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Messaggi di Aprile 2018

Thomas Bernhard e le sue stroncature contro Stato, Chiesa, Scuola

Post n°983 pubblicato il 26 Aprile 2018 da giuliosforza

Post 903

   Invito alla lettura di Thomas Bernhard e alle sue dissacranti stroncature a Stato Chiesa Scuola.   

  

   Davvero “Anchora inparo” (sic), come recita il cartiglio dell’incisione giuntalodiana rappresentante un Vegliardo che faticosamente si trascina per la biblioteca sorreggendosi a un girello.

    Conoscevo solo il nome di Thomas Bernhard, per taluni il più grande scrittore austriaco del XX Secolo, uno dei più grandi del Continente e forse del mondo. Nei suoi romanzi-monologhi non solo la scrittura è stravolta, ma con tutta  la sua esibita Rücksichtslosigkeit, la sua irriverente mancanza di riguardo e la sua critica spietata alla cultura e ai costumi austriaci (Nestbeschmutzer, colui che sporca il proprio nido -da noi traducibile col meno elegante ‘colui che sputa nel piatto in cui mangia’- fu detto dai suoi avversari) si pone come uno dei più grandi dis-educatori, nel senso nostro  di de-gregatori (coloro che strappano pecore al gregge) del genere umano, un “distruttore” alla Nietzsche, un apostolo dell’oltre-uomo affrancato dai residui della barbarie pre-superomistica. I deboli di spirito ne saranno scandalizzati e si sentiranno oltraggiati, gli spiriti forti ne godranno, riconfortati da cotanta impertinenza.

    Ho tra le mani un suo libro che da anni giaceva trascurato in un angolo di biblioteca, reparto scrittori tedeschi. Si tratta di Antichi Maestri (Alte Meister, Adelphi 1992, traduzione di Anna Ruchat) e l’ho riscovato per caso cercando il Novalis di cui nelle precedenti pagine di diario. E mi ci sono tuffato a capofitto rinchiudendomi come il protagonista Atzbacher nella Sala Bordone, antistante alla Sala Tintoretto, del Kunsthistorisches Museum viennese e con lui ascoltando le dissacrazioni del signor Reger, spesso affidate alla bocca  del vecchio custode Irrsigler, diventato col tempo il suo più fede discepolo e portavoce. E sarà proprio  Irrsiegler a iniziare la salva contro i visitatori, le guide  ed i critici d’arte “da cui sentiamo esclusivamente le solite chiacchiere sull’arte che ci danno ai nervi, le chiacchiere insopportabili degli storici dell’arte (p.13)… Gli storici dell’arte, diceva Reger, sono i veri e propri devastatori dell’arte. Gli storici dell’arte raccontano sull’arte una gran quantità di chiacchiere. L’arte viene uccisa dalle chiacchiere degli storici dell’arte. Santo cielo, penso spesso qui seduto sulla panca quando gli storici dell’arte mi passano accanto spingendo innanzi quelle greggi di sprovveduti, che peccato per questi esseri umani ai quali gli storici dell’arte, diceva Reger, fanno passare una volta per tutte ogni gusto per l’arte (p.27)… Le cosiddette arti figurative sono della massima utilità per un musicologo come me, diceva Reger, e io, più mi sono concentrato sulla musicologia, e anzi più mi sono fissato sulla musicologia, tanto più insistentemente mi sono occupato delle cosiddette arti figurative; viceversa, penso che per un pittore, ad esempio, sia molto vantaggioso dedicarsi alla musica e che se uno ha deciso di dipingere per tutta la vita, così pure per tutta la vita sarà per lui vantaggioso dedicarsi agli studi musicali (ivi). (Quando dedicai un anno accademico e un convegno, prendendo lo spunto da Orazio ma allargando il senso della sua affermazione,  al tema Ut pictura poesis, ut pictura et poesis musica, ut pictura et poesis et musica chorea, ignoravo Bernhard; e pensare che avrebbe potuto essere uno degli autori, se non il principale, di riferimento).

    Come in un discorso a braccio sono continue le divagazioni (quella sulla musica non è che la prima) alle quali Reger-Bernhard si abbandona, quelle divagazioni che solo ai disattenti e ai superficiali possono apparire dispersive, e invece servono a recuperare l’argomento a nuovi e più vasti significati, ad ampliarne ventaglio  riferimenti ambiti, in fine ad approfondirne e dilatarne il senso. Già nelle prime pagine egli si diffonde, con la libertà che la sua intellettuale anarchia gli consente, sulla lettura, sulla maniera di guardare un’opera d’arte, sull’ignoranza degli insegnanti, sulla divaricazione inconciliabile tra natura e cultura, sullo Stato usurpatore, attraverso la scuola, di menti e di coscienze, sull’aberrante maniera di educare alla musica nelle scuole. Dovrei riprodurre le prime trenta pagine per intero, per dare una minima idea della violenza, della verve polemica, direi della rabbia con cui Bernhard si scaglia (e la sua scrittura non prende respiro) contro le falsità e le ipocrisie della cultura, a cominciare da quella estetica ufficiale.  Mi dovrò contentare di riprodurre degli ampi stralci, i più icastici ed efficaci. “A volte la gente mi guarda sorpresa quando vede chi io qui, seduto sulla panca, leggo il mio Voltaire e per di più bevo un bicchiere di acqua fresca, si meraviglia, scuotono il capo e se ne vanno, ritenendomi probabilmente un individuo a cui lo Stato ha concesso la libertà che si dà ai buffoni. Sono anni ormai che a casa non leggo più un libro, mentre qui nella Sala Bordone ho già letto centinaia di libri, il che non significa però che qui nella Sala Bordone io abbia letto da cima a fondo tutti questi libri, io in vita mia non ho mai letto un solo libro da cima a fondo, il mio modo di leggere è quello di uno sfogliatore di grande talento che preferisce sfogliare piuttosto che leggere, e che perciò sfoglia dozzine, qualche volta centinaia di pagine, prima di leggerne una…E’ meglio leggere dodici righe di un libro con la massima intensità e penetrarne, possiamo dire, il senso profondo, piuttosto che leggere tutto il libro come il lettore normale, che alla fine conosce il libro che ha letto come uno che viaggia in aereo conosce il paesaggio che sorvola. Non ne percepisce neppure i contorni…Chi legge tutto non ha capito niente. Non è necessario leggere tutto Goethe, neppure Kant è necessario leggerlo tutto, e neppure Schopenhauer; qualche pagina del Werther, qualche pagina delle Affinità elettive, e alla fine di questi due libri ne sappiamo di più che dopo averli letti dalla prima pagina all’ultima, ciò che comunque ci priverebbe del più puro piacere della lettura…  E anche circa la lettura di una quadro, di un così detto capolavoro, le idee di Bernhard sono dirompenti. Direi che egli sostiene una sorte di falsificazionismo popperiano applicato all’arte ed all’esperienza estetica. “Finora in ciascuno di questi quadri, in ciascuno di cosiddetti capolavori, ho scovato e portato alla luce un errore palese…Solo dopo aver constatato ripetutamente che il tutto e il perfetto non esistono, solo allora ci è dato di continuare a vivere. Il tutto e il perfetto non li sopportiamo. Dobbiamo andare a Roma e constatare che San Pietro è una costruzione abborracciata e di pessimo gusto, che l’altare del Bernini è un esempio di ottusità architettonica. Dobbiamo vedere il Papa faccia a faccia  e constatare personalmente, per poterlo sopportare, che è un uomo sprovveduto e grottesco come tutti gli altri…”. Cercare dove e come Bach, Beethoven, Mozart, Pascal, Montaigne, Voltaire, El Greco, Veronese falliscono per poter godere del buono che è in essi. E per quanto riguarda la musica,  non c’è stato un solo compositore, neppure tra i più grandi, che abbia composto una fuga compiuta, nemmeno Bach ci è riuscito, che pure era la calma e la purezza, la limpidezza compositiva in persona… La mente deve essere una mente che cerca, una mente che cerca gli errori dell’umanità, una mente che cerca il fallimento. Una mente diventa effettivamente umana soltanto quando cerca gli errori dell’umanità…Così sono stato sempre più felice nell’arte che nella natura, per tutta la vita la natura mi è parsa inquietante, nell’arte invece mi sono sempre sentito al sicuro…nella natura non mi sento a mio agio neppure per un istante, mentre mi sento sempre a mio agio nel mondo dell’arte, e assolutamente al sicuro nel mondo della musica. Per quanto mi riesce di ricordare, non c’è niente al mondo che io abbia amato più della musica…E per quanto riguarda i visitatori della Pinacoteca “incalzati, questa è la parola giusta, perché questi gruppi non camminano, ma come se qualcuno li tallonasse attraversano il museo a passo di corsa, fondamentalmente privi di ogni interesse, del tutto stremati per le emozioni che certo hanno già provato durante il viaggio che li ha portati a Vienna…Gli italiani, con la loro innata sensibilità artistica, si comportano sempre come se l’arte ce l’avessero nel sangue. I francesi attraversano il Museo piuttosto annoiati, gli inglesi hanno l’atteggiamento di chi sa e conosce tutto. I tedeschi al Kunsthistorisches Museum guardano tutto il tempo il catalogo mentre attraversano le sale, gli originali che sono appesi alle pareti li vedono appena, seguono il catalogo e attraversano il museo strascicando i piedi, immersi sempre più profondamente nel catalogo, finché non giungono all’ultima pagina del catalogo e a quel punto si ritrovano fuori dal museo….”.

Termino queste citazioni con quella di una pagina esilarante nella sua violenza ai limiti del denigratorio (e come tale fu letta dai critici austriaci) dedicata alla mala educazione estetica operata dagli insegnanti, la cui corporazione è formata “da sentimentali di poco cervello”… che sono al servizio di “questo inestetico Stato cattolico”, mendaci della “mendacità della Stato cattolico e del potere cattolico che governa lo stato…” Le bordate, le filippiche bernhardiane contro la corporazione degli insegnanti di stato austriaci a molti dei mie lettori potranno risultare esagerate e poco condivisibili. Non a me che, pur con qualche prudenza e minor generalizzazione, non sono stato mai tenero nei confronti della maniera in cui l’educazione estetica in generale (l’educazione dei sensi, come vuole l’etimologia), e quella musicale in particolare, viene praticata nelle scuole italiane (al qual proposito mi permetto di rimandare al mio e di Teresa Luciani Musica in prospettiva europea. Educazione musicale comparata, Seam, Roma, 1996)…Dopo dunque la divagazione musicale così riprende Bernhard: “Di austriaci, e in particolare di viennesi che vanno al Kunsthistorisches Museum ce ne sono ben pochi, se si prescinde dalle migliaia di scolaresche  che ogni anno compiono al Kunsthistorisches Museum la loro visita di pragmatica. Le scolaresche vengono guidate attraverso il museo dai loro insegnanti e dalle loro insegnanti, cosa che sugli alunni ha un effetto devastante, perché in occasione di queste visite al Kunsthistorisches Museum gli insegnanti, con la loro piccineria di maestri di scuola, soffocano qualsiasi sensibilità degli alunni nei confronti della pittura e dei suoi artefici. Ottusi come sono nella maggior parte dei casi, gli insegnanti uccidono ben presto negli alunni che sono stati loro affidati qualsiasi inclinazione, non solo l’inclinazione per la pittura, e in conseguenza della loro ottusità, e quindi della loro ottusa verbosità, la visita al museo da loro guidata di quelle per così dire vittime innocenti diventa quasi sempre per ogni singolo alunno l’ultima visita a un qualsivoglia museo. Dopo essere andati una volta al Kunsthistorisches Museum con i loro inseganti, quegli alunni non vi mettono più piede per tutta la vita. la prima visita, per tutti questi giovani esseri umani, è nello stesso tempo anche l’ultima. Gli insegnanti durante queste visite annientano per sempre l’interesse per l’arte degli alunni che sono stati loro affidati, questo è un fatto assodato. Gli insegnanti rovinano gli alunni, la verità è questa, è una storia vecchia di secoli, e gli insegnanti austriaci in particolare rovinano nei loro alunni, fin dall’inizio, soprattutto il gusto per l’arte; ancora oggi, ottuse nella maggior parte dei casi, le menti degli insegnanti austriaci continuano a non avere nessun riguardo per lo slancio dei loro alunni verso l’arte e l’universo artistico in generale, che fin dall’inizio affascina ed entusiasma tutti i giovani nella maniera più naturale. Gli insegnanti, invece, da veri piccoli borghesi quali essi sono, si oppongono istintivamente al fascino esercitato dall’arte sui loro alunni e all’entusiasmo che l’arte suscita in loro, riducendo l’arte e l’intero universo artistico al proprio dilettantismo stupido e deprimente, e nelle scuole fanno passare per arte e per universo artistico in generale quelle loro rivoltanti arie per flauto, e quei canti corali, anch’essi rivoltanti e abborracciati, per i quali gli alunni non possono che provare disgusto…Non esiste gusto artistico più dozzinale di quello degli insegnanti…Del resto a infoltire la corporazione degli insegnanti sono solo i sentimentali e i perversi  di poco cervello, tutta gente che proviene dagli strati più bassi del ceto medio. Gli insegnanti sono i galoppini dello stato, e se, come nello stato austriaco di oggi, lo Stato è corrotto dalla testa i piedi, spiritualmente e moralmente, e non insegna nulla se non depravazione e imbarbarimento e caos pericoloso per l’intera comunità, è ovvio che anche gli insegnanti siano spiritualmente e moralmente corrotti e imbarbariti e depravati e caotici….Gli insegnanti insegnano che cos’è questo stato cattolico, insegnano quello che lo Stato stesso li incarica di insegnare: grettezza e brutalità, volgarità e vigliaccheria, abiezione e caos…” (pp. 26-28, passim).

   Qui mi fermo, ma la spietata analisi di Bernhard si spinge ancora più il là. La denuncia impietosa che lo scrittore austriaco fa di uno stato tirannico, inestetico ed antiestetico, politicamente e moralmente corrotto, che ha negli insegnanti, aguzzini di corpi e di menti, i suoi galoppini, prosegue in ogni direzione, e non risparmia nessun aspetto della vita politica, intellettuale e sociale. Qualcuno potrebbe dirla datata, provocatoria, illiberale. E certamente sotto molti aspetti lo è. E la classe insegnante potrà ritenersi offesa. Ma farebbe male ad offendersi. Dovrebbe invece prenderne spunto per una profonda riflessione ed un’autoanalisi che sommamente le gioverebbe, in un momento di così grave crisi, anche da noi, dell’istituzione loro affidata; una crisi che, come (o a causa di? ma non voglio esser più marxista di quel che non  sono) quella economica, sembra non dovere avere più fine.

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 
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Quirino Principe, "Francesca da Rimini" di D'Annunzio-Zandonai alla Scala

Post n°982 pubblicato il 15 Aprile 2018 da giuliosforza

Post 902

Riproduco qui, per gli amici dannunziani e melomani, dal “Sole 24 Ore” domenicale di oggi, un interessante articolo del noto storico, filosofo e musicologo Quirino Principe, nella speranza di far loro cosa gradita.

Quirino Principe: Francesca da Rimini. L’eros eterno di Dante e di Wagner.

Alla Scala l’opera di Zandonai su libretto di D’Annunzio, ora riedito per Salerno Editrice: la vicinanza a “Tristan und Isolde”.

“In un libro di Sossio Giametta, grande studioso e traduttore di Nietzsche, la relazione tra quest’ultimo e Wagner è individuata come il più significativo fra i nodi ci pensiero che esprimano l’essenza dell’Occidente post-cristiano e moderno. Sentiamo di condividere il giudizio, e ne traiamo una conseguenza. In Tristan und Isolde, immensa ipostasi dell’Occidente che amiamo e in cui ci riconosciamo e per cui combattiamo e combatteremo. Wagner ci offre la decifrazione della fondamentale antinomia che coinvolge l’essere umano, ogni altro essere, il microcosmo e il macrocosmo. Eros dona il massimo appagamento e la massima felicità, Eros infligge atroce ferita e intollerabile infelicità, così come nel frammento (48 DIELS-KRANZ) bios è la vita ma anche l’arco da cui vola la freccia della morte.

    "La contraddizione si annulla soltanto se l’antinomia è spinta a un’estrema conseguenza: Thanatos. I due amanti sono uno in aeternum, quando si avvera il sublime verso dantesco in cui Francesca pone l’epigrafe al suo destino, a conclusione della duplice anafora: Thanatos è il vero compimento di Eros, soltanto in Thanatos la loro unione è invincibile.

    "Come valutare l’opera che va in scena alla Scala oggi 15 aprile, diretta da Fabio Luisi, con regia di David Pountney, e con Maria-José (Francesca), Marcelo Puente (Paolo), Gabriele Viviani (Giovanni lo sciancato), Luciano Ganci (Malatestino). Riccardo Zandonai (Sacco di Rovereto, mercoledì 30 maggio 1883-Pesaro, lunedì 5 giugno 1944), compositore più agguerrito culturalmente rispetto a molti altri suoi colleghi italiani, grande lettore con escursioni in svariate letterature, dalle nord-europee a quelle orientali, scelse con entusiasmo come soggetto l’episodio dantesco di Inferno V 82-138. Già quando aveva 16 anni, tra il settembre 1899 e il febbraio 1900, Zandonai aveva composto una cantata per tenore e orchestra su quegli stessi versi di Dante.

    "L’entusiasmo fu riacceso un anno dopo, quando apparve la tragedia in versi Francesca da Rimini di Gabriele D’Annunzio, “poema di sangue e di lussuria”, andata in scena al Teatro Costanzi (oggi Teatro dell’Opera di Roma) lunedì 9 dicembre 1901. In quell’anno Antonio Scontrino compose le musiche di scena per la tragedia. E’ una lieta coincidenza che in questi giorni esca, per l’editrice Salerno e con la consueta esattezza e ricchezza filologica e bellezza editoriale, una nuova edizione della tragedia, da cui appare meglio il  sapiente mosaico di riferimenti danteschi e pre-danteschi costruito da D’Annunzio (sin dall’inizio, là dove un giullare canta alle ancelle il Meravigliosamente un amor mi distringe di Jacopo da Lentini). Dodici anni dopo, Zandonai riprese in mano il soggetto, configurandolo come una grande e ambiziosa opera, e sognando di assorbire nella propria musica l’alta poesia e la raffinata e coltissima drammaturgia di D’Annunzio. Il poeta si mostrò singolarmente disponibile, anche a consentire uno “sfondamento” soprattutto nei confronti dei passi più concettualmente ardui del testo dannunziano. Per tale operazione, Zandonai fruì del lavoro del suo stesso editore, Tito Ricordi (“Tito II), Milano, mercoledì 17 maggio 1865-ivi, giovedì 30 marzo 1933). L’opera andò in scena al Regio di Torino giovedì 19 febbraio 1914.

    "E’ legittimo pensare che Francesca da Rimini di Zandonai sia, se non proprio un (o “il”) Tristan und Isolde italiano, almeno un erede, portatore di un frammento ardente della stessa energia ignea, dello stesso Eros? Crediamo che così sia. Se l’assoluto capolavoro wagneriano è la più alta epifania dell’archetipo a noi indicato ottant’anni fa da Denis de Rougemont come “l’Amour et l’Occident”, senza dubbio, dopo il “récit” tristaniano filtrato attraverso  varianti e metamorfosi da Kyot a Chrétien de Troyes a Thomas a Béroul a Gottfried von Strassbourg ad Alain Chartier a Pierre Sala, nessuna trama narrativa più o meno storica è così fascinosamente vicina al primigenio “Urbild” quanto la sanguinosa vicenda dei due cognati di Romagna. Già il triangolo dantesco si sovrappone facilmente alla terna Isolda-Tristano-Marke; inoltre, l’abile esplicitazione, che risulta dal testo di D’Annunzio ritoccato da Ricordi, di Malatestino  “dall’Occhio” («quel traditor che vede pur con l’uno», Inferno, XXXVIII, 85) fatto rientrare nella trama in nome del “verosimile”, invoca l’analogia con il traditore, libidinoso respinto e vendicativo sire Melot. Colpisce, poi, il convergere delle due conclusioni: la definitiva indissolubilità dei due amanti nella loro condizione finale. Ciò fa sì che la leggenda-mito di Tristano e Isolda “in pectore” molto dantesca (dolente, cortese, asperrima), e che il testo dantesco di Inferno V sia “in pectore” molto tristaniano. L’incontrarsi delle due “inventiones” era inevitabile, e il terreno di incontro non poteva essere se non la musica, il cui linguaggio illumina di colpo ciò che anche se affidato alla parola più alta può rimanere oscuro. Ciò spiega l’immensa fortuna musicale del testo di Dante, da Liszt (Dante-Symphonie, 1856),a Tschaikovskij (1876), Thomas (1887), Goetz (1876, Cagnoni (1878), Mancinelli (1907), Mercadante (1831), fino alla bellissima Frančeska da Rimini (1906) di Sergej Vasil’evič Rachmaninov. Sotto tale prospettiva, il finale della Francesca di Zandonai è terribile e meraviglioso. Abbiamo sempre osservato che il “castigo” inflitto da Dante ai due “lussuriosi” (essere avvinti in eterno, indissociabili) è in realtà un dono inestimabile: Dio, se è veramente Dio per definizione, non può non premiare i due amanti in nome di Eros, e infatti concede ad essi, in eterno, ciò che essi sognarono da vivi. In D’Annunzio-Zandonai-Ricordi, alla fine Gianciotto trafigge con lo stocco i due cognati mentre essi sono in piedi, avvinti, e si baciano. Il colpo mortale non li divide: avvinti essi scivolano a terra, e tali rimangono, eternamente appagati, nella «bufera infernal, che mai non resta»”.

 

 

 

 
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Da Novalis a D'annunzio al Dojo di aikido del Maestro Dionino Giangrande

Post n°981 pubblicato il 13 Aprile 2018 da giuliosforza

Post 901

Profluvie di parole al Dojo di Aikido di Dionino Giangrande. Come avviene quando si apre una diga dopo un lungo periodo di accumulo, diedi la  stura ai miei pensieri rischiando di travolgere e di annegare con essi e in essi me stesso e il mio eletto pubblico.  Lo sproloquio, perché di un vero e proprio sproloquio infine si trattò, aveva per titolo I Discepoli di Sais e il discoprimento dell’Isi velata . Un percorso mistico  dia-meta-paranoetico da Novalis a D’Annunzio, due ore di intricate redole verbali attorno a un sentiero per sé linearissimo, diretto all’illustrazione di un semplice assunto: le cose migliori del mondo non essere cose, l’essenza delle cose essere il Mistero, mistero ontologico partecipabile (dalla marceliana ragione partecipativa), non dimostrabile (dalla ragione oggettivante). E la principale strada (do) all’Essenza (ch’è armonia –ai- ed Energia –ki- del Tutto) essere, con (raramente) l’amore e (raramente) la fede, l’Arte in generale e la Poesia (Novalis: mistero sono le cose, e sta alla poesia svelarlo; D’Annunzio: l’Arte sforza il mondo a esistere) e la Musica (Marcel: La musique dit vrai, la musique seule) in particolare. Oupanishad, Tao, Zend Avesta, Bibbia, Platone, Plotino, Bruno, Pascal, Goethe, Beethoven, Novalis, Baudelaire, Rimbaud, Wagner, D’Annunzio, Onofri …chiamati a suffragare con la loro testimonianza il processo mistico che vede nell’attonimento panico, nell’estasi cosmica conseguente alla risoluzione della coscienza individuale nella Coscienza universale, nell’affogamento dell’io nell’Io assoluto, nella presa di coscienza  del proprio esserci nell’esserci di tutte le cose (tat twam asi, hae omnes creaturae in totum ego sum et praeter me aliud ens non est-), nell’oblio infine dell’arcana forma, della triste obliquità che pensa onofriane, e nel dissolvimento entro il polý pèlagos toû kaloû (il platonico ‘immenso oceano del bello’-l’isottiano ertrinken, versinken, unbewusst, höchste Lust) il suo culmine. Mistica sacra e mistica profana, cime d’Elicona e Carmelo coincidenti, amor sacro ed amor profano fusi in un atteonico bruniano  “eroico furore” umano-divino, come nell’estasi berniniana di Santa Teresa. Proposito improbo, percorso intricato. Ma in realtà nulla d’altro che pure suggestioni,  puri contagi, mi ero proposto, perché nulla di più ero e sono in grado di propormi nella mia azione didattica che concepisco tale solo SE scevra da ogni intenzione  didascalistica, non potendosi, me lo insegnò Giovanni Gentile, insegnare nulla a nessuno, un sapere non potersi trasmettere, potersi trasmettere solo un’informazione, che è come una derrata prima della sua consumazione ed assimilazione . Che se poi, contra spem,  il proposito  anche in minima parte si realizza, il merito va tutto a qualche  benevolo iddio.

Con mia grande sorpresa, gradito  dono del Maestro Dionino, memore forse delle mie passioni musicali senza pudore con altre esibite nei miei corsi universitari, un trio di piano, soprano e tenore fu chiamato a introdurre il nostro pomeriggio mistico  con l’esecuzione di due  delle diciassette romanze da Francesco Paolo Tosti composte su testi dell’amico di convento Gabriele  (il convento di Francavilla a Mare trasformato in cenacolo da Paolo Michetti, il pittore della grande tela de La Figlia di Iorio ora conservata nel palazzo della Provincia a Pescara, e  sicura ispiratrice del dramma omonimo dannunziano):  A Vucchella, un ‘divertimento’  delicato e giocosamente ammiccante, deliziosamente giocato su simbolismi tipicamente dannunziani , casti quanto sensuali; e l’ultima (Che dici, o parola del Saggio?)  delle quattro  canzoni d’Amaranta (la contessa Giuseppina Mancini,  una delle vittime, finita folle, del carnefice amoroso, coprotagonista del Solus ad Solam). Francesca Scorretti al piano. Filomena Forino soprano, Diego Caravano tenore, tutti e tre dojoisti, colmarono  delle loro note la grande sala del lasalliano Pio IX aventiniano, creando l’atmosfera più adatta all’evento e caricando il Vegliardo delle energie necessarie  per la gaudiosa … impresa. Un grazie al Maestro,  a Francesca, a Filomena, a Diego. Che le Muse continuino ad esser loro  amiche, li coinvolgano e travolgano nella loro danza, corifei l’Apollo solare,  Diòniso e Pan.

Sì comm'a 'nu sciurillo,
Tu tiene 'na vucchella,
'Nu poco pucurillo,
Appassuliatella
.

Meh, dammillo, dammillo,
È comm'a 'na rusella!
Dammillo, 'nu vasillo,
Dammillo, Cannetella!

Dammillo e pigliatillo,
'Nu vaso piccerillo,
'Nu vaso piccerillo
Comm'a chesta vucchella
Che pare 'na rusella
'Nu poco pucurillo
Appassuliatella.

 

Che dici, o parole del Saggio?

"Conviene che l'anima lieve,

sorella del vento selvaggio,

trascorra le fonti ove beve."

 

Io so che il van pianto mi guasta

le ciglia dall'ombra sì lunga...

O Vita, e una lacrima basta

a spegner la face consunta!

 

Ben so che nell'ansia mortale

si sfa la mia bocca riarsa...

E un alito, o Vita, mi vale

a sperder la cenere scarsa!

 

Tu dici: "Alza il capo; raccogli

con grazia i capelli in un nodo;

e sopra le rose che sfogli

ridendo va incontro all'Ignoto.

 

L'amante dagli occhi di sfinge

mutevole, a cui sei promessa,

ha nome Domani; e ti cinge

con una ghirlanda più fresca."

 

M'attende: lo so. Ma il datore

di gioia non ha più ghirlande:

ha dato il cipresso all'Amore

e il mirto a Colei ch'è più grande,

 

il mirto alla Morte che odo

rombar sul mio capo sconvolto.

Non tremo. I capelli in un nodo

segreto per sempre ho raccolto.

 

Ho terso con ambe le mani

l'estreme tue lacrime, o Vita.

L'amante che ha nome Domani

m'attende nell'ombra infinita.

 

E tanto per concludere con le provocazioni:

Il faut être toujours ivres (Baudelaire)

Un longue, immense, raisonné dérèglement de tous les sens (programma etico-estetico proposto da Rimbaud -ange ou démon?- al poète maudit)

P. S.

Casualità? Presentimento? Novalisiana Ahnung?

Recatomi dal fioraio qualche giorno prima dell’incontro in cerca di una pianticella  da sistemare in un angolo del pianerottolo di casa, optai per una pianta a foglie grandi e larghe, di cui non chiesi il nome. Ora lo so. Il suo nome è Amaranta, l’ ‘immarcescibile’.

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 
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