Creato da giuliosforza il 28/11/2008
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Messaggi di Maggio 2020

Dove si s-ragiona di Eternità. Riflessioni sul "Ritratto ovale" di Poe

Post n°1035 pubblicato il 23 Maggio 2020 da giuliosforza

955

   Non ripeterò con la maggioranza dei miei coetanei entsagenden, rinuncianti (vedi i Wilhelm Meisters Wanderjahre) allo Ja zum Leben sagen (vedi l’Also sprach Zarathustra), al ‘ dire Sì alla Vita’; non dirò: questa è l’età dei consuntivi, non faccio preventivi. Io dirò: non faccio consuntivi, faccio solo preventivi. E preventivi a lunghissima scadenza, una scadenza lunga quanto …un’Eternità. Proprio perché sono ‘vecchio’, perché il tempo misurabile, non la bergsoniana durata, s’avvia ormai al suo termine, non mi resta che colmare talmente di sensi il nunc da dilatarlo a beoziana “interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio”. Che è come dire: abolisco lo stesso concetto di tempo, perché esiste solo l’Eterno (esiste solo Dio) ed io sono eterno di tale Eternità. Son ‘vecchio’, ma secondo un tempo-spazialità (il tempo dell’orologio), non l’in-tempo-durata, flusso di coscienza. Perciò procedo esultante, con Friedrich, come verso una Sposa, verso una Sposa che ha nome Eternità, l’Eternità che amiamo.

Denn ich liebe dich, o Ewigkeit!”.

*

E. A. Poe, “Il ritratto ovale”.

   Mi è spesso avvenuto di riflettere sulla tragica situazione dell’artista che nell’atto stesso di creare distrugge, nell’atto stesso di offrirsi, sacerdote e vittima insieme, sull’altare dell’Arte per la redenzione del genere umano e del mondo dal brutto (l’unico ‘peccato’, l’unico ‘male’ che l’arte riconosce), con sé fatalmente sacrifica alla divinità vorace quelle persone e quelle cose dalle quale egli trae bellezza o alle quali conferisce bellezza. Autofago ed eterofago, divoratore di se stesso e dei suoi oggetti, mantide religiosa (mantide estetica!) che non solo dopo l’amore divora l’oggetto amato ma con esso se stessa. Amore e morte che soggetto e oggetto annullano, cor unum et anima una, che è poi il fine che ogni amore si propone.

   A fare queste considerazioni mi induce lo strano - ma quale racconto del Visionario non lo è? – racconto di Edgar Allan Poe, che leggo nella collezione ‘I Mammut’ de ‘I grandi tascabili economici Newton’ (Tutti i racconti, le Poesia e «Gordon Pym», seconda edizione, febbraio 1977, introduzione di Tommaso Pisanti): Il ritratto ovale.

   Il breve racconto narra di un non identificato signore gravemente ferito che dal suo domestico viene condotto a forza nella torretta di un castello abbandonato degli Appennini, uno di quei numerosi castelli che negli Appennini sono stati una ‘presenza accigliata’. Per inciso: ho potuto notare che Poe spesso e volentieri nella sua opera fa riferimento all’Italia e cita in originale espressioni idiomatiche nella nostra lingua; eppure non mi risulta che egli nei suoi vagabondari abbia mai lasciato gli Stati Uniti e sia mai arrivato da noi. Evidentemente si tratta solo di reminiscenze letterarie. Il fatto poi che il suo domestico si chiami Pedro, mi fa curiosamente pensare a Città di Castello e a Piero della Francesca, che pur essendo nato a Sansepolcro a Città di Castello lasciò molte delle sue opere più note… ma qui sono io che sto fantasticando. Nella torretta, dunque, tutte le pareti sono tappezzate di quadri di minore o maggior valore, e nelle sue notti insonni e nei suoi giorni di convalescenza l’innominato ospite attenua le sue sofferenze e si placa occhi e anima nella contemplazione dei dipinti che variamente mutano di senso alla luce notturna delle candele o a quella diurna che cade dall’alto della torretta o entra  dai vasti vani delle finestre, ad ogni ora del giorno in toni diversi, più chiari meno chiari, più intensi meno intensi. Con suo grande stupore una notte s’avvede di un quadro depositato in una nicchia nascosta da una colonnina: un ritratto ovale, appunto, della cui storia e del cui autore chiede a un catalogo nel quale sono illustrati tutti i quadri esposti. E da esso legge una dettagliata illustrazione, parte della quale io qui di seguito trascrivo, perché è quella che ha impressionato anche me e ha stimolato le mie riflessioni.

   «…Era una fanciulla di rarissima bellezza, e non meno soave che piena di gioiosità. E funesta fu l’ora in cui vide, amò e sposò il pittore. Lui appassionato, sollecito studioso, austero, e già sposato con la sua Arte, lei una fanciulla di rarissima bellezza, e non meno soave che piena di gioiosità; tutta luce e sorrisi, vivace come una cerbiatta; amante e appassionata di tutte le cose; odiava solo l’Arte, che era la sua rivale; temeva solo la tavolozza e i pennelli e gli altri strumenti spiacevoli che la privavano della vista del suo amato. Fu dunque una cosa terribile per questa donna udire il pittore parlare del suo desiderio di ritrarre anche la sua giovane sposa. Ma alla fine, mentre l’opera si avvicinava alla conclusione, nessuno fu più ammesso nella torretta; divenuto folle nell’ardore della sua opera, il pittore distoglieva raramente gli occhi dalla tela, anche solo per osservare il volto della sposa, Ma era umile e obbediente, e posò per molte settimane docilmente nell’oscura e alta camera – nella torretta dove la luce scendeva sulla bianca tela solo dall’alto. Ma egli, il pittore, si gloriava della sua opera che procedeva d’ora in ora, di giorno in giorno, Era un uomo appassionato, ombroso, e lunatico, che sognava a occhi aperti; e non voleva accorgersi che la luce che cadeva così spettralmente in quella solitaria torretta faceva deperire la salute e la vivacità della sua sposa, che sfioriva visibilmente per tutti tranne che per lui. Tuttavia ella sorrideva ancora e sempre, senza lamentarsi, perché vedeva che il pittore (che aveva grande notorietà) traeva un piacere immenso e ardente dal suo lavoro, e lavorava giorno e notte per ritrarre lei che tanto lo amava, ma che diveniva di giorno in giorno più spenta e debole. E in verità chi contemplava il ritratto parlava della sua somiglianza in parole sommesse, come di una grandissima meraviglia, una testimonianza non meno della capacità del pittore che del suo profondo amore per colei che veniva ritraendo in modo così incomparabile. Ma alla fine, mentre l’opera si avvicinava alla conclusione, nessuno fu più ammesso nella torretta; divenuto folle nell’ardore della sua opera, il pittore distoglieva raramente gli occhi dalla tela, anche solo per osservare il volto della sposa. E non voleva accorgersi che i colori che stendeva sulla tela erano sottratti alle gote di lei che gli sedeva vicino. E quando molte settimane furono passate, e solo poco rimaneva da fare, una pennellata sulla bocca e una sfumatura sull’occhio, lo spirito della donna guizzò di nuovo come la fiamma nel bocciolo della lampada. E allora fu data la pennellata, e la sfumatura fu posta; e, per un attimo, il pittore rimase estasiato davanti all’opera che aveva compiuto; ma subito dopo, perso ancora nella contemplazione, divenne tremante e molto pallido, e atterrito, gridando con una voce forte: “Quella è davvero la Vita stessa!” si voltò improvvisamente a osservare la sua amata: Era morta!».

   E non fu Frine distrutta dopo che Prassitele le rubò la bellezza per regalarla alla pietra? E che accadde a Paolina, l’amante di tutti, e fors’anche un poco di suo marito, dopo che Canova l’ebbe defraudata del diafano fascino di splendida ventenne per trasferirlo al marmo?  E forse miglior destino toccò a Monna Lisa Gherardini del Giocondo, a Margherita Luti ‘la Fornarina’ e alla più tragicamente sfortunata di tutte Jeanne Hébuterne?

Guardatevi dagli artisti, quelli grandi, ladri d’anime e di corpi. In cambio di una immortalità in cornice di cui non voi, altri godranno (e lautamente vivranno), vi derubano dell’essenza, vi condannano a morte. Vi svuotano della Vita, vi riducono a larve. Se amate vivere, morite all’Arte.

   E così anche tutta la mia roboante Estetica è sistemata.   

________________

 Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano).

 

 

 

 

 

 
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Cornucopia Rai5. Grandi manovre 1937-1938. Ezio Bosso...

Post n°1034 pubblicato il 18 Maggio 2020 da giuliosforza

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   L’abbondanza con cui grazie alla clausura la Rai sta rispondendo alle esigenze del nostro spirito aiutandolo a spezzare le catene, ad abbattere le pareti della prigione domestica e ad elevarsi nei cieli per lo più purissimi (in apparenza, ché li sappiamo inquinati dal soffocatore di ansiti e apportatore di morte) di questi giorni di silenziosa primavera in cui non s’odono canti d’uccelli e non si scorgono voli di rondini, quell’abbondanza, per fortuna, non scema, anzi col passare dei giorni s’accresce. Una vera e propria cornucopia. Rai5 porge giornalmente ai nostri appetiti fin troppi stimoli, difficili da essere tutti raccolti e soddisfatti, fin troppe son le derrate che mette a nostra disposizione in poesia in musica in prosa mattino pomeriggio sera e notte. Ma è bene così: solo una tavola riccamente imbandita consente una scelta. Per mio conto negli ultimi giorni mi sto ‘religiosamente’ (avverbio da intendere alla lettera, vale a dire come  rafforzamento dell’atto del credere e del collegarsi -religo-  a una sacralità, in questo caso alla sacralità dell’arte in generale e della musica in particolare, con lo stesso intenso fervore  con cui il credente s’avvicina  alla  Messa al Rosario o ad altri uffici sacri, di quelli essi pure innumerevoli ai quali si dedicano, in questo periodo in cui tv pubbliche e private fanno a gara a intasar l’etere di ogni tipo di implorazioni, tanto da averne il buon Dio stesso le orecchie disturbate  -  questa forse  la spiegazione dei suoi… silenzi?); mi sto dunque religiosamente dedicando con lo zelo di un devoto ai riti estetici mediatici; e anch’io da essi trovo forza e consolazione e serenità, quanto basta  per impedire alle mie angosce di spingermi sull’orlo della depressione se non della disperazione.

   Di tutta la ricchezza messaci a disposizione, le mie preferenze vanno alla musica polifonica rinascimentale a cappella, a quella sinfonica romantica e postromantica anche operistica, al balletto, alla prosa drammatica d’ogni tempo purché di grande Autore e di grande spessore. Così, solo per dire degli ultimi quattro giorni, mi son goduto moltissimo Suor Angelica, dal ‘Trittico’ pucciniano, ed ho finalmente capito perché l’Autore la preferisse al Tabarro e a Gianni Schicchi; l’Orfeo di Gluck (soprattutto la ‘Danza degli spiriti beati’ - di cui dall’infanzia suono con sempre rinnovato diletto  la trascrizione per harmonium e organo fattane da Louis Raffy - e lo struggente ‘Che farò senza Euridice, che farò senza il mio Ben’; ma anche un magnifico Don Carlo che segna il cedimento verdiano alle suggestioni, solo ad alcune suggestioni, dell’amor nostro Richard. Per la prosa ho scelto, e non poteva essere diversamente, il Dialogo delle Carmelitane di Bernanos e Romeo e Giulietta nello storico allestimento di Orazio Costa Giovangigli del 1977 con Gabriele Lavia e Ottavia Piccolo. Dei balletti, un genere che esalta la vittoria sulla forza di gravità, e per questo motivo prediletto da Nietzsche e, si parva licet, da Garaudy (vedi Danser sa vie), giorni orsono godetti sì con Cenerentola di Prokoviev, ma non quanto stamane con La bella addormentata nel bosco di Tchaikowsky nel sontuoso allestimento del Royal Ballett del Covent Garden del 2006, con la romena Alina Cojocaru e il nostro danseur noble Federico Bonelli, due fenomeni, due folletti che non vedi quasi toccar terra, leggermente e leggiadramente il suolo appena sfiorando solo a riprender slancio per nuovi voli. Che coordinazione il numerosissimo insieme, e che pas de deux! La perfezione esiste.

 *  

   Grandi Manovre 1937-1938.

   L’inesauribile curiosità ha fatto imbattere il mio tipografo di fiducia Enrico Piacentini, titolare dello storico stabilimento Fabreschi di Subiaco, in tre documentari dell’Istituto LUCE (L’Unione Cinematografica Educativa) degli anni Trenta che ho trovato intatti e interessantissimi e mi hanno violentemente e nostalgicamente riscaraventato agli anni della mia primissima infanzia, nella quale, cinquenne, ebbi modo di vivere gli eventi in essi documentati. Come tutti sanno o dovrebbero sapere, perché si tratta di una grande cosa, Istituto Luce e Cinecittà (oggi confluiti in un unico ente, Istituto Luce Cinecittà) furono voluti da Mussolini e da suo figlio Vittorio, innamorato della Decima Musa e protettore dei suoi adepti, quale strumento all’avanguardia non solo della propaganda di regime, ma anche come nuovissimo, allora avveniristico, strumento didattico per l’introduzione alle nuove tecniche e ai nuovi linguaggi cinematografici, e che ancora oggi svolge un ruolo di primo piano in Italia e nel mondo. In previsione della Guerra ormai prossima e del più che probabile ingresso dell’Italia in essa, come avvertiva Mussolini nei suoi sempre più frequenti messaggi alla Nazione (realisticamente, checché ne dicano pseudo storici, cronisti variamente appigionati che fanno  pedissequamente proprie le tesi dei vincitori- una nostra neutralità o una nostra alleanza con Francia e Inghilterra non sarebbe stata allora nemmeno pensabile: si sarebbe in pochi giorni fatta la fine degli altri paesi europei, con conseguenze ben più nefaste a causa della nostra posizione geografica)  si tennero in varie parti d’Italia le così dette Grandi Manovre (a rivederle oggi sembrano dei giochini da ragazzi, tali le loro dimensioni e la risibilità degli equipaggiamenti: era chiaro che a sostenere l’impegno maggiore sarebbe stata la terribile macchina bellica tedesca, attrezzata per la ‘guerra lampo’ per  un pelo fallita, per distruggere la quale sarebbe stata, come poi fu, necessaria la coalizione del mondo intero, i cui tre quarti delle terre emerse era ancora soggetti ai secolari colonialismi inglesi e francese).

   Dunque nel  Giugno del 37-38 si tennero le Grandi Manovre, e per quanto riguarda l’Italia centrale fu scelta la zona variamente accidentata che va da Avezzano, sale al Monte Marsia, ridiscende attraverso i colli di Montebove alla Piana del Cavaliere per poi, risaliti i Simbruini, discendere a Subiaco: una vasta zona topograficamente adatta a riprodurre in piccolo la topografia dell’Italia Intera, se si escludono le Alpi e i rilievi più elevati. Nei paesetti, compreso il mio, circondanti la zona delle operazioni, si creò una immaginabile grande agitazione e, soprattutto in noi più piccoli, una grande ansia di vedere: correvamo tutti, a difficoltà contenuti dal servizio d’ordine, come ad uno spettacolo all’aperto, a sceglierci i posti migliori per vedere le operazioni della fanteria, della cavalleria e della artiglieria. I nostri villaggi, posti a corona della Piana ad una altezza media di novecento mille metri, erano le postazioni ideali per il controllo dello svolgimento della manovra: il mio in particolare, col suo ottimo belvedere e per essere posto al centro del cerchio delle operazioni, era ideale, e per questo motivo lo stato maggiore pose da noi la sua principale postazione d’osservazione. Ricordo l’andirivieni d’ufficiali attrezzati di pistoloni e di grossi cannocchiali, le staffette delle moto Guzzi per la via romana ancora appena sterrata e poco più grande di un tratturo, e dei cavalli su per le Coste per i sentieri campestri; ricordo il rombo dei pochi e piccoli aerei, le raffiche delle fucilerie (si sparava ancora col 91/38, lo stesso fucile ancora in dotazione all’epoca della mia naja) gli spari delle contraeree nascoste nella Macchia di Oricola. Si sa che le Manovre si svolsero alla presenza non solo del Duce ma anche del Re Vittorio Emanuele III, vulgo Pippetto, così irriverentemente soprannominato per la sua piccola statura (lui e la sua Consorte, molto alta e molto bella, Elena di Montenegro, quando erano accanto formavano l’articolo il a rovescio). Ma della sua venuta  non ho memoria, mentre lucido ricordo ho di Mussolini, ancora, pur nei suoi cinquantacinque anni,  molto aitante e sicuro di sé nelle sue storiche pose (e pensare che solo sette anni dopo avrebbe fatta quell’orrenda fine di cui, non perché fine ma perché orrenda, ci saremmo dovuti vergognare nei secoli di fronte al mondo), che, come sempre sorridente e carezzevole saluta gli astanti non negando a noi più piccoli (io avevo allora cinque anni) una carezza e un abbraccio. Non ricordo se fui tra coloro che ebbero le sue confidenziali attenzioni (forse no, visto che alle Elementari sarei stato tra i pochi a rifiutarsi di rispondere al ‘Saluto al Duce!’ sfidando l’ira dei maestri, o, alle adunate del sabato pomeriggio, del federalino locale). Le avessi avute, sinceramente non me ne vergognerei.     

 *

   Ezio Bosso se ne è andato, e non per corona virus. Al comune lutto io debbo unire il mio grande compianto, che oltre che dolore è anche rimorso, per averne su questi spazi recentemente criticato l’ultima presenza televisiva, una sorta di lezione di educazione all’ascolto alla quale, oltre a un pubblico giovanile, partecipavano come ospiti due noti giornalisti e due o tre popolari uomini di spettacolo, la cui presenza avvertii del tutto inadeguata e pleonastica e i cui interventi di una banalità e di una ovvietà tali da risultare  offensivi per  la Musica, della quale continuo testardamente, forse errando, a ritenere caratteri fondamentali ‘sacralità’ ed esotericità.

   Marco Tutino ha scritto che stava progettando con Bosso un libro a due mani dal titolo: “La Musica è la Cura”: ne sarebbe risultato sicuramente un gran bel libro. Ma nulla vieta che ora lo scriva Tutino da solo dedicandolo al suo grande Amico, in degno omaggio alla sua memoria. Nessuno dubita che la Musica ‘curi’, come del resto la filosofia (è di Lou Marinoff un libro recentemente uscito da noi dal titolo originale, ma riduttivo, “Platone è meglio del Prozac”): resta solo da vedere da che cosa la Musica curi. Ora Bosso dalla sua eternità, per chi diversamente crede dalla sua ‘eterea’ corporeità, può forse aiutarci ad intenderlo, non l’avesse già fatto con la sua testimonianza di uomo di dolore nei cui occhi brillavano infantile stupore ed angelica serenità. Luce e ‘Gioia, bella scintilla divina’, attorno a sé diffondeva Bosso nell’atto di ‘fare’ musica. Ora continua a farlo, risommerso nella Musica dei Mondi.  

 *

Da oltre tre mesi dura ormai la rigidissima clausura. Il mondo si è ridotto a quello che osservo dal mio balcone, il mio spazio si è ristretto a quello che percorro da una finestra all'altra del mio piccolo appartamento. Ma mentre la percezione dello Spazio si restringe, quella del Tempo si dilata. L'una è inversamente proporzionale all'altra, tempo e spazio come categorie dello spirito si oppongono e si attraggono a vicenda, insieme fondendosi o respingendosi. E penso parole che non dico, dico parole che non penso, cioè non penso autenticamente né autenticamente dico, se "Parola è scintilla dell'Atto, favilla del ferro percosso, beltà dell'incude", se vero Verbum è Tat, Azione inverantesi in Atto, e se "dum medium silentium tenerent omnia", l'"omnipotens Sermo" discende dalle sue sedi regali 'incarnandosi' e 'incosandosi'. Colmo il mio Tempo dilatato nutrendolo di altre parole non parole, parole lette non pensate né pronunciate, suoni vacui e fatui che accavallandosi e urtandosi si fanno rumori; e sforzandomi di ridare ordine alle ossa sparse dell'ossario del mio diario virtuale. Ma le oltre duemila pagine, i milioni di parole (ossa rinsecchite, fra sé per lo più spesso cozzanti) non si ricompongono in ordinata organica unità: non odo squillare le trombe della Valle di Giosafat né il novello fiat rivificatore del Dio. Resta l'ossario, permangono il Vuoto, l'assoluto Silenzio, nell'assordante fragore d'un tempo non-Tempo, non più platonica "immagine mobile dell'Eterno". Ma per ventura c'è Lei, la mia Donna fedelissima e dilettissima, c'è Frau Musika, a colmare di Sé gli spaventosi Vuoti e gli spaventosi Silenzi della mia dimora deserta. E sopravvivo.

 *

   Nel mio "Parco delle Tartarughe" 'Proserpina risorse e il mondo infiora". Ma quest'anno tra i verdi giovani e i mille colori di Flora, sogghignante è in agguato, invisibile, Thanatos.

 *

   "Denn was nicht gesellig gesungen werden kann, ist wirklich nicht Gesang, wie ein Monolog kein Drama". (Goethe, dal Mit Goethe durch das Jahr 2020). "Ciò che non può essere cantato in coro non è realmente un canto”.

Discutibile.

 *

   Il 12 aprile di 59 anni fa alle 9.07 Yuri Gagarin spiccava il volo per la prima impresa interspaziale, celebrata retoricamente da noi da Quasimodo. Agli uomini della mia generazione non mancò nemmeno questa esaltante esperienza. Conquista o violazione?

 *

   Forza, Elvida! (leggi Elvira Frosini e Daniele Timpano, artisti di teatro tra i più nuovi e geniali, che il demone Corona sta tentando di fiaccare, come tutto il resto delle numerose schiere euterpidi, calliopee, melpomenee). Se "l'arte sforza il mondo a esistere", voi artisti siete di tale esistenza i demiurghi. Ne avete coscienza abbastanza da raccoglier la sfida?

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   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano).

 

 

 
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