risonanza e forza, non solo letterarie, ma sociali, molto maggiori del socialismo e del liberalismo che turbarono gli italiani durante il XIX secolo senza illuminarli né chiarirne le idee. Gli eroi di D’Annunzio trasformarono gli animi fino in fondo alle provincie. Le persone pensarono, amarono e parlarono secondo i modelli creati da questo scrittore di genio, che coincise col bisogno vivo allora nel suo paese, di trasformarsi interiormente e ricominciare la vita dall’altro capo. Se D’Annunzio non è più di moda, se oggi è difficilmente leggibile, lo si deve appunto alla sua contingenza, alla sua stretta coincidenza col momento politico sociale del suo paese. L’Italia dovrebbe essergli grata per tutto quanto egli ha fecondato in fondo alle anime, per quel seme rivoluzionario e riformista che seppe seminare negli uomini e nelle donne del suo tempo. Fu più eroe che scrittore, un fondatore nel senso augusto della parola, e lo provò mettendosi alla testa di un esercito di pazzi scatenati che nel 1919, sfidando la timidezza dei militari e dei politici, conquistò Fiume. In questo, è grande quanto Byron, fondatori ed eroi entrambi, più che scrittori.

   “Papini non poteva sottrarsi all’incanto. Fu in rotta, qualche anno dopo, con D’Annunzio, ma questi non poteva non collaborare al Leonardo. Lo si trova infatti, nel secondo numero della rivista, con un’ode dedicata a Shelley, Anniversario orfico. In un libro consacrato alle Riviste italiane del XX secolo, Vittorio Vettori nota quella filiazione spirituale, affermando che «Papini conduce il suo dannunzianesimo iniziale a sviluppi imprevisti, nell’accordare al motivo del Superuomo, e a quello dell’attivismo (o pragmatismo) un significato di autentica religione».

   Alcune affermazioni sarebbero discutibili, ma la maggior parte sono condivisibili. Questo geniale straniero aveva capito Gabri e la sua funzione storica (direi anzi metastorica) molto più di molti nostri connazionali.

   ____________

    Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

   Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

 

  

 

 

 
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Quasimodo (sogno di un sogno). Il serpentello di Toscanini. Scuse a Bruckner. Piccinini

Post n°1065 pubblicato il 11 Marzo 2021 da giuliosforza

 

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   Ho sognato di sognare.

   Io son solito fare colazione, prestissimo levatomi dopo una vivace notte di prostatico, regolarmente alle sei, per poi tornare a riposare, di norma a dormivegliare, al suono soffuso di musica classica; ma talvolta, come stamane, a ricadere in un sonno vero e proprio, spesso verace, come dicono essere dei sogni dell’alba. E nel sonno tornare a sognare.

    Ho sognato di sognare Quasimodo.

    Non vado matto per il Siculo di Modica esule in ‘continente’, né come scrittore né come uomo: modesto umanista autodidatta (l’autodidattismo in molti è un pregio in più, in lui secondo me non lo fu), dopo essersi diplomato in un Istituto tecnico-economico messinese (cappello ai diplomati di Istituti tecnici, naturalmente), si convertì alla versificazione (e dico versificazione e non dico poesia) “ermetica” e alla non solo da me discussa traduzione dei traduttori dei lirici greci. Per questo gli diedero anche il Nobel (forse perché era iscritto alla massoneria e al PCI?). I barbogi dell’Accademia svedese spesso anche essi evidentemente sonnecchiano e commettono svarioni, e premiano giullari alla Fo (il giudizio è di Harold Bloom) e pseudo-ermetici alla Salvatore Quasimodo appunto, che sosteneva che i poeti non sono i ‘manieristi’ alla Pascoli e alla D’Annunzio ma i ‘discorsivi’ come lui, quelli che ‘traggono musica dalle parole’, non sonorità. Cosa con ciò abbia voluto intendere proprio non saprei. Non so se abbia mai capito cosa sia musica e cosa sonorità: non gli servì molto aver passato una ventina d’anni (chiamato ‘per chiara fama’ questa volta dai fascisti) a insegnare letteratura al Conservatorio Verdi di Milano. Ma di ciò basta, E chiedo venia a chi non la pensa come me.

    Dunque, sogno di sognarlo. Dopo i soliti intervalli riprendo sonno all’alba durante una trasmissione dedicata da rai5 al poeta dell’Ed è subito sera e   sogno di assistere, da un angolino di una grande sala semivuota, ad una autopresentazione dello scrittore  che ci narra con la flemma ieratica che par d’obbligo in certi poeti della sua specie (degli ermetici o presunti tali, dico, che sotto tale termine spesso nascondono il vuoto di ispirazione) della sua vita e della sua opera, illustrando alcuni dei concetti della sua poetica. Ed è a questo punto che sogno di sognare. Mentre Quasimodo sognato parla mi prende un abbiocco, o una cecagna che dir si voglia, che a poco a poco diventa sonno vero e proprio, sonno profondo. E sogno nel sogno. E sogno i clivi della mia terra equa a primavera, al seguito di un Quasimodo-Pan-Diòniso che per i clivi caracolla ebbro seguito da satiretti infoiati, ninfe e driadi e menadi discinte. Durasse in eterno questo sogno! Ma in eterno non dura: improvvisamente ho un sussulto, mi par di russare, mi sveglio e mi ritrovo, quasi solo, ad ascoltare, nel sogno primo, un sempre più noioso flemmatico Quasimodo. Dal sogno sognante mi desta per fortuna una altro sussultare ed un altro soffocato russare. Apro gli occhi ed è giorno alto. Scomparso è Quasimodo, ma anche, purtroppo, Quasimodo-Pan-Dioniso con la sua schiera. E torna l’inverno, ma a guardare il sole e le piante a nuovo quasi virenti del parco e le mimose dal giallo sgargiante avverto che Persefone è in procinto di risorgere a nuovamente infiorare il mondo. E con le cose sono una volta ancora presto a intonare il mio Persefone risorse e il mondo infiora / Pan non è morto, non è morto Pan!

   Per il mio sogno nel sogno dovrò essere grato al da me tanto vituperato Quasimodo.

*

   D’ora in avanti ogni post, oltre che dal Chàirete e dalla lode bruniana agli dèi, sarà seguito dalla giaculatoria laica e religiosissima insieme, assai popolare in Germania: Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika, che io da sempre recito ma che ora il ricordo di un episodio esemplare mi spinge ad approfondire. Visitando qualche anno fa in Borgo Tanzi a Parma la casa paterna di Toscanini, ora museo, vidi, fra gli altri interessanti cimeli, anche la bacchetta che Israele donò al Maestro dopo un suo concerto. Si tratta di una bacchetta direttoriale in legno d’ebano, con punta d’oro e un serpentello (il bilico Nehutsam) avvolto nell’impugnatura anch’essa d’oro. Mi chiesi il perché del serpentello: forse perché nel deserto, pensai, prima che il popolo lo adorasse suscitando l’ira di Mosè appena disceso dal Sinai, chi contemplava il serpente di bronzo dallo stesso Mosè eretto guariva dai malanni? Il serpente evoca il potere taumaturgico della musica? Fatto a Toscanini quel dono non poteva che avere quel significato. Da allora in poi il serpente da sempre mio amico (era già nello stemma visconteo-sforzesco che porto con me effigiato in anelli cammei bastoni da passeggio, per avere egli suggerito ad Eva di mangiare, disubbidendo a un ordine improbabile di un improbabile Iddio che dopo aver creato l’uomo a sua immagine e somiglianza gli vieterebbe (contraddizione palese), il frutto della Conoscenza) mi è sempre più simpatico. E comprendo anche perché, con l’aquila e il leone, il serpente sia il terzo animale amico dello Zarathustra nicciano.

  *

   Cecchina o la buona figliola di Niccolò Piccinini.

   Ora capisco perché il Conservatorio di Bari, dove per anni ha insegnato composizione il mio caro geniale amico e quasi discepolo, ma non di musica, Federico Biscione ora al Marenzio di Brescia, sia intitolato a Piccinini. Barese, grande operista classico e non solo, Niccolò, di cui rai5 ha trasmesso la prima opera, leggera e frizzante come i diciotto anni dell’autore, era destinato ad avere un ruolo fondamentale nel passaggio dal manierismo barocco, attraverso un pacato classicismo, alla rivoluzione romantica. Mi piace. E subito di seguito mi sono goduto le vicende di Edgard, in un’altra opera giovanile ma di Puccini, combattuto tra la dolce Fidelia e la zingara Tigrana, e, sempre del lucchese la lieve, come il volo della Rondine dà il titolo alla composizione, Magda, assetata di libero amore e di una vita senza regole e senza freni, una vera e propria Carmen nostrana.

   Per quanto riguarda la musica sinfonica ho rivisto con piacere Georges Prêtre e le sue straordinarie mobilità ed espressività facciali, osservando le quali non v’è più bisogno di seguire il movimento della bacchetta. Dirige Prêtre Strauss Richard splendidamente e Ravel. Ma mi commuove rivedere un altro grande uomo, prima che direttore d’orchestra, dalla curiosità intellettuale insaziabile, il compositore saggista medico e archeologo Giuseppe Sinopoli alla guida della 4 di Schumann e della 4 di Brahms in una ripresa di fine anni Novanta. Come è noto sarebbe stato stroncato, non molto tempo dopo, da un infarto a Berlino durante la direzione dell’Aida. Il giorno dei suoi funerali, il 20 aprile 2001, avrebbe dovuto laurearsi in archeologia alla Sapienza. Era nella stessa lista di mia figlia Fiammetta, in ordine alfabetico subito prima di lui. Ero presente alla discussione, turbato per l’evento, e sconvolto dalla superficialità dei membri della commissione e del suo presidente, che non tradiva la minima emozione per l’assenza del candidato più illustre e continuava, come avviene ahimè, e io ne so qualcosa, durante e negli intervalli delle sedute, a celiare e ridere irriverentemente.

*

   Oggi voglio umiliarmi contrito davanti ad Anton Bruckner, e chiedergli perdono per averlo  a lungo in gioventù saccentemente disprezzato come un inutile bigotto cattolico, epigono mediocre wagneriano, allineandomi, senza ancora saperlo, sulle posizioni ostili di Brahms e dell’odioso Hanslick, il critico che passò tutta la vita a tentar di distruggere, meschinello, Wagner e i wagneriani, tra i quali l’Austriaco di Ansfelden. La Ottava sinfonia bruckneriana, che ascolto in una versione diretta da Wolfgang Sawallisch, mi prende dal profondo. Non solo in essa sono echi wagneriani, addirittura mi pare di avvertire anticipazioni del miglior Shostakovich. Berlioz, Liszt, Wagner la celebrarono come un capolavoro. Ma nella immensa produzione bruckneriana è posto per tenti altri capolavori. Fra questi il grandioso Te Deum occupa per me un posto di privilegio: la sua solennità, il sentimento del profondo e del sacro che ne emana sono tali da forzare al raccoglimento persino un immanentista irredimibile come. Quando scrissi, al termine del mio ‘Hymnus an das Leben’: “D’umile grazia un inno sempiterno / Fu mia vita. E Sarà. E saprò di morte / stessa fare un Te Deum che nessun Bruckner / seppe intonare. La mia vita bella / e ardita prende slancio / per la mia eternità” ero sincero, ma peccavo di superbia. E la sconterò. 

    Nato nel 1824 (11 anni dopo Wagner), Bruckner come questi muore a 70 anni nel 1894 prendendo anche Lui, così, slancio per la sua Eternità. Ma a ben vedere non ne ha bisogno ché già il tempo, anche attraverso Frau Musika, ha vissuto boezianamente sub specie aeternitatis.nton AntonA

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Bruno e Nietzsche fratelli gemelli ed altro

Post n°1064 pubblicato il 04 Marzo 2021 da giuliosforza

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   Dall'Auditorium Toscanini di Torino, l'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta dal Maestro Ryan McAdams, con la partecipazione del violinista David Garrett, esegue musiche di Giuseppe Tartini, Vittorio Monti, Niccolò Paganini, Johann Strauss, Leonard Bernstein, Jacques Offenbach, Georges Bizet, Johannes Brahms, Alberto Ginastera.

   Czardas di Vittorio Monti. A volte basta una composizioncella di 4 minuti, come una czardas gitana, per guadagnarsi l’immortalità. Ẻ quello che è successo al napoletano ottocentesco Vittorio Monti. Che io ricordi m’erano ignoti sia Vittorio Monti che la sua czardas. Lo conosco e la ascolto oggi al concerto pomeridiano di Rai5. Stupefacente. David Barrett sbalorditivo anche nell’esecuzione di altri brani, come il famoso Concerto 24 di Paganini e una sonata bachiana che non conosco.

*

   Riproduco qui, ancora in clima di celebrazioni bruniane, un articolo che scrissi per INFINITI MONDI, una rivista che per qualche tempo fu pubblicata a Nola, poi ripreso dal sito del nostro circolo Giordano Bruno. Associazione Nolana

   “Bruno e Nietzsche fratelli gemelli  

   Fu D’Annunzio a dirsi, per molti versi non senza ragione, in ‘Per la morte di un Distruttore’ (F. N. XXV AGOSTO MCM), «gemello latino» del «Barbaro enorme» «che risollevò gli iddii sereni / dell’Ellade sulle vaste porte/ dell’Avvenire». Io qui rivendicherò a me il diritto di individuare nel Nolano il primo nato (che tre secoli di distanza nel ciclo eterno?) di un parto gemellare della Conoscenza, perennemente pregna e perennemente in doglie ma non sempre, ahimé, di oltre-uomini. Chi passi da La cena de le Ceneri, dallo Spaccio de la bestia trionfante, da La cabala del cavallo pegaseo, dal De l’infinito, universo e mondi, da De gli eroici furori e infine dal Candelaio direttamente a La nascita della tragedia, ad Aurora, a Umano troppo umano, alla Genealogia della morale, a La gaia Scienza, al Così parlò Zarathustra e infine a Ecce Homo non ha l’impressione che tre secoli siano trascorsi ma che un unico immenso spirito in essi parli, che uno stesso assoluto per essi si autoponga e si autoriveli pur nella diversità nella varietà nella originalità nella novità della sua storica, fenomenica, epifania in ciascuno.

   Mi sarebbe faticoso ragionar con “scientifico” distacco di coloro di cui ho sempre e solo poeticamente cantato, di coloro il cui spirito è pari pari trapassato nella mia vita e nella mia opera, di cui non ho detto, nei miei pubblici interventi, se non da invasato, folle della loro stessa follia (daimònion èchei cai màinetai!), posseduto dal loro stesso Dèmone inquieto. Non mi ci proverò dunque, oltretutto convinto esser, se non impossibile, audace dir sistematicamente di antisistematici per antonomasia. Notomizzare dei Viventi quali i Nostri sarebbe lo stesso che ucciderli. Pour disséquer il y faut le cadavre, come dice il mio amico Claude.

A chi abbia una pur minima dimestichezza col Nolano e col filosofo di Röcken salta subito agli occhi la passione comune per la Santa Terrestrità e la Grande Salute (donde la sublime esaltazione per una ascetica – nel mio lessico descetica – intramondana, la novalisiana innerweltliche Askese), per l’immanenza assoluta come sentimento del proprio esserci nell’esserci di tutte le cose, come avvertirsi a esse interni, endoscopi nel grande ventre dell’Essere (dell’Universo infinito). Il culto della Terra (chiara sineddoche, in Nietzsche, d’Universo, così come Universo è chiara metonimia di Terra in Bruno: nella visione circolare monistica del cosmo ogni parte è tutto, ogni tutto è parte, ogni centro è periferia, ogni periferia centro: da una tale concezione circolare discenderanno nei Nostri, rispettivamente, le teoria dell’eternal vicissitudine e dell’ewig Rückkehr, dell’eterno Ritorno), come metafora di essa immanenza, è la religione (per vero religiosità) che li accomuna e nella quale si riconoscono e nella quale si pacificano, se è dato pacificarsi a due inquieti Wanderer, a due Versucher perennemente alla ricerca, da buoni metafisici dell’antimetafisica, non certo della posizione migliore ove stare, sì di quella migliore donde ripartire.

   Premessa di ogni successivo tentativo di sinossi è tale convincimento. Le ipotesi che seguiranno dei possibili parallelismi, in linea generalissima e a livello di concetto naturalmente, tra il filosofo-poeta dell’Infinito e il filosofo-poeta dell’Übermensch hanno senso soltanto una volta stabilita e riconosciuta la loro posizione identica, non solo simile, nei riguardi delle trascendenze di ogni tipo. La distinzione bruniana tra Mens super omnia e Mens insita omnibus, tra Naura naturans e Natura naturata (di cui è debitore al Cusano della Coincidentia oppositorum) va quindi ritenuta se non un vero e proprio escamotage, di certo un comprensibilissimo tentativo di sfuggire all’Inquisizione. La quale, come era da attendersi, non si fece prendere nella rete.

   Arso l’uno («Ed altro non son io che fuoco ardente, / se quel ch’a me s’avvicina s’infuma») ma… «eroicamente furioso»; folle, ma per troppa ardenza, l’altro (Ungesättigt gleich die Flamme / Glühe und verzehr’ ich, fuoco insaziabile, mi consumo ardendo) concludono il loro cammino i due Fuggitivi Erranti.

   Come tutti i grandi Erranti, da Rousseau a Hölderlin, da von Kleist a Lehnau, essi hanno peregrinato tutta la vita di landa in landa in compagnia dei loro dèmoni, dei loro immensi devastanti pensieri, scavando nel pozzo del proprio cuore per trovare in esso le radicazioni dell’universo e di dio: irridendo, or con lepida ironia or con feroce sarcasmo, alle saccenterie degli accademici («academico di nulla academia, detto il fastidito»; Ihr steifen Weisen/ mir ward alles Spiel, O voi impettiti sapienti/ per me tutto divenne gioco) alle loro pedanterie, alle loro supponenze, alle loro cosche alle loro satrapie, lottando contro i ‘babbuini eterocliti’, i ‘natural coglioni’, le ‘bestie tropologiche’, i ‘menchioni morali’ e contro gli ‘asini anagogici’ (i nicciani greggi ed i loro pastori) ; ammirando (filosofia figlia di meraviglia: zum Erstaunen sind wir da, così un Goethe bruniano); scommettendo sull’ottimismo (pur non avendone, apparentemente, alcun motivo: incompreso e perseguitato l’uno, incompreso e in perenne lotta con la malattia l’altro: troppo facile sarebbe stato per i due prometeici essere pessimisti) ; elaborando in poesia pensante e in filosofia poetante una visione del mondo che non considera il male una obiezione alla vita, che ritiene inumane le culture della rinuncia e della mortificazione, che individua nella religione-istituzione, qualunque essa sia, soprattutto se dilettantisticamente riformata (Bruno: “le bestie riformate”  sono “una costellazione di pedantesca ostinatissima ignoranza e presunzione mista con una rustica inciviltà”; Nietzsche: Lutero “restava sempre il valente figlio di un minatore, il più immodesto ed eloquente contadino che la Germania abbia mai avuto”), la negazione stessa della religiosità; che nella vittoria sullo spirito di gravità, unico vero inferno, (quindi “l’ali sicure a l’aria porgo… ma fendo i cieli e a l’infinito m’ergo”»; “ich sehe ein Zeigen, aus fernsten Fernen/ sinkt langsam funkelnd ein Sternbild gegen mich”, Vedo un segno, da infinite lontananze verso di me avanza lentamente una costellazione”), nella danza frenetica cioè, liberatrice e non ‘libratrice’ - in medio stat mediocritas - (plana, volteggia il danzatore di tanto in tanto toccando terra solo per prender nuovo slancio: metafora di un pensiero che, come il serpente, si nutre di terra – “Schon kriech’ich zwischen Stein und Gras/ Hungrig…/ Zu essen Das, was stets ich ass, / Dich, Schlangenkost, dich, Erde!”,Striscio fra l’erba e le pietre desideroso di mangiare ciò che sempre mangiai, te, o terra, cibo delle serpi – poi come aquila si libra dominatore nell’aria”) consiste la più nobile delle conquiste. Per ambedue la religione intristisce, impoverisce la vita; la cosmica religiosità l’arricchisce e l’allieta. La religione cristiana, in realtà paolina (rappresentò Saulo, certo una tra le più grandi e nefaste intelligenze della storia, la più grande iattura per le sorti del superuomo annunciato dal Cristo dell’oportet nasci denuo), da peana alla vita quale era negli intenti del Liberato-Liberatore dalle trascendenze di ogni genere (Erlösung dem Erlöser, come negli ultimi versi del Parsifal) si fa calunniatrice della vita. La religiosità alla Vita urla il Sì incondizionato. «Ja sagen», appunto.

   Nel loro pensiero e nella loro azione Bruno e Nietzsche superano la dicotomia, così cara ai notomisti dell’oggettività, di filosofia e vita, scienza e vita, arte e vita. Essi non son di quelli che «pensano come dèi e vivono come filistei». Una filosofia un’arte una scienza che non siano vita, che non siano con ogni atto di vita, compresa la morte quale supremo atto di vita essa stessa, testimoniate, si escludono de facto, e prima de iure, dal Banchetto ove le humanitates, cònvivi tutti gli ‘iddii superni ed inferni’, celebrano il rito della propria risoluzione, della propria dissoluzione, autentico vicendevole “comunicarsi” come auto-etero-fagia di carne e sangue, nella pulsante unità del Sapere. Come compenetrarsi, vicendevolmente adeguarsi, devono linguaggio e filosofia. Una lingua incrostata vale per le filosofie incrostate. Bruno e Nietzsche per questo motivo sono anche inventori di linguaggi nuovi ove le barriere formali sono abbattute, ove la vertigine del pensiero (costruire la casa sul vulcano) si fa vertigine della parola: parola anch’essa danzante sulle cose che non dice, è, e fa con sé danzanti. Nell’uno e nell’altro il linguaggio diviene ditirambo nel quale Dioniso non disdegna la compagnia di Apollo, ove Muse e Grazie e Menadi insieme si abbandonano all’ebbrezza via via del Choròs o del Thìasos.

   E che dire della comune coscienza della propria eccezionalità? “Di pari mia ce n’è uno al mondo, di pari tua uno per uscio”, sembrano proclamare col Cellini. Messaggero degli dèi, e nel contempo a essi sfida (“sfido l’infinito” può anche suonare l’emistichio ‘a l’infinito m’ergo’) si considera Bruno, trasvalutatore di tutti i valori Nietzsche. Ambedue hanno la netta consapevolezza (che non è, noi ormai lo sappiamo, stolida presunzione o bolsa vanesieria) di anticipare non di anni ma di secoli il processo della Conoscenza. Sanno, e ne menano vanto, di essere nati postumi, di piantare l’ulivo pei figli dei figli; di osare l’inosabile, di aprire, di sperimentare, di tentare sulla propria pelle nuove strade all’uomo che intenda abbattere il ponte che egli ancora rappresenta tra la scimmia e il superuomo, che abbia animo e slancio bastanti per un nuovo salto evolutivo. Ẻ la loro una fuga in avanti e del loro ardire pagano lo scotto. Come ogni vero suscitatore di veraci rivoluzioni (è la rivoluzione un mostro che dorme i suoi sonni nell’antro della storia pronto a divorar per primo colui che ha osato svegliarlo) li attende una morte violenta e stupenda: la morte per fiamma, la fiamma che è bella, del rogo o della follia.

   Per questo noi li amiamo.

   “Sagt es niemand, nur den Weisen/ weil die Menge gleich verhönet: / das Lebendge will ich preisen/ das nach Flammentod sich sehnet”. (Goethe, Divan)

   Non ditelo a nessuno, solo a chi lo sa intendere/ ché la plebe ne riderebbe: / quel Vivo intendo elogiare/ che ha nostalgia del Rogo”.

   Vivere ardendo e non sentire il male” (Gaspara per Filippo e Friedrich)

   Come minimo riferimento bibliografico non posso che rinviare a opere in cui la passione bruniana o nicciana predominano, ma non a scapito dell’informazione, ricca e pignola e minuziosa come pignola ricca minuziosa sa essere quella degli innamorati circa tutto quel che concerne l’amato. Si vedano dunque:

   Eugen Drewermann, Giordano Bruno. Il Filosofo Che Morì Per L’indipendenza Dello Spirito, BUR 2000.

   Béatrice Commangé, La Danza Di Nietzsche, Guanda 1994.

   Giulio Sforza, Canti Di Pan E Ritmi Del Thiaso (Passim), Metanoesi 2005

   Giulio Sforza, Ettore Laurenzano, Educazione e Sinistra (cap. III), Bulzoni 1977

   Donatella Morea, Stefano Busellato, Nietzsche e Bruno. Un incontro postumo, edizioni ETS, Pisa 1999.

*     

   Un mese di cura dostoevskijana. L’11 novembre prossimo venturo ricorrerà il bicentenario della nascita dello Scrittore e Rai Cultura per tempo si premunisce: già andate in onda le storiche riduzioni teatrali dei Fratelli Karamazov, de L’idiota, dei Dèmoni, e del capolavoro Delitto e Castigo.  Soprattutto L’Idiota mi ha interessato, nell’adattamento televisivo del ‘59 del secolo scorso, che ricordo d’aver seguito, del giovanissimo Giorgio Albertazzi e da lui stesso interpretato nella parte del protagonista. Che godimento rivedere mostri sacri come lui, Gian Maria Volonté, Anna Proclemer, Anna Maria Guarnieri, la sola ancora felicemente vivente, quasi mia coetanea perché nata il 20 agosto 1934, un anno e un giorno dopo di me. L’avevo rivista ammirata e amata in presenza nella parte di Ofelia, negli anni Sessanta, all’Eliseo in uno storico Amleto di e con Vittorio Gassman. Lunga vita a lei e a me, solo se previsto che ne valga la spesa.     

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    Chàirete Dàimones!

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